Erano le undici del mattino di
una bella giornata estiva e da due mesi mi stavo occupando del
magazzino.
L’incarico di magazziniere
all’ipermercato non era ambito.
La struttura, un capannone di
dubbia bellezza che era spuntato come un fungo nella periferia della
città, aveva dovuto sviluppare i suoi tentacoli verso l’alto, dove
avevano trovato posto i reparti di abbigliamento, arredo e bricolage,
e verso il basso, con la costruzione di un parcheggio sotterraneo da
duecento posti e del magazzino ancora più giù, due piani
sottoterra.
I progettisti non avevano avuto
scelta.
Nato su di un’area dismessa e
non particolarmente estesa, l’ipermercato non aveva potuto sfogare
in orizzontale tutte le sue propaggini. Un severo muro in mattoni
rossi, testimone dell’archeologia industriale che faceva sembrare
quella parte di città ad un museo dei ricordi, circondava la zona e
si affacciava sulle strade che cingevano tutto il perimetro.
Allora avevano scavato e
ingozzato tutta la terra di cemento. Sul lato est era stato ricavato
un grosso vano per il montacarichi, attraverso il quale le merci,
scaricate nel cortile, scendevano per essere stivate e salivano
quando il capo reparto decideva di rimpinguare gli scaffali.
Quel giorno, un TIR aveva
scaricato un paio di centinaia di scatoloni di cibo per gatti sul
retro. Ugo, l’addetto al muletto, aveva imbarcato sul montacarichi
i colli, che io facevo scendere di due piani e poi li movimentavo
con il mio carrello elettrico, li portavo agli scaffali, svuotavo i
cartoni e poi rispedivo alla luce del giorno gli involucri vuoti. Con
l’ultimo giro di ascensore salii anch’io, abbandonando il girone
dei dannati per i dieci minuti che la pausa sindacale mi concedeva.
Ugo era simpatico, non negava
mai una sigaretta e aveva sempre aneddoti da raccontare.
Non ci provava con me,
manifestava una timidezza sottopelle alla quale sopperiva con un
buonumore talvolta eccessivo e con un repertorio di battute che
parevano studiate a tavolino la sera prima.
Quel giorno, quando mi vide
sbucare dal sottosuolo con gli occhi stretti a fessura per sopportare
la luce del sole, mi accolse con un sorriso e una Chesterfield
elegantemente sfilata dal pacchetto, tentatrice come il diavolo in
persona. La presi e la misi in bocca senza neanche ringraziare.
Appoggiata al muro, con il braccio dietro la schiena e la gamba
ripiegata contro la parete, attesi che Ugo azionasse lo zippo e poi
tirai con soddisfazione la prima boccata. Il cielo era così limpido
che ci si poteva perdere come in un sogno e dalla strada sembrava non
provenire alcun rumore. Il TIR, che aveva appena scaricato la sua
consegna, fece una manovra da applausi per invertire la marcia e
guadagnarsi di prepotenza il suo posto nel traffico. Ugo fini di
trascinare l’ultima delle scatole vuote contro il perimetro, nel
posto esatto in cui lo smaltimento rifiuti si aspettava di trovarle,
poi mi venne incontro che la Chesterfield era già a metà.
«Dai, che domani e sabato!»
Già, l’aspetto positivo di
lavorare al magazzino era quello che al sabato si stava solo mezza
giornata.
Non avrei voluto buttarla sul
tempo, ma alla fine lo feci. «Se rimane così caldo e stabile, io e
Michi ce ne andiamo in montagna. Vogliamo tornare giù con una
tintarella che levati!»
«Me lo devi fare conoscere…»
«Chi?»
«Il tuo fidanzato, Michi.»
«Ma dai Ugo, è talmente figo
che ti metterebbe in imbarazzo, tu con quel pancione da birra!» Gli
diedi un colpo sul ventre che suonò come una grancassa. Lo prendevo
sempre in giro e la cosa sembrava divertirlo.
«Lo sfido a braccio di ferro.»
Si carezzò il grosso bicipite, un po’ flaccido per la verità. «Lo
mando a casa in lacrime e con una sculacciata, il tuo Michi…»
«Non sono quelli i muscoli che
contano in un uomo, dovresti saperlo alla tua età…»
Si atteggiò a duro di
Hollywood, mi sbuffò in faccia il fumo e fece un’espressione che
nelle sue intenzioni doveva essere cattiva. «Attenzione a come
parli, collega! Io qua sotto ho un muscolo che tutto il mondo
invidia…»
Risi. «Può darsi. Non insisto,
non lo voglio vedere…»
«Hai presente l’obelisco,
quello nel bel centro della rotonda?»
Indicai un punto a caso verso
nord. «Quello…là?»
«Esatto, collega, solo per
farti un’idea…»
«Wow!»
«E’ quello che dicono tutte,
wow…»
Mentre mi sforzavo di ricordare
se l’obelisco della rotonda finisse a punta, a tronco di cono o con
una semisfera, vidi uno dei principali azionisti dell’ipermercato.
Aveva appena varcato il cancello con la sua Porsche Cayenne, con più
pelle nelle sellerie che in una mandria di montoni. Non so come, ma
mi venne in mente che l’obelisco aveva in cima uno spunzone, tipo
quello dei soldati austro-ungarici della prima guerra mondiale. La
cosa mi fece ridere.
«Stai ridendo in faccia al
capo? Non so se sia una buona idea ai tempi del job act, collega!»
«No Ugo, tranquillo. Stavo
pensando al tuo obelisco…»
«Stronza!»
«Ma dai, scherzavo!»
Mi mise nuovamente il pacchetto
sotto il naso. «Sigaretta?»
«Un’altra? No davvero, Ugo…mi
vorrai mica uccidere?» Non rispose, si cacciò la bionda in bocca e
guardò preoccupato le evoluzioni del Cayenne. Il SUV parcheggiò
sotto l’unica pianta di tutto il complesso: un privilegio riservato
ai padroni.
«Ok, Ugo. Vado sotto a mettere
a registro l’ultima consegna.»
«Quella dei croccantini.»
«Già, e tieni a bada il tuo
obelisco, che fra poco arriva il furgone con l’intimo femminile.
Tante piccole scatole per la gioia di mamma e papà.»
«Specialmente dei papà!»
«Levati!» Ordinai, con un fare
imperativo. Ugo ci rimase veramente di sasso. Lo spinsi via con una
tale determinazione che i suo cento chili mi sembrarono nulla.
«Si può sapere che ti prende?»
«Guarda là…»
Si girò e non vide nulla. «Hai
le allucinazioni, collega?»
«Ma no, là. Dietro il paraurti
della Porsche…»
Ugo tiro fuori il suo aspetto
femminile. «Tre mi-ci-ni te-ne-rissi - mi!»
«Quattro.»
«Quattro!» Indicò uno
scricciolo in color ruggine che si aggirava intorno all’aiuola, tutto orecchie e con
la coda dritta, fino a che un suo fratellino, grigio cenere con
qualche striatura più scura, lo colse di sorpresa facendogli lo
sgambetto. Gli altri due, non più grossi di un paio di palle da
tennis ed entrambi di un colore arancione tendente al biondo,
sembravano avere ingaggiato una contesa di importanza vitale per il
futuro della nazione.
«E chi ce gli avrà portati?»
Pensai ad un paio di ipotesi.
«Qualche stronzo che gli ha abbandonati» risposi. «Ugo, vai tu a
prenderli prima che qualche camion li schiacci!»
Fece due passi e venne colto dal
dubbio. «E poi che ci facciamo? »
«Che ne so! Levali di lì,
presto!» Mentre il muso di un MAN con rimorchio si era appena
affacciato al cancello. Sembrava un mostro stermina gatti, mandato da
un altro pianeta per non lasciare nessun felino in vita sulla faccia
della terra. Con tutte quelle ruote avrebbe fatto una strage.
«Vai, che cosa aspetti!»
Ugo obbedì e, prima che il TIR
si fosse messo a rombare nel cortile facendo tremare tutto, i micini
erano in salvo, due per ogni braccio.
Mi venne incontro di corsa e fu
intercettato da un’occhiata velenosa del capo. Aveva smesso di
parlare con una dell’amministrazione; minigonna vertiginosa,
occhiali palesemente finti e meches rosse che dovevano esserle
costate tutti gli straordinari.
Il capo non aveva visto i gatti
ma, mosso da un istinto omicida (qualcosa che doveva appartenere alla
sola categoria dei dirigenti/azionisti/figli di gran troia), venne
incontro a me, mentre Ugo, con le braccia tutte graffiate, mi porgeva
sedici, pericolosissime zampe taglienti.
«Che intenzioni hai?»
«Li porto sotto con me, per
oggi. Poi stasera troverò una sistemazione. Tu che hai le spalle
larghe coprimi, distrai il capo e lascia che il montacarichi scenda.
Ok?»
«Perché dovrei distrarre il
capo?»
«Inventati qualcosa. Lamentati
del muletto che ha le gomme sgonfie.»
«Ma non ha le gomme sgonfie!»
Il capo stava arrivando.
Avanzava come un pistolero sotto il sole infuocato della tarda
mattina. Mi girai, strinsi i micetti al seno e scappai trotterellando
in direzione dell’ascensore. Premetti il tasto -2 e attesi la
chiusura delle porte.
L’impianto verificò il peso e
dopo qualche secondo cominciò a fare scorrere le porte in chiusura. Per la sua dimensione e a causa
della lentezza degli ingranaggi, la chiusura avvenne molto
lentamente.
Ero al centro esatto della
cabina e contavo sul fatto che il capo non mi potesse vedere,
inondato da quella luce che lo faceva assomigliare a un miraggio. Nei
lunghi secondi che le porte impiegarono per sigillarsi l’una con
l’altra, vidi Ugo avvicinarsi al capo porgendo la mano e lui fare
altrettanto. Vidi anche che aveva un paio di graffi che saltavano
all’occhio come il rossetto sulla bocca di un uomo e vidi la
Porsche, placida all’ombra dell’unico albero.