martedì 1 settembre 2020

Non ne sono sicuro. Un racconto che brucia

 



«L’accendiamo?»

Ricordo bene la domanda. Capitò all’improvviso interrompendo le mie argomentazioni.

Non sono mai stato così intelligente dal sentire fluire i ragionamenti in testa come la piena di un fiume in primavera, ma nemmeno uno sprovveduto. In quell’occasione, gli ingranaggi del pro e del contro si bloccarono improvvisamente e quel fastidioso cigolio della mia coscienza si interruppe.

«Non ne sono sicuro.» Risposi, ma fui persuaso dal quel sorriso accattivante, condito dal luccichio di un dente d’oro che faceva capolino alla base della lingua. I soldi erano a portata di mano. Uno scatto luminoso e sarebbero stati miei.

 

Adesso mi sto godendo il panorama.

Il vento, che soffia dalle montagne, si è riscaldato strofinandosi sulle rocce e la pressione gonfia la mia giacca aperta. Sono circondato da una pioggia di foglie secche. Si sono arrese all’inverno incipiente e stanno cercando un posto per andare a marcire. Sullo sfondo di un intreccio di rami una coppia di cerbiatti si rincorre. Il primo salta il cespuglio e il secondo lo imita. La terra sollevata dalle loro zampe si traduce in tanti, scenografici sbuffi di polvere. I miei occhi cascano nell’inganno del mimetismo e avverto soltanto il progressivo estinguersi di una leggera vibrazione di passi, o forse è solo frutto della mia suggestione.

Non ne sono sicuro.

Caterina è cresciuta così in fretta, che faccio fatica a sostituire il ricordo che ho di lei bambina a quel metro e ottanta di curve dolci e pelle di pesca. Al principio dell’inverno è ancora abbronzata ed è bella. Si muove come una ballerina, ogni volta che sorride sembra festa e non parla mai a sproposito. Il pensiero mi riempie di orgoglio.

Sono convinto di essere stato un bravo padre e rivolgo lo sguardo al cielo terso.

L’azzurro intenso balugina un po’ per effetto di una lacrima e in quel momento una coppia di poiane sorvola il bosco, descrivendo una serie di cerchi concentrici sempre più stretti. Devono avere avvistato una piccola preda, probabilmente in difficoltà di fronte a un precipizio sul limitare della pineta.

Caterina gioca a volley. Si presenta in palestra per prima e la lascia quando tutte le altre sono già sotto la doccia. Non esiste una tutina che non le stia veramente bene e quando salta rimane sospesa in aria a lungo, con le scarpe a bande diagonali rosse staccate di un metro buono dal pavimento. In quell’attimo si possono scattare delle foto perfettamente a fuoco. Quando atterra non fa rumore, neanche il solito scricchiolio delle suole che in certe occasioni si trasforma in un concerto.  Porta sulla canottiera aderente in lycra il numero sedici, o il diciassette.

Non ne sono sicuro.

Se c’è una cosa che detesto delle montagne, è che sono un ostacolo anacronistico.

Il progresso non è ancora riuscito a domarle e qualche volta bisogna inchinarsi alla loro imponenza e girare intorno. Si deve sopportare l’ombra che rende l’asfalto viscido, il buio reso improvviso dal folto dei boschi e quel freddo che cozza con l’aria tiepida della pianura. La valle ai miei piedi si stringe, fino a scomparire dietro a un rilievo abitato dalla nebbia. Una strada tortuosa la percorre in un susseguirsi di tornanti e rettilinei, per poi perdersi a sua volta. Sembra che un pittore ubriaco si sia divertito a pulire il grigio del suo pennello cercando nel frattempo un’ispirazione.

Grazia è un tesoro. Non c’è nulla di lei che non mi piaccia e gli anni che passano l’hanno trasformata nella colonna della mia esistenza. Ci eravamo conosciuti ancora ragazzi e adesso, a ogni momento, a ogni battito del mio cuore che si aggiunge alla nostra storia, sento di avere speso bene il tempo. Ama il suo lavoro di un amore corrisposto, riceve gratifiche, è adorata dai colleghi e porta a casa soldi e sorrisi. L’ultima volta che siamo andati al ristorante insieme indossava un abito rosso lungo, sposato perfettamente con la linea armoniosa dei fianchi e candidato ad attirare gli sguardi invidiosi dei commensali sul suo fondoschiena. In abbinamento alla borsetta in finta pelle nera, portava con stile un paio di scarpe col tacco da quindici, o da dodici.

Non ne sono sicuro.

Il concetto di colonna, granito e solidità, si abbina perfettamente all’ambiente che mi circonda. Dalla parete di roccia alle mie spalle, che solo pochi coraggiosi arbusti hanno tentato di conquistare, si affacciano le feritoie muschiose di una fortezza abbandonata. Sul passaggio avaro di spazio che le mura concedono al precipizio, una fila di camosci si organizza per guadagnare il principio del bosco.

Dove la parete sudata comincia a spiccare dalla terra, un sentore lieve di fumo e nebbia si solleva incontro alle pietre squadrate e uno stormo di piccoli uccelli si divide in gruppi appena raggiunto il cielo.

 «L’accendiamo?»

«Sì» Risposi, trangugiando la saliva che mi sembrò un boccone di spine. La mano, fredda e contratta nella paura, si strinse intorno alla mazzetta di banconote che l’uomo dal sorriso accattivante mi aveva allargato sulla scrivania. Prima di ritrarla ebbi tempo di interpretare il lampo di soddisfazione nei suoi occhi e la domanda arrivò assieme a un alito corrotto.

«Quindi ne è sicuro?»

 Il vento caldo non ha ancora dato il suo meglio. Arrivano una prima e poi una seconda, potente folata e il grigio incerto di una colonna di fumo assume delle sfumature di nero sempre più compatte. Dopo poco delle lingue di fuoco si attorcigliano intorno alla base.

Se non sarò a casa per cena, Grazia mi giudicherà male e anche Caterina. Forse questo pomeriggio ha l’allenamento di pallavolo o forse il doposcuola.

Non ne sono sicuro.

Il fuoco non è affatto silenzioso. Nella fantasia e nelle romanticherie degli amanti crepita, ma quando intacca un bosco annichilito da mesi di arsura, grida, e lo fa insieme a migliaia di creature.

Il fumo serpeggia basso, s’infila nelle tane e uccide i piccoli roditori ancora indaffarati a procurarsi le provviste per l’inverno. Il fuoco si insinua sotto le foglie, disintegra gli insetti e corre alla ricerca del suo sfogo. Quando trova l’ossigeno per cibarsi si tramuta in un’esplosione.

 «Bene, allora. I soldi sono suoi. Li prenda…»

E la mano finalmente si ritrasse. Mi accorsi che stropicciare le banconote produce un rumore del tutto simile a quello delle fiamme che sbranano un cespuglio. Dopotutto, c’è un’affinità perversa che lega il denaro a tutte le cose che bruciano.

 

La resina che cuoce produce i suoi vapori e il fuoco se ne nutre.

Sul suo cammino ci sono fiamme alte trenta metri e un cimitero di tronchi roventi alle spalle. Qualche volta una lingua di fuoco si fa avanti e sembra voglia catturarmi.

L’uomo dal sorriso accattivante mise subito le cose in chiaro.

«Dovrà abbandonare la zona, molto prima che l’innesco possa accendersi e farla scoprire…Mi raccomando!»

Spiegazzai le banconote per infilarle in tasca. Quando quella gente ti incarica di una cosa, tu non puoi rifiutare.  Mi alzai e guadagnai la porta senza girarmi.

«Allora, grazie…»

Il cassetto della scrivania si chiuse con un colpo secco. Non mi sfuggì l’impugnatura della pistola posata accanto alla scatola dei soldi e l’uomo dal sorriso accattivante se ne accorse.

«Lei ha famiglia? Che ne so. Una moglie innamorata e una bella figlia capace di darle delle soddisfazioni?»

Mi immaginai di averle.

Pensai a una vita diversa da quella fogna, che credevo essermi lasciato alle spalle soltanto vestendomi di buone maniere. Allargai un sorriso fra i più finti del mio repertorio. «Sì, sono due donne meravigliose!»

 Vado via quando le sirene di allarme gridano come le aquile e la gente accorre per affrontare l’incendio. C’è un andirivieni di mezzi e di uomini che sbraitano istruzioni, corrono e indossano maschere. Uno fra i più giovani è colto da una crisi di panico e rimane paralizzato come in un fermo immagine. Un cinghiale, con il pelo acceso come uno zolfanello, gli sfreccia accanto e per poco non lo travolge.

 «Mi raccomando, allora. Non mi deluda e ricordi. Ci sarà gente come lei che appiccherà il fuoco in altri posti, ed è bene che tutti facciano la loro parte e nello stesso momento…»

L’uomo dal sorriso accattivante si accese un sigaro e scomparve dietro delle volate azzurrognole di fumo. Io lasciai l’ufficio nel suo odore di benzina e mi misi a ripetere come un mantra:

Il fuoco purifica, il fuoco purifica, il fuoco…

 Purifica.

E vedo un grosso cervo maschio corrermi incontro come un treno.

Lo seguono una femmina e tre cuccioli disperati. L’ultimo si attarda, rallenta, accelera e poi cambia direzione. Quando gli altri sono ormai lontani, ingannato dal terreno cedevole si lascia scappare una zampa e finisce col rotolare nella gola di un ruscello.

Le fiamme mi stanno circondando e sono stanco.

Se Grazia e Caterina fossero esistite per davvero, avrei applicato le mie consegne alla lettera e me ne sarei andato via, subito.

Il ragazzo paralizzato dalla paura è stato rincuorato dai suoi compagni e adesso mi sta additando, o forse sta indicando le lame infernali che hanno aggredito un gruppo di conifere alle mie spalle.

Il fuoco ruggisce.

Chi parla di crepitio vive in un mondo di plastica, piccolo e prevedibile come il fornello del suo caminetto.

Se Grazia e Caterina fossero esistite per davvero non avrei fatto il delinquente e la mia vita sarebbe stata diversa, o forse no.

Non ne sono sicuro.

Le corna del cervo maschio si infilano sotto alle mie costole.

Ruvide, le sento attraversare il polmone e finire con lo spingere sulla parete interna della schiena. Il calore che mi circonda è così intenso, che il sangue accumulato nella gola potrebbe mettersi a bollire.

Il giovane cerbiatto sbuca dall’alveo del ruscello e si mette a correre zigzagando verso valle.

 Il ragazzo paralizzato dalla paura sta per allontanarsi assieme alla sua squadra e lo sento gridare senza comprenderne le parole.

Leggo dai labiali un incoraggiamento a mettermi in salvo, oppure la sua è una maledizione, scagliata contro di me e condita da una corona di imprecazioni.

Non lo so, non ne sono sicuro.


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