lunedì 11 gennaio 2021

Tre giorni di ritardo - Racconto in salsa horror



Mia sorella si muove come una ballerina.
Percorre avanti e indietro la spoglia banchina della stazione. Attenta a non inciampare nelle erbacce che hanno guadagnato la luce fra i sampietrini, percorre qualche metro sulle punte e ritorna con un arrière che per quanto ne so è eseguito con imperdonabile pressapochismo. Lo ha imparato da piccola, ricordo, quando la mamma la costringeva a tre lezioni di danza a settimana. Per farlo, per portare un po’ di sano vigore di campagna fra le polverose e tristi sale danza sepolte sotto nove piani di vecchi palazzi, era stata disposta ad accompagnarla in città con il pick up sgangherato del papà cacciatore. Il treno passava due sole volte al giorno in una puzza di freni che prendeva alla gola, e molto spesso tardava. Adesso il papà non c’è più e la mamma nemmeno ma il pick up è sopravvissuto a un frontale col trattore del letame, a dieci revisioni obbligatorie, a un trapianto di motore e a un paio di riverniciature, grette come l’antiruggine sullo scafo di una nave prossima al disarmo. Lui e le sue gomme lisce sono fermi sotto il sole all’ingresso della stazione abbandonata, davanti a una parete imbrattata di falli a spray, parolacce e muffa che risale dagli inferi. L’unico platano a fare ombra sul parcheggio si è masticato la sua aiuola di blocchi prefabbricati prima ancora che la nazionale di calcio vincesse il suo penultimo mondiale. Mia sorella si ferma con un bras bas, perfettibile nella curvatura dei polsi ma armonioso per il resto. Quando mi guarda in quel modo, l’istinto mi direbbe di cacciare una pernacchia. Mi trattengo, consapevole dei miei vent’anni e dei suoi diciannove. Mi trattengo al pensiero della mamma, che mi avrebbe rifilato un ceffone e del babbo, sempre pronto a mandarmi in campagna per raffreddare i bollenti spiriti, con una zappa in spalla, un’ascia per fare legna e una borraccia d’acqua fresca da far durare tutto il giorno.
«Ancora oggi e poi basta. Se il treno non arriverà, vorrà dire che faremo a meno dei nostri amici.»
Al pensiero mi sento male. Non vedo Mirko dall’estate, quando era venuto a dormire nella sua casa in campagna per fuggire alle notti roventi del capoluogo. Di Chiara e Gigi ho il ricordo della festa in autunno, con le castagne sul fuoco, il vino novello per accompagnarle e un caldo anomalo che si era trascinato appresso i sudori appiccicosi di luglio. Eliana era comparsa al principio della stagione per fare sfoggio della sua nuova Classe E decapottabile, e poi più niente. Non so cosa rispondere a mia sorella. Da quando si è lasciata con Gualtiero è più pericolosa di un residuato bellico con la spoletta difettosa.
Io? Davvero chiedete di me?
Meglio che stia lontano da Valeria. La mia ragazza è imbruttita, incarognita e sempre pronta a mordermi. Se dipendesse da me potrebbe pure stare a casa mia, ma solo se legata mani e piedi.
Paola insiste. Quando mia sorella è indisposta, il blu degli occhi vira all’azzurro chiaro e i lineamenti tendono a trasformarla nel comandante di un plotone di esecuzione, pronto a sparare obbedendo agli ordini in tedesco.
«Cosa ti aveva detto Mirko?»
Ripeto come un disco rotto. «Due giorni fa mi aveva detto che erano riusciti a prendere il treno e sarebbero arrivati in orario…»
«E ieri?»
Ciondolo il capo come l’omino a molla appiccicato da dieci anni al cruscotto del pick up. «Che ce l’avrebbero fatta, con le buone o con le cattive ma ce l’avrebbero fatta.»
Passa da ballerina impostata a maniscalco pronto alla rissa. È quel tipico atteggiamento da campagnola poco avvezza alla retorica. «E invece secondo me sono rimasti in città a pestarsi i piedi a vicenda.»
Mi appoggio al palo elettrico, metto le mani in tasca e rifletto. «Hai ragione, Paola. Se il treno non arriva.» guardo l’orologio al polso «entro diciamo…diciamo mezz’ora, ci rinunciamo e buonanotte. Torniamo in cascina e mettiamo insieme qualcosa per la cena.
«E la Lidia?»
Penso alla vicina, pettegola e invadente come la parietaria in estate. «E la Lidia ci lascerà stare in pace e se non sarà così, vorrà dire che le spareremo.»
Paola guarda nel buio della galleria e trattiene una risata. Però che stronzo Gigi! Ha mollato Chiara per mettersi con quella là, la scrittrice. La scrittrice urlatrice, che quando scopavano usciva Gilberto col forcone perché credeva fossero arrivati i lupi mannari.
Gilberto è il cugino scapolo di Lidia e Paola, se vuole, sa farmi ridere. Sono quei momenti in cui la sua personalità s’incunea fra l’ufficiale delle SS e una piantagrane difficile da maneggiare. «Già, povero Gilberto. Poi alla fine Gigi si è rimesso con Chiara e tutti hanno vissuto felici e contenti.»
«Che a quanto pare è silenziosa come la mummia di un faraone. Tu te la scopi, di sotto, di sopra e di fianco e lei niente. Muta.»
«Ma tu cosa ne sai?»
«Confidenze fra donne…»
La guardo con gli occhi liquidi ma ha ancora un serbo del livore. «No perché, voi uomini? Mirko te l’ha mai detto che lui senza…»
«No ascolta Paola, davvero. Non me ne importa nulla di Mirko, della scrittrice che urla a del mutismo di quell’altra!»
Il pericolo è quello che ti spari. Rischio le cose peggiori ogni volta che interrompo mia sorella mentre parla. Questa volta la scampo.
La galleria tace. Siamo abituati fin da bambini al treno che sta per arrivare, al buco di vecchie pietre con lo stemma della regione a decorare il concio. Comincia a ribollire come una pentola di fagioli, ad amplificare cigolii, lamenti, incomprensibili echi che rimbalzano deformandosi orribilmente sulle pareti annerite. Può durare molti minuti, fino a che gli occhi accesi del locomotore compaiono nel buio. Ognuna di quelle volte mi ha fatto paura.
Penso a Eliana, alla sua decapottabile che aveva inondato dell’odore di nuovo i dieci ettari di terra attorno al lungo viale alberato che conduce in paese. Penso agli occhi verdi tagliati a goccia. Si abbinano alla perfezione col naso sottile e con le labbra disegnate ad acquerello. Con i capelli neri e lisci, che quando arriva il vento dalle montagne si divertono a giocare con le guance.
«Scommetto che stai pensando a Eliana…»
Ancora il mio sguardo liquido, questa volta condito da una fila di denti da lupo arrabbiato. «Da cosa lo capisci?»
La posizione da danza classica è la quinta. Non glielo dico ma le sono cresciuti troppo i piedi perché possa impostarla come Dio comanda. «Ma non so. Dal momento che con Valeria le cose sono andate in vacca, ti vedo bene a fare il barboncino al guinzaglio della strafiga di città. Poi dai, diciamolo, lei ti metterebbe addosso quell’energia che impiegheresti tutta per far legna. Dopotutto l’inverno sta arrivando…»
E anche il treno. Lo sento lamentarsi.
Avanza col respiro pesante e pare che il tempo si sia fermato. Paola abbandona la quinta posizione a favore di una postura da pistolero e io aspetto. Mastica a vuoto e finisce con lo sputare in terra. È laconica. «Cosa ti aveva detto Mirko?»
«Ieri? Che sarebbero arrivati…»
«E poi?»
«Che mi avrebbe richiamato…»
I rumori sono gli stessi di prima, solo più intensi. Sento la tensione che sale lungo il collo. Paola, apparentemente, è fredda come il ghiaccio.
«E ti ha richiamato?»
«Lo sai meglio di me. No…»
La lacrima s’infrange sul sanpietrino mentre i rumori del treno ricordano il turno di giorno all’acciaieria. Mia sorella è sempre stata brava a mascherare i sentimenti. Mi guarda e capisco. Butto un'occhiata nel nero pece della galleria, attraverso i binari facendo attenzione a non inciamparmi e poi la stazione abbandonata.
Passo davanti alla biglietteria. All’interno del corridoio col pavimento in graniglia e la pittura bicolore, qualcuno sbatte furiosamente la testa contro la porta, rappezzata con maniglie d’occasione e laccata grigio come quelle di una volta. Avanti di questo passo cederà presto.
Cammino nel piazzale e sento il ghiaino che scricchiola sotto le scarpe. Quello che serve è nascosto da una coperta nel cassone smerigliato del Pick up.
Il treno sfonda il muro nero del buio e rallenta cigolando fino alla banchina. Rantola, scarica l’aria compressa dai serbatoi sollevando polvere e sembra adagiarsi sulle vecchie rotaie. Paola approfitta per provare un arabesque ma le erbacce del selciato si attorcigliano sulla punta del piede.
Le porte della carrozza si aprono con uno sbuffo, lente come un sipario al principio della scena.
Eliana scende per prima.
Porta jeans attillati che rendono giustizia alle gambe dritte, una maglietta bianca con la serigrafia di un grosso cuore rosso alla fine di una linea che ricorda il tracciato di un elettrocardiogramma. Come al solito non indossa il reggiseno. Quando Mirko e Chiara scendono gli scalini a loro volta, lei è già avanti di qualche passo. Gigi è ancora al finestrino.
Paola guarda in terra. Come d’accordo la scelta spetta a me.
M’inchino e impugno l’ascia che mio padre mi dava in consegna per le spedizioni da boscaiolo. La cosa della quale non avevamo parlato, è di chi si sarebbe preoccupato di Eliana. Ormai è vicina in modo preoccupante.
Quando vedo il lampo di soddisfazione negli occhi di mia sorella, capisco che sarà lei ad affrontare la questione. Si china con grazia, imbraccia il fucile da caccia del babbo, appoggia il calcio sulla spalla magra, prende la mira e spara un colpo solo che l’imbocco della galleria vuota amplifica come una cannonata.
È lì che la calotta cranica di Eliana vola via insieme a un’esplosione di frammenti d’ossa e capelli. Il cuore rosso sulla maglia si confonde col sangue fresco. Ancora due passi e cade in ginocchio, resiste un paio di secondi e sbatte la faccia sulla banchina. Il naso che si rompe suona come il guscio di una chiocciola calpestato.
«Cosa ti avevo detto?»
Mentre Paola ricarica il fucile, stringo così forte l’impugnatura dell’ascia che sento scricchiolare le ossa delle dita. La voce è rotta dalla rabbia. «Che cosa mi avevi detto? Rinfrescami la memoria.»
«Ti avevo detto che i nostri amici non ce l’avrebbero fatta mai. Troppo molli, troppo abituati agli agi. Troppo smaccatamente radical chic.»
E ce ne sarebbe ancora ma non ho il tempo di starla a sentire. Prendo la rincorsa, carico il braccio e calo l’ascia. Tanti anni a fare legna sono serviti e anche Mirko finisce a sua carriera di zombie poco dopo averla cominciata. Il proiettile che abbatte Chiara fischia accanto al mio orecchio. Mi rimane impressa la macchia rossa e fuggente che compare sopra gli occhi spenti prima che la poveretta rotoli sotto il treno. Gigi è ancora dietro al finestrino. Sbava sul vetro e graffia senza costrutto la melma di saliva e sporco.
«Falla finita. Spara!»
Paola non obbedisce. Mi fa notare un altro morto vivente. Sceso dall’ultima carrozza, ciondola zoppicando nella nostra direzione. Mia sorella non si preoccupa e ha ragione. La cinghia della borsa che tiene a tracolla s’impiglia nelle gambe e finisce col farlo cadere. Era il controllore. Lo vediamo che si agita e cerca di rialzarsi senza riuscirci ma la dinamica porta a pensare che presto rotolerà fra le piante infestanti alla base della banchina.
Il treno sta per ripartire.
Nell’ultima disperata telefonata di Mirko, confusa nelle grida di terrore dei passeggeri che inseguiti dai morti tentavano di fuggire al loro destino, l’amico mi aveva confessato che il macchinista chiuso nella sua cabina, pur morto, continuava a governare il convoglio per fermarsi in tutte le stazioni.
Doveva tenere in serbo una specie di memoria automatica maturata in anni e anni di abitudine. Quello che non ha funzionato nel suo cervello senza corrente, è stato che alla seconda fermata ha lasciato passare due giorni anziché cinque minuti. Molto probabilmente in quel lasso di tempo i morti l’hanno avuta vinta e sono riusciti ad azzannare chi tentava invano di forzare le porte chiuse.
Siamo stanchi. Ci guardiamo intorno. Dalle altre carrozze arrivano rumori confusi ma non scende nessuno.
Se Gigi continuerà a sbattere la testa sul vetro in quel modo, finirà col romperlo.
Siamo stanchi e ancora non abbiamo seppellito il babbo e la mamma. Dobbiamo abbattere la vicina di casa perché finirà col morderci e Valeria, la mia fidanzata, che io e Paola abbiamo legato al gancio per il toro in attesa sul da farsi. Su questa cosa mia sorella ha suonato come una sentenza:
«Quella è affar tuo, fratellone. Piantale un proiettile in testa e mandala al creatore.»
Il treno riprende la sua corsa, con Gigi ormai sdentato che ha lasciato qualche litro di sangue a colare sul finestrino. Paola non le ha ancora perdonato quella scappatella con la scrittrice urlatrice. Lo sguardo vacuo non intercetta il mio e il treno passa per portare la sua tristezza alla prossima fermata, ammesso che il macchinista morto si ricordi di frenare.
Peccato. Con gli amici a farci compagnia e a darci una mano, avremmo affrontato l’apocalisse con spirito diverso.
Il corridoio in graniglia che passa davanti alla porta smaltata grigia della biglietteria, è consumato dai passi dalle migliaia di persone che sono state vive.
Adesso profuma di ricordi come ogni cosa intorno: la vecchia banchina, il parcheggio, il platano solitario che ha ancora voglia di crescere.
Non so se io e mia sorella troveremo qualcuno con cui parlare e dividere lo sconforto. Siamo vivi solo perché eravamo lontani dalla gran parte delle cose che piacciono a tutti, avevamo un fucile e una buona dimestichezza con le lame.
La sensazione è che questa primavera asciutta e calda si stia prendendo gioco di noi ma che dire, ci faremo presto il callo.
Gli occhi di Paola sono meno glaciali di prima. Umidi di lacrime sembrano più grandi e buoni. A dirla tutta, quel fucile da cinghiale sembra più alto di lei.
Le chiedo di fare quello che non riuscirei e lei mi asseconda.
Carica un colpo, ritorna nel corridoio e abbatte il bigliettaio infilando la canna nello sportello per passarsi i soldi. Torna indietro con l’arriere.
Questa volta, complice il vecchio pavimento consumato, lo esegue perfettamente, come non l’avevo mai visto prima.



© Diritti riservati