La provinciale 48 è un noioso rettilineo che divide in due la pianura. Di tanto in tanto si incontrano gruppi di case che affacciandosi sul nastro di asfalto interrompono la monotonia del viaggio.
Di giorno si può godere di un panorama discreto: alberi monumentali che sorprendono la piatta continuità dei prati, qualche dosso a scavalcare l’idea di un torrente e un crinale di colline in lontananza che fanno a gara con la nebbia. Le città, i paesi e tutti gli assembramenti umani che riuniscono un numero di abitanti superiore ai dieci, sono lontani da quella via, semplicemente nati e cresciuti da un’altra parte. Gli incroci sono rari e, quando si incontrano, vengono anticipati da una serie di cartelli e ammonimenti sul pericolo di incorrere in paurosi incidenti. Qualche volta la ferrovia fiancheggia l’asfalto, tenendo compagnia agli automobilisti sempre in procinto di cedere al sonno e talvolta addirittura si manifesta, attraversando la strada in corrispondenza di un passaggio a livello che si erge colorato come un miraggio nel deserto.
Di notte, invece, la provinciale si trasforma in un posto freddo e impersonale, sempre uguale a se stesso. Un chilometro dopo l’altro ci si può alienare dalla realtà, morire di noia o semplicemente dimenticarsi di esistere.
Io sono morta, ed è successo proprio in quel posto.
Era una notte di tarda estate, aveva appena finito di piovere e i fari dell’auto facevano fatica a infrangere la barriera nera del buio. Niente luna, naturalmente, nessun lampione nel raggio di chilometri e poca, pochissima benzina nel serbatoio.
Io e la mia amica Gina, di ritorno da una stupida festa di compleanno, piena di ubriachi e vomito in tutti gli angoli della casa con eccezione della tazza del cesso, avevamo atteso pazienti che almeno la metà dei convenuti se ne fosse andata. Lo avevamo fatto per levare il disturbo senza essere additate come due con la puzza sotto il naso. La condizione si era realizzata quando mancava più o meno un quarto alle due di notte, e quando Mario, Lino, Paolo e quella banda di ubriachi che componevano la compagnia di amici più sfigata del nord Italia, si erano assentati per fumare senza più rientrare, forse indispettiti dalla pessima musica che vibrava come una scorreggia dalle casse rotte, forse perché semplicemente non avevano più nulla da chiedere alla serata. Negli anni ’80 era così, si consumava il repertorio delle hit e poi si rimaneva sistematicamente a corto di idee, con la permanente messa a dura prova dall’aria umidiccia dell’ambiente e un mal di piedi per il quale era facile individuare il colpevole.
Uscimmo di fretta, saltando la metà dei convenevoli e buona parte dei saluti.
All’inizio mi ero annoiata.
Lo stato d’animo si era instaurato fin dalle fasi di studio, durante le quali i numerosi invitati fingevano di essere educati e armati delle migliori buone maniere.
Dopo poco il ghiaccio era stato rotto ed erano partite le avances dei maschi.
Ce n'erano di interessanti, lo ammetto, tutti con le loro belle chiome tenute a spuma e quei giovani sederi sodi, messi in evidenza dalla vita alta dei pantaloni. Uno in particolare, un certo Ludovico, aveva le spalle larghe e un paio di occhi intelligenti che ti sapevano guardare. Odorava di un buon dopobarba ed era in grado di intrattenere una conversazione. Lo aveva dimostrato parlando con me per un paio d’ore e spaziando brillantemente fra argomenti più disparati, senza che mai una proposta di appartarci fosse stata fatta. Nessun invito a ballare, nessun tentativo di cacciarmi la lingua in bocca. Un ragazzo da sposare, avrebbe detto mia madre, e il fatto che il bicchiere con il cocktail rosso gli si era riscaldato in mano senza essere bevuto, le avrebbe dato ragione.
Gina, la solita birichina con poche inibizioni, che avevo imparato a conoscere fin dalle scuole elementari, aveva trovato il suo.
Era sparita nel giardino sul retro, dove la padrona di casa aveva messo a disposizione una serie sedie a sdraio per dare sfogo ai bassi istinti. Lo aveva fatto in compagnia di uno spilungone pallido come un cencio, peggiorato da un abbigliamento in stile dark in totale contrasto con i capi da paninaro che andavano per la maggiore sotto le luci della discoteca, un angolo della casa piuttosto ben accessoriato all’uso.
Era stata fuori dalla scena per un’ora o forse più, infischiandosene dei pezzi riempipista che il dj non lesinava a fare girare sul piatto e dei lenti che erano seguiti, ispirazione e spunto per quelle toccatine e per quei baci caldi e sudati che erano stati generosamente dispensati. Era tornata sistemandosi i collant sotto la gonna, con la faccia tirata, i capelli scompigliati e la camicetta stropicciata come se fosse rotolata al fondo di una scarpata. Le bretelle del reggiseno, che si vedevano in trasparenza sotto la seta bianca, erano attorcigliate come degli elastici finiti nelle mani di un bambino nervoso. Aveva l’aria di chi arriva da un incontro di wrestling con Tiger Mask. Non le chiesi nulla. Era fin troppo evidente che quello spilungone dark doveva avere dei numeri da circo, tutti da esibire sotto le lenzuola o alla luce fioca dei lampioncini. Le discussioni sull’opportunità di farsi quel soggetto, o perlomeno di farselo senza averlo costretto a prolungare il corteggiamento per almeno dieci minuti, le avremo prese in esame poi, il giorno seguente e dopo una bella dormita.
Il primo errore fu quello di non fermarsi al distributore automatico, il secondo quello di sbagliare strada.
Confuse da una cartellonistica che sembrava essere caduta prima ancora delle foglie in autunno, girammo a destra cinque chilometri prima del necessario.
Avremmo giurato che era tutto sotto controllo, che quel posto l’avevamo visto nella direzione contraria durante il viaggio di andata, che il cascinale di mattoni rossi nell’incrocio era il medesimo che avevamo ammirato alla luce del giorno e che anche il pilone votivo, con la madonnina messa in sicurezza dietro una robusta grata in metallo, poteva essere l’unico di tutta la regione.
Dopo venti minuti di viaggio sulla strada bagnata, con i nasi messi a baciare il parabrezza e un’apprensione che saliva in maniera direttamente proporzionale ai chilometri percorsi, ci trovammo con la spia del carburante fissa sul rosso, un deserto di prati e campi mietuti intorno a noi e la netta sensazione che, pur pentite, non saremmo riuscite a tornare indietro fino alla stazione di servizio, quella che avevamo visto sotto una pensilina dipinta di colori sgargianti e illuminata a giorno.
«Se andiamo piano ce la facciamo…» Disse Gina, facendo sfoggio del suo inguaribile ottimismo. No so quali fossero i suoi piani; forse intercettare una strada perpendicolare che ci avrebbe ricondotte a quella di casa, forse confidare nella comparsa di una pompa di carburante. Tutto intorno, naturalmente, non c’era né l’una né l’altra cosa, solo un buio che premeva come l’acqua sul fondo dell’oceano.
«Rifacciamo, torniamo indietro. Che dici Gina?»
La vidi rallentare e pensare.
Da sempre era la mia migliore amica e, anche se non lo volevo ammettere, era anche l’unica. La conoscevo da una vita e sapevo che quando dava aria al cervello tendeva a spingere con la lingua sotto le labbra. Lo fece e contemporaneamente, aiutandosi con la luce di cortesia, controllò la tenuta del trucco nel retrovisore. Aveva due occhi pesti che sembrava avesse fatto sesso con un carro armato, invece che con quel figlio della morte vestito come un prete. «Dico che se torniamo indietro rimaniamo a piedi di fisso. Meglio continuare fino al prossimo paese...Non vediamo una casa da mezz’ora e quindi sono nostre le possibilità di incappare in un centro abitato.»
Non l’avevo mai apprezzata come amante della statistica, ma quel modo di definire le possibilità come “nostre” ebbe l’effetto di tranquillizzarmi un po’. Allungai le gambe sotto il cofano e mi sforzai di essere fiduciosa.
Dalla cassetta infilata nell’autoradio, i Bauhaus stavano cantando Stigmata martyr.
Strada, asfalto bagnato che si mangiava la luce dei fari e freddo.
Complice la gonna corta, che quella sera aveva fatto interessare alle mie gambe più di un animale da festa, sentivo freddo e un leggero intorpidimento alla punta dei piedi. Chiesi a Gina di accendere il riscaldamento dell’auto e lei lo fece.
Nei dieci ulteriori chilometri che avevamo percorso, nessun paese, incrocio, cartello o distributore, solo qualche strettoia che interrompeva la noia e, di tanto in tanto, dei guard rail che fornivano l’indizio di una curva. Gina stava cominciando a innervosirsi e guidava con una sola mano sul volante, mentre l’altra indugiava sul ginocchio.
Il passaggio a livello ci lasciò attraversare sotto le sue sbarre erette.
Il grosso semaforo spento sonnecchiava in punta al suo palo e delle barriere in cemento consumate dal tempo facevano fatica a reggere il loro stesso peso. Le ortiche attorcigliate alla loro base se le stavano lentamente digerendo. I sobbalzi, che l’auto affrontò superando il binario unico, fecero singhiozzare il motore in debito di benzina.
Ci guardammo.
Come al solito Gina riusciva a nascondere tutte le difficoltà, semplicemente calandosi in faccia una maschera che sapeva pareggiare la sua faccia a un sedere. Di solito funzionava, ma non quando si aveva a che fare con un rapporto fra cavalli motore da nutrire e carburante scarso come l’acqua nel deserto.
Dopo nemmeno cinquecento metri l’auto si fermò tossicchiando.
Gina non si curò neanche di accostare. Non avevamo incrociato nessuno in tutto il percorso e nemmeno qualcuno ci aveva sorpassate. Come al solito, come ai tempi della scuola, degli esami e delle feste in discoteca eravamo noi due, spaurite, indifese e a cinque ore almeno dal sorgere del sole. Prima ancora che ci fossimo fermate aveva già inserito con un pugno le quattro frecce di emergenza
«Bene Gina, e adesso?»
Mi guardò da dietro il mascara mischiato alla stanchezza.
Le lacrime erano colate dagli occhi arrossati. Tradendola, avevano lasciato impresso il loro segno come la ruggine sotto una ringhiera. «E adesso niente, vedi là?»
Guardai in punto lontano che mi aveva indicato. «C’è un semaforo. Non mi sembra tutta sta notizia.» Obiettai, mentre cominciava a suonare Rosengarden Funeral of Sores. Gina si mostrò indispettita.
«Se c’è un semaforo, bella, è perché c’è traffico, e se c’è traffico, bella, è perché c’è gente, e se c’è, gente…»
La interruppi e finii io stessa la frase ondeggiando la testa nei due sensi. «E se c’è gente è perché c’è un paese e se c’è un paese è perché c’è un cazzo di distributore.» Vidi il suo pollice tirato su per fare un ok tutt’altro che convinto.
Aveva scopato la mia amica, lo sapevo, ma a vederla ridotta così pareva appena uscita da una fossa al cimitero. Pensai che era vero quel che si diceva, che ci sono persone talmente cariche di energie negative che sono capaci di trasmetterle con l’amplesso. Fui tentata di chiederle cosa le era preso per decidere di darla via a quella specie di becchino, ma rinunciai.
«E allora andiamo a cercare un automatico.» Guardai nel portafogli. «Viene anche bene che ho due pezzi da cinquemila lire.»
«Cazzo bambina, ma dove li prendi tutti quei soldi?»
«Me gli ha dati il papi, dove vuoi che li abbia presi?»
Gina mise la mano sulla maniglia. «Invece il mio, di papi, è così previdente che nel cofano tiene sempre una tanica per la broda. Abbiamo due papi che si completano a vicenda come noi, gioia!»
Pensai che il suo papi avrebbe potuto prestarle la macchina con qualche litro di carburante nel serbatoio, o almeno educarla a fare attenzione alle spie del cruscotto.
Scendemmo nel lampeggiare alternato delle luci di emergenza e da fuori vidi che l’agognato semaforo era piuttosto lontano. Proiettava le sue luci intermittenti che si spalmavano sull’asfalto, lunghe e liquide. Guardai sotto le mie scarpe i tacchi dodici e quelli di Gina, ancora più spericolati. Saremmo arrivate al fantomatico paese all’alba e per un momento fui tentata di rinunciare a mettermi in cammino.
Non ne ebbi il tempo. Gina era già partita.
Zoppicando vistosamente aveva guadagnato una decina di metri di vantaggio. Sculettava sotto la gonnellina mettendo in mostra un vistoso squarcio nei collant, che appariva e scompariva al ritmo delle frecce. Con quella tanica in mano, che di tanto in tanto andava a sbattere contro le punte dei guard rail in cemento, sembrava concentrata nell’attirare l’attenzione di qualche automobilista.
«Aspetta Gina!» Urlai claudicando, con i tacchi che sprofondavano nella banchina in mezzo all’erba. Dopo qualche passo abbandonai la prudenza e mi misi a camminare nel bel centro della provinciale.
«E aspetta…»
Ricevetti in cambio il dito medio sollevato all’uopo. C’erano delle volte che l’avrei ammazzata quella lì!
Tentai di accelerare l’andatura ma non trovai il ritmo della mia amica, che dopo pochi secondi aveva già messo una bella distanza fra me e lei e guadagnava punti in direzione del semaforo, ora rosso per noi e verde per gli altri, subito dopo all’opposto.
Mi girai e constatai che la nostra auto si era vistosamente rimpicciolita, con le luci lampeggianti che sembravano occuparne la stessa grandezza.
«Aspetta Gina, cazzo! Ci teniamo compagnia.»
Lei non si girò nemmeno. La sentii rispondere dopo breve, lontana e quando ormai la luce del semaforo la stava tingendo di un rosso inferno. «Bella, avremo un eternità per tenerci compagnia…»
La prima storta mi sorprese con una frustata che si trasmise dal piede lungo la gamba, coinvolgendo la schiena e finendo col provocarmi un dolore al collo simile a un ceffone. Mi trovai rannicchiata a massaggiarmi quel che rimaneva della caviglia, quando Gina era già scomparsa al di là dell’incrocio. Provai a recuperare ma un dolore si insinuò nel lato del piede e mi prese in ostaggio.
Dopo dieci passi, mi arresi.
Sedetti su un muretto in pietra al limitare della carreggiata e attesi.
Come sempre, quando la vita prende una piega sbagliata, si annega il cervello nelle acque torbide dei rimorsi. Quella notte mi misi a rivangare su quel ragazzo educato, uno dei pochi in quella porcilaia. Mi aveva filata per buona parte della festa. Era stato timido, rispettoso, quasi commovente nei suoi modi gentili. Al contrario del ragazzo in nero che aveva approfittato della vena scopereccia di Gina, non aveva osato prendere iniziative in quel senso e infine non aveva battuto chiodo. Forse avrei dovuto incoraggiarlo, abbassare di qualche centimetro le mura che circondavano la mia persona, lasciarlo invadere il castello, insomma. Mi preoccupai anche di avergli provocato un patema d’animo, una crisi di fiducia. Chissà, magari per colpa mia sarebbe un giorno diventato prete.
Le mie elucubrazioni, fatte con il muretto che mi gelava il sedere e le gambe seminude strette assieme come se fossero incollate, finirono nel momento in cui un paio di fari apparirono alle mie spalle, lontani ma già chiaramente percettibili.
Dopo breve cominciai ad avvertire il rumore di una macchina molto potente, non sportiva nel senso classico o di lusso, ma con un motore sovralimentato e spinto da tanto sprezzo del pericolo. Quando passò, credo che l’autista non mi avesse nemmeno vista.
Lo spostamento d’aria mi spettinò e si insinuò con un refolo freddo sotto la gonna.
Guardai in direzione del semaforo e, incredibilmente, vidi una seconda auto sopraggiungere dalla strada che si innestava sulla provinciale.
Dal mio punto di osservazione si distinguevano i colori: l’auto veloce sarebbe passata con il verde che era appena scattato, l’altra avrebbe dovuto fermarsi al rosso imperativo, che si era appena acceso sostituendo la breve esistenza del giallo.
Ma le cose non andarono così.
Il semaforo, che fino a quel momento aveva alternato meccanicamente i colori che regolavano da sempre i cicli universali del traffico, si assestò sul verde, e da tutte e due le parti.
Scattai in piedi, disinteressandomi del dolore alla caviglia che cominciava a somigliare al morso di un cane e gridai. Lo feci con tutto il fiato che avevo in gola senza ottenere nulla.
I due automobilisti vedevano entrambi la via spianata, il permesso di passare, l’incoraggiamento a far rotolare le ruote su quel nastro di asfalto nero. Nessuno si preoccupò del malfunzionamento del semaforo, di quella anomalia che non si era mai verificata nella storia, dall’invenzione dei relè, delle lampadine e della stessa energia elettrica.
Il semaforo era verde per entrambi e questa, per loro, era stata una buona ragione per morire.
Vidi per primo un braccio mozzato.
Era nel centro della strada, a cavallo con la linea della mezzeria. Quando passai, la mano si aprì per un riflesso nervoso, come se volesse salutarmi. Lo schianto era stato così violento che un lampo di luce l’aveva preceduto per un istante e poi un tuono, l’eruzione di un vulcano, l’ultimo barrito di un elefante morente.
Le auto avevano rimbalzato l’una contro l’altra ed erano ritornate beffardamente da dove erano venute, ognuna sulla sua strada. Dopo breve, i frammenti erano precipitati sull’asfalto dando origine a un macabro spettacolo di stelle cadenti. Una pistone rovente si era sbriciolato nell’impatto e una lama di sangue rosso aveva cominciato a scorrere verso il palo del semaforo.
Camminando come un automa la scavalcai per non imbrattarmi le scarpe.
Il motore dell’auto spinta aveva un cuore rosso e pulsante di fiamme vive. Sezionato come da una sega, sembrava uno di quei modelli esposti nelle scuole di guida per insegnare la meccanica e la logica dei quattro tempi. La coppa dell’olio stava vomitando un rigurgito nero e una catena penzolava verso il basso.
L’auto dell’altra direzione era voltata sottosopra, con l’unica ruota superstite che girava cigolando. Rimasi come ipnotizzata da quello spettacolo e i piedi che vidi sbucare dal baule erano davvero troppo distanti da quella testa sanguinolenta con gli occhi spalancati nel vuoto, rimasta schiacciata fra il montante della portiera ed il cruscotto.
Vomitai senza che nessun sintomo mi avesse avvertita.
Dopo i miei conati mi accorsi che il silenzio era impressionante.
Si avvertivano i ticchettii delle lamiere che sembravano volessero stirarsi, il gocciolamento del sangue che aveva trovato altre strade per uscire ed il semaforo che cambiava colore. Se si faceva attenzione si poteva ascoltare lo scatto dell’impianto, che accendeva l’arancione per poi passare al rosso dopo qualche secondo. Dalla parte opposta, il verde si accendeva con rassicurante puntualità.
Ma non avevo dubbi.
Quel maledetto semaforo aveva indotto in errore i due automobilisti. Aveva avuto la pazienza tutta la notte, aveva sperato che si verificasse la combinazione perfetta e poi tac…l’alternanza fra i colori era stata sospesa per organizzare quello scherzo. Ne ero sicura, avevo assistito a quello spettacolo con i miei occhi. Quell’impianto era diabolico, pulsava di vita propria, viveva alimentato dalla sua stessa perfida determinazione ad uccidere.
Impaurita, guardai quel palo grigio dall’alto in basso.
Era fatto di quei tubi rastremati che stringono gradualmente la loro sezione a mano a mano che salgono. Dopo la curva del profilo, e nel suo punto più sottile, il semaforo appeso sul centro della carreggiata ondeggiava come un impiccato, facendosi beffe di me. Temendo che avesse potuto sganciarsi e cadermi addosso per eliminarmi, mi spostai di colpo all’indietro e andai a sbattere contro qualcuno.
Era un carabiniere, appena sceso da una vecchia Alfa Romeo degli anni '60, blu notte, con il tettuccio bianco e una doppia coppia di fari dei quali due finti. Gli antinebbia posticci appesi sotto al paraurti cromato erano accesi, assieme al lampeggiante che tingeva di blu la scena del disastro. Al terzo o quarto giro di luce l’agente mi chiese ragguagli.
«Si sente bene, signorina?»
Era giovane, ben pettinato, con la divisa in perfetto ordine e due bei baffi folti a incorniciare le labbra spesse. Stava dritto sulle gambe robuste e si manteneva impettito, con il cappello tenuto sotto il braccio. Dietro a lui, il collega, diceva qualcosa di incomprensibile nel microfono gracchiante della radio, appoggiando il gomito con noncuranza sulla portiera aperta. Quando la luce del lampeggiante lambiva il suo volto una grande cicatrice sulla guancia veniva messa in evidenza.
«Abbiamo avuto un guasto alla macchina, cioè, siamo rimaste senza benzina…»
Le grosse labbra si atteggiarono in una smorfia di curiosità. «Abbiamo, siamo? Era in compagnia di qualcun altro, signorina?»
Mi agitai. «Ma sì, Gina, la mia amica. E’ andata avanti per cercare un distributore, dovreste averla vista se siete arrivati di là» indicai la direzione. «Non potete non averla vista! Aveva un grossa tanica bianca che suo padre tiene sempre nel baule, perché non si sa mai…»
Non ricevetti risposta. Solo uno sguardo di commiserazione.
L’agente mi lasciò per fare un giro intorno alle auto incidentate. Con le mani dietro la schiena fece una prima ispezione alla carcassa fumante dell’auto veloce e poi una puntata alle seconda macchina. Tornò senza che il suo volto tradisse la minima emozione.
«La sua amica sarà già arrivata alla destinazione, non si preoccupi. Piuttosto, lei avrebbe bisogno di coprirsi. Vedo la pelle d’oca sulle sue braccia. Gaetano…» Chiamò, e l’altro agente, senza fare domande, andò nel baule a recuperare una coperta da mettermi sulle spalle e una piccola tanica con un liquido rossastro al suo interno. Dell’incidente, dei morti e del semaforo sembrò non importare nulla a nessuno dei due. Quando l’agente arrivò, con la coperta appesa al braccio e la tanica che odorava di benzina super, mi porse i suoi omaggi e se ne andò subito, girando su se stesso come l’orsetto del tiro a segno.
Ringraziai, misi la coperta sulle spalle e attesi.
«Signorina, lei ha assistito all’incidente?»
Provavo una tale arsura che avrei attinto alla tanica per dissetarmi e la voce non era certo quella ferma e determinata che si può avere quando si ordina mezzo chilo di pane. «Sì, è così! È stata...è stata una cosa strana, perché tutte due le macchine sono passate col verde.» In risposta solo un sopracciglio alzato.
«Gaetano. Prendi nota di quello che ha detto la signorina…» L’agente fece due passi incontro, curandosi di non impiastricciarsi i piedi nella miscela si sangue, olio e carburante che aveva invaso tutta la strada. Poteva incendiarsi, quel liquido, e mandare tutto in cenere, ma l’impressione fu che non importasse loro nulla. «Comandi, brigadiere!»
Mi mise una mano sulla spalla, sorprendendomi. Un brivido gelido attraversò il mio corpo.
«Venga con me, signorina. Mentre il collega sbriga, per così dire, le formalità del caso, l’accompagno alla sua auto…E’ quella laggiù vero?» Puntò il dito in direzione della quattro frecce accese che davano fondo alle residue energie della batteria. Vergognandomi per la puzza di vomito che avevo addosso, per avere creduto a quell’allucinazione del semaforo e per avere perso la mia amica del cuore, piansi.
Il carabiniere mi lasciò sfogare e anzi, sgretolando le formalità mi strinse in un abbraccio forte.
«Non è lontana» mi consolò. «Faccia attenzione a non slogarsi le caviglie con quei tacchi.» Troppo tardi, ma apprezzai comunque. Mi porse un braccio come un cavaliere al ballo. Io accettai l’invito e sfilai il mio da sotto la coperta, nudo e tutto punteggiato dai follicoli piliferi eccitati dal freddo.
Arrivammo all’auto prima del previsto. La compagnia dell’agente doveva avere alterato la percezione del tempo. Le frecce stavano lampeggiando di colori più tenui, come se fossero sul punto di spegnersi. Anche il caratteristico ticchettio era diminuito di molto.
«Le ha le chiavi, signorina?» Mostrai il portachiavi in cuoio. Lo lasciai ciondolare al dito e ne rimasi praticamente ipnotizzata.
Quando mi ripresi, vidi il carabiniere che stava rabboccando il serbatoio. Aveva anche aperto il cofano e dato qualche goccia di benzina per dissetare il carburatore asciutto. Era rimasto in maniche di camicia e della sua giacca con le mostrine rosse nemmeno un indizio.
Finì quello che stava facendo, avvitò il tappo fino a sentire il rumore di fine corsa, quello che suonava come una cornacchia, per intenderci, e mi apri la portiera del guidatore.
«Allora buon viaggio, signorina.» Si portò nel mezzo della strada. «Al mio segno faccia tranquillamente inversione. Controllo io che non stia arrivando nessuno...»
Sistemata su quel sedile per me troppo lontano dal volante, cincischiai alla ricerca della leva per avvicinarmi. Chiusi la porta, accesi il motore che partì disperdendo un po’ di fumo intorno e abbassai il finestrino. L’agente era piazzato in mezzo alla strada con un sorriso. Aveva la postura di un ballerino della Scala, con le gambe unite e quella camicia bianca aderente al petto muscoloso.
«Io…io veramente dovrei andare dall’altra parte a recuperare Gina…»
«Non se ne parla!» Senza alterare il sorriso che sembrava essersi fossilizzato sulla sua faccia.
«Ma agente, non posso lasciare la mia amica in giro da sola con questo buio…»
Non si mosse. «Ci penseremo noi alla sua amica, stia tranquilla. In quella direzione il traffico è bloccato. Non ha visto quanto olio nella strada? È pericolosissimo per lei, mi creda. Prego, giri in quella direzione…»
Traffico? Dal momento dell’incidente non si era più vista anima viva, solo qualche stella che cominciava ad apparire nelle fessure concesse dalle nuvole. La strada e i prati che la circondavano fumavano come una pentola di pasta.
«Non si può fare un’eccezione?»
Mi guardò solamente.
Girai l’auto, incapace di prendere confidenza con lo sterzo pesante e con quella trazione posteriore così ostile. Prima che passassi oltre, vidi ancora il carabiniere intento a controllare che non arrivasse nessuno.
Lo lasciai scomparire nel retrovisore.
Dopo poco la sua camicia bianca, che aveva preso in prestito il rosso acceso dei fanalini posteriori, sparì inghiottita dal buio e io cercai di ricucire un rapporto amichevole con la riga della mezzeria che si consumava lentamente sotto i miei occhi.
Il passaggio a livello si presentò chiuso.
Lo fece beffardamente, calandomi la doppia sbarra fluorescente proprio davanti al naso. Rassegnata mi misi in attesa, senza spegnere il motore.
Avevo deciso. Sarei tornata indietro fino trovare una strada alternativa, poi mi sarei messa alla ricerca di Gina. Come avrei potuto lasciare sola la mia amica del cuore, farmi tutta la strada da sola e presentarmi a casa senza di lei, e con l’auto di suo padre per giunta?
Dopo dieci minuti di attesa il rumore del treno mi sorprese addormentata.
Saltai sul sedile quando il convoglio era già interamente passato, lasciando a testimonianza solo il buio e la danza inelegante delle ortiche a fondo scarpata, agitate da un turbine d’aria che non voleva finire.
Le sbarre erano ancora abbassate.
La luce intensa del grosso semaforo aveva impregnato il mio volto del colore del sangue. Smisi di guardarmi allo specchio e attesi. Per ingannare il tempo misi in pratica un esercizio di rilassamento che avevo intravisto sulle videocassette di Yoga che mia madre collezionava.
Gina bussò al finestrino, così forte che mi fece sobbalzare.
Fui sorpresa col respiro rotto e le mani contratte attorno al volante come due tenaglie. Provai a dire qualcosa ma il sonno, che mi aveva nuovamente colta alla sprovvista, aveva limato dalla mia gola la capacità di parlare, o perlomeno di farlo in modo chiaro. Quando la cercai aveva già oltrepassato il binario e mi stava aspettando dall’altra parte con un sorriso arioso e la tanica del carburante piena fino all’orlo.
Mi fece segno di attraversare, poi si mise a simulare un’autostoppista con la gamba messa in evidenza scostando il lembo della gonna. Cercò di stare seria per qualche istante e poi si lasciò ridere addosso come il suo solito. Io non lesinai un sorriso a denti scoperti e pronunciai una frase eloquente da dietro il parabrezza, facendo bene attenzione che lei leggesse i miei labiali:
«Eccola, la solita stronza!»
Lei rise ancora di più, e lo fece accompagnandosi con un gesto di invito. Mise in pratica il mio stesso gioco e mosse le labbra senza fare uscire alcuna parola. La frase fu assolutamente eloquente.
«Ce ne andiamo via insieme, finalmente? »
In breve avevo portato quel catorcio oltre la barra eretta del passaggio a livello. Facendo attenzione, affrontai le rotaie per la seconda volta quella notte.
Quando il treno si abbatté sulla fiancata dell’auto, dilaniandola, vidi la figura di Gina scorrere via velocemente dal riquadro del parabrezza. Una pellicola rotta, un immagine estemporanea vista dal finestrino di un mezzo in corsa, il subliminale di uno spot televisivo.
Poi furono scintille, un frastuono infernale e il terremoto che si era impossessato delle mie ossa, sbriciolandole. Il mondo, in quei secondi, cambiò mille volte di prospettiva. Vidi il cielo, vidi la terra e ne annusai l’odore intenso mischiato a un puzzo di ferro bruciato.
Quando il treno si fermò, ero già morta.
Non accettai subito la mia condizione, non credo che nessuno l’abbia fatto mai.
Quando vidi la pattuglia dei carabinieri venirmi in soccorso, temevo che non sarei mai riuscita a uscire da quel groviglio di lamiere, con la locomotiva che le pesava sopra e quel fuoco che minacciava di accendersi da un momento all’altro.
Invece fu più facile del previsto.
Gina mi attendeva ai piedi della massicciata.
Era bella come nei suoi momenti migliori, solare, serena e con l’aria di non sentire affatto freddo.
Scesi senza nemmeno fare rotolare un sasso.
Il macchinista era saltato giù dal locomotore e si aggirava disperato attorno a quel disastro. Si era accorto abbastanza presto del mio corpo martoriato e si era lasciato andare in un pianto dirotto. Dopo qualche secondo arrivò anche il capotreno. Fece luce con la sua torcia elettrica nel groviglio di lamiere e si ritrasse immediatamente, scattando indietro come un clown a molla appena inquadrato quello che rimaneva di me. La conferma non tardò ad arrivare. Me la diede Gina, storcendo le labbra in una smorfia imbarazzata.
«Sono morta?» Domandai.
«Non si sta male. Io sono in questo stato già da un po’…»
«Oddio, Gina, e da quando?»
La vidi rabbuiarsi, improvvisamente, come se quel pensiero le facesse ancora male. Attorcigliò il bordo della gonna con le dita. Lo faceva già da bambina e aveva trascinato quell’abitudine negli anni, fino a farla sua per sempre. La cosa mi fece commuovere.
«E’ stato il ragazzo alla festa, quello vestito dark. Ci eravamo ritirati per fare delle cose, e poi è diventato manesco, violento. Cattivo.»
Non era possibile, ma mi sembrò di avvertire un tremore alle gambe, un retaggio del corpo in carne, ossa e sangue, quel corpo che era stato mio fino a poco prima. «E tu?»
«E io avrei voluto andare via. Ho gridato ma la musica suonava forte e lui non mi ha lasciata. Stringeva come una tenaglia. Si è irritato, è diventato nervoso, sudava e alitava come una marmitta vecchia. Non ci giurerei, ma credo che ad un certo punto abbia cominciato a schiumare rabbia dalla bocca. Aveva gli occhi carichi di odio, non capiva più niente. Credevo che quelle cose succedessero solo nei fumetti…»
I binari si stavano popolando.
Era arrivata una prima ambulanza e poi una seconda. Uomini in tuta arancione correvano trascinandosi appresso delle attrezzature. Un principio di incendio era stato domato da un giovane pompiere conciato come un cavaliere medioevale. Portava un elmetto talmente grande che lo rendeva in qualche modo buffo. Guardò nella nostra direzione e diede la sensazione di avere scorto qualcosa nel punto esatto in cui ci trovavamo. Chissà, forse aveva visto i suoi primi fantasmi.
«Mi dispiace Gina, mi dispiace di non averti potuta aiutare. Accidenti a me! Avrei dovuto venire a cercarti!» Piansi. Insieme al tremore alle gambe fu la seconda sensazione terrena che provai da morta. Lei mi venne incontro e mi strinse forte: terza sensazione assolutamente terrena.
«Sei venuta a cercarmi, certo che sei venuta. Ero ancora viva, non ti ricordi?»
Mi sforzai. Lo feci per un attimo e sentii la testa pulsare. Pensai a quella cosa che, raccontano, succede a qualcuno che perde un arto: lo avverte per anni, continua a fare parte del corpo, muoversi, prudere, dolere. Quello che mi stava capitando doveva essere qualcosa di simile.
«Come sarebbe che eri ancora viva. Io non mi ricordo di essere venuta da te.»
«Ma sì, l’hai fatto!»
Qualche ricordo riaffiorò. «Forse sì…»
«Ricordo che eri disperata, che mi chiedevi di non morire, di non lasciarti sola. Ma sai come sono fatta io, inaffidabile e casinista. Non ti ho accontentata e sono morta. Mi dispiace.»
Avevo vagato a lungo in quel prato, accanto al corpo senza vita di Gina, pieno di lividi e steso al fondo della scarpata.
Non avevo idee o protocolli da eseguire. Si era fermato il tempo, la ragione si era liquefatta e l’intelligenza era annegata fra le onde nere di una tempesta.
Senza senno, disperata e assalita da un affanno impossibile da arginare, presi le chiavi nella sua tasca e partii in auto senza una meta. Avevo gli occhi inondati di lacrime, non sapevo dove andare. Niente di quello che mi stava intorno era familiare. Vedevo solo buio e una strada che non portava in nessun posto. Ricordo che mi fermai sul limitare della ferrovia e mi lasciai precipitare nello sconforto, fino a che il sonno estinse la mia disperazione e mi trascinò dentro un sogno. Mi apparve un semaforo diabolico che si divertiva a provocare incidenti, mi immaginai di essere rimasta col serbatoio a secco, di avere perso la mia amica alla ricerca di un distributore e di avere ricevuto soccorso da due carabinieri.
Angeli, erano semplicemente degli angeli.
Attesi cosi a lungo quel treno, che quando arrivò l’auto non voleva partire.
Un bastardo si era preso la vita di Gina.
Lo aveva fatto senza investire un solo secondo in un ripensamento, ignorando i suoi pianti e le sue invocazioni di pietà.
Quando lo vidi si stava sistemando i pantaloni e si annusava l’ascella come se nulla fosse accaduto. Era pronto per tuffarsi nella festa. Mi riservò uno sguardo pieno di disprezzo.
Noi, povere ragazze, eravamo solo degli oggetti, femmine deboli e incapaci di resistere alle botte. Rifiutai quella realtà e scappai via.
Il mondo non avrebbe concesso giustizia a Gina, solo giudizi, sguardi perfidi e basse insinuazioni. Per lei ci sarebbero state battute sussurrate ridacchiando dinanzi a un bicchiere di birra, occhiate complici fra amici e offese alla sua memoria.
«In fondo era solo una zoccola…»
Davanti al passaggio a livello chiuso insistetti fino a fare accendere il motore.
Proprio mentre il treno stava arrivando, partii sgommando, sfondai le sbarre e andai a cercare la mia unica amica.
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