«L’accendiamo?»
Ricordo
bene la domanda. Capitò all’improvviso interrompendo le mie argomentazioni.
Non
sono mai stato così intelligente dal sentire fluire i ragionamenti in testa
come la piena di un fiume in primavera, ma nemmeno uno sprovveduto. In
quell’occasione, gli ingranaggi del pro e del contro si bloccarono
improvvisamente e quel fastidioso cigolio della mia coscienza si interruppe.
«Non
ne sono sicuro.» Risposi, ma fui persuaso dal quel sorriso accattivante, condito
dal luccichio di un dente d’oro che faceva capolino alla base della lingua. I
soldi erano a portata di mano. Uno scatto luminoso e sarebbero stati miei.
Adesso
mi sto godendo il panorama.
Il
vento, che soffia dalle montagne, si è riscaldato strofinandosi sulle rocce e
la pressione gonfia la mia giacca aperta. Sono circondato da una pioggia di
foglie secche. Si sono arrese all’inverno incipiente e stanno cercando un posto
per andare a marcire. Sullo sfondo di un intreccio di rami una coppia di
cerbiatti si rincorre. Il primo salta il cespuglio e il secondo lo imita. La
terra sollevata dalle loro zampe si traduce in tanti, scenografici sbuffi di
polvere. I miei occhi cascano nell’inganno del mimetismo e avverto soltanto il
progressivo estinguersi di una leggera vibrazione di passi, o forse è solo
frutto della mia suggestione.
Non
ne sono sicuro.
Caterina
è cresciuta così in fretta, che faccio fatica a sostituire il ricordo che ho di
lei bambina a quel metro e ottanta di curve dolci e pelle di pesca. Al
principio dell’inverno è ancora abbronzata ed è bella. Si muove come una
ballerina, ogni volta che sorride sembra festa e non parla mai a sproposito. Il
pensiero mi riempie di orgoglio.
Sono
convinto di essere stato un bravo padre e rivolgo lo sguardo al cielo terso.
L’azzurro
intenso balugina un po’ per effetto di una lacrima e in quel momento una coppia
di poiane sorvola il bosco, descrivendo una serie di cerchi concentrici sempre
più stretti. Devono avere avvistato una piccola preda, probabilmente in
difficoltà di fronte a un precipizio sul limitare della pineta.
Caterina
gioca a volley. Si presenta in palestra per prima e la lascia quando tutte le
altre sono già sotto la doccia. Non esiste una tutina che non le stia veramente
bene e quando salta rimane sospesa in aria a lungo, con le scarpe a bande
diagonali rosse staccate di un metro buono dal pavimento. In quell’attimo si
possono scattare delle foto perfettamente a fuoco. Quando atterra non fa
rumore, neanche il solito scricchiolio delle suole che in certe occasioni si
trasforma in un concerto. Porta sulla
canottiera aderente in lycra il numero sedici, o il diciassette.
Non
ne sono sicuro.
Se
c’è una cosa che detesto delle montagne, è che sono un ostacolo anacronistico.
Il
progresso non è ancora riuscito a domarle e qualche volta bisogna inchinarsi
alla loro imponenza e girare intorno. Si deve sopportare l’ombra che rende l’asfalto
viscido, il buio reso improvviso dal folto dei boschi e quel freddo che cozza
con l’aria tiepida della pianura. La valle ai miei piedi si stringe, fino a
scomparire dietro a un rilievo abitato dalla nebbia. Una strada tortuosa la
percorre in un susseguirsi di tornanti e rettilinei, per poi perdersi a sua
volta. Sembra che un pittore ubriaco si sia divertito a pulire il grigio del
suo pennello cercando nel frattempo un’ispirazione.
Grazia
è un tesoro. Non c’è nulla di lei che non mi piaccia e gli anni che passano
l’hanno trasformata nella colonna della mia esistenza. Ci eravamo conosciuti
ancora ragazzi e adesso, a ogni momento, a ogni battito del mio cuore che si
aggiunge alla nostra storia, sento di avere speso bene il tempo. Ama il suo
lavoro di un amore corrisposto, riceve gratifiche, è adorata dai colleghi e
porta a casa soldi e sorrisi. L’ultima volta che siamo andati al ristorante
insieme indossava un abito rosso lungo, sposato perfettamente con la linea
armoniosa dei fianchi e candidato ad attirare gli sguardi invidiosi dei
commensali sul suo fondoschiena. In abbinamento alla borsetta in finta pelle
nera, portava con stile un paio di scarpe col tacco da quindici, o da dodici.
Non
ne sono sicuro.
Il
concetto di colonna, granito e solidità, si abbina perfettamente all’ambiente
che mi circonda. Dalla parete di roccia alle mie spalle, che solo pochi
coraggiosi arbusti hanno tentato di conquistare, si affacciano le feritoie
muschiose di una fortezza abbandonata. Sul passaggio avaro di spazio che le
mura concedono al precipizio, una fila di camosci si organizza per guadagnare
il principio del bosco.
Dove
la parete sudata comincia a spiccare dalla terra, un sentore lieve di fumo e
nebbia si solleva incontro alle pietre squadrate e uno stormo di piccoli
uccelli si divide in gruppi appena raggiunto il cielo.
«Sì»
Risposi, trangugiando la saliva che mi sembrò un boccone di spine. La mano,
fredda e contratta nella paura, si strinse intorno alla mazzetta di banconote
che l’uomo dal sorriso accattivante mi aveva allargato sulla scrivania. Prima
di ritrarla ebbi tempo di interpretare il lampo di soddisfazione nei suoi occhi
e la domanda arrivò assieme a un alito corrotto.
«Quindi
ne è sicuro?»
Se
non sarò a casa per cena, Grazia mi giudicherà male e anche Caterina. Forse
questo pomeriggio ha l’allenamento di pallavolo o forse il doposcuola.
Non
ne sono sicuro.
Il
fuoco non è affatto silenzioso. Nella fantasia e nelle romanticherie degli
amanti crepita, ma quando intacca un bosco annichilito da mesi di arsura, grida,
e lo fa insieme a migliaia di creature.
Il
fumo serpeggia basso, s’infila nelle tane e uccide i piccoli roditori ancora
indaffarati a procurarsi le provviste per l’inverno. Il fuoco si insinua sotto
le foglie, disintegra gli insetti e corre alla ricerca del suo sfogo. Quando
trova l’ossigeno per cibarsi si tramuta in un’esplosione.
E
la mano finalmente si ritrasse. Mi accorsi che stropicciare le banconote
produce un rumore del tutto simile a quello delle fiamme che sbranano un
cespuglio. Dopotutto, c’è un’affinità perversa che lega il denaro a tutte le
cose che bruciano.
La
resina che cuoce produce i suoi vapori e il fuoco se ne nutre.
Sul
suo cammino ci sono fiamme alte trenta metri e un cimitero di tronchi roventi alle
spalle. Qualche volta una lingua di fuoco si fa avanti e sembra voglia catturarmi.
L’uomo dal sorriso accattivante mise subito le cose in chiaro.
«Dovrà
abbandonare la zona, molto prima che l’innesco possa accendersi e farla
scoprire…Mi raccomando!»
Spiegazzai
le banconote per infilarle in tasca. Quando quella gente ti incarica di una
cosa, tu non puoi rifiutare. Mi alzai e
guadagnai la porta senza girarmi.
«Allora,
grazie…»
Il
cassetto della scrivania si chiuse con un colpo secco. Non mi sfuggì l’impugnatura
della pistola posata accanto alla scatola dei soldi e l’uomo dal sorriso
accattivante se ne accorse.
«Lei
ha famiglia? Che ne so. Una moglie innamorata e una bella figlia capace di
darle delle soddisfazioni?»
Mi
immaginai di averle.
Pensai
a una vita diversa da quella fogna, che credevo essermi lasciato alle spalle soltanto
vestendomi di buone maniere. Allargai un sorriso fra i più finti del mio
repertorio. «Sì, sono due donne meravigliose!»
L’uomo
dal sorriso accattivante si accese un sigaro e scomparve dietro delle volate
azzurrognole di fumo. Io lasciai l’ufficio nel suo odore di benzina e mi misi a
ripetere come un mantra:
Il
fuoco purifica, il fuoco purifica, il fuoco…
E
vedo un grosso cervo maschio corrermi incontro come un treno.
Lo
seguono una femmina e tre cuccioli disperati. L’ultimo si attarda, rallenta,
accelera e poi cambia direzione. Quando gli altri sono ormai lontani, ingannato
dal terreno cedevole si lascia scappare una zampa e finisce col rotolare nella
gola di un ruscello.
Le
fiamme mi stanno circondando e sono stanco.
Se
Grazia e Caterina fossero esistite per davvero, avrei applicato le mie consegne
alla lettera e me ne sarei andato via, subito.
Il
ragazzo paralizzato dalla paura è stato rincuorato dai suoi compagni e adesso
mi sta additando, o forse sta indicando le lame infernali che hanno aggredito
un gruppo di conifere alle mie spalle.
Il
fuoco ruggisce.
Chi
parla di crepitio vive in un mondo di plastica, piccolo e prevedibile come il
fornello del suo caminetto.
Se
Grazia e Caterina fossero esistite per davvero non avrei fatto il delinquente e
la mia vita sarebbe stata diversa, o forse no.
Non
ne sono sicuro.
Le
corna del cervo maschio si infilano sotto alle mie costole.
Ruvide,
le sento attraversare il polmone e finire con lo spingere sulla parete interna della
schiena. Il calore che mi circonda è così intenso, che il sangue accumulato
nella gola potrebbe mettersi a bollire.
Il
giovane cerbiatto sbuca dall’alveo del ruscello e si mette a correre zigzagando
verso valle.
Leggo
dai labiali un incoraggiamento a mettermi in salvo, oppure la sua è una
maledizione, scagliata contro di me e condita da una corona di imprecazioni.
Non
lo so, non ne sono sicuro.
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