venerdì 30 ottobre 2020

La canadese rossa, un racconto in salsa dark

 

LA CANADESE ROSSA




Maria vide la canadese rossa solo qualche ora prima che cominciasse a nevicare. Fu una nevicata tardiva, arrivata in coda a un inverno asciutto e freddo, talmente tanto che la campagna intorno a casa sua si era ammalata di un giallo itterizia. Quel giorno, come altri mille, l’aveva passato a studiare, a nutrire il suo giovane cervello sui libri.
Tredici anni appena, con il corpo che tardava a sbocciare e la noia come compagna di vita, Maria non aveva molti motivi per uscire, vuoi perché doveva aspettare l’autobus che passava solo due volte al giorno, vuoi perché, per arrivare alla fermata, era necessario percorrere mezzo chilometro di strada sterrata, coi sassi che proprio non volevano scendere a compromessi con le suole e la paura che il cane dei vicini le arrivasse incontro, con la bava alla bocca e la catena spezzata trascinata appresso. 
Il paese, lontano e abitato da persone senza fantasia, era abbastanza piccolo da non meritare la sosta di un turista o una visita attenta. Era anche così prevedibile e sciatto che la scuola al suo centro, dipinta di una fantasia di colori pastello presi a prestito dalla tristezza, era l’unico edificio dell’abitato che superasse i canonici due piani per avventurarsi verso un terzo mansardato, dedicato a una triste biblioteca disertata un po’ da tutti. Maria, al contrario, prendeva a prestito molti libri, si metteva comoda sulla poltrona davanti al camino e leggeva, leggeva fino a stancarsi.
Nella bella stagione il porticato all’esterno era perfetto allo scopo, con quel dondolo smaltato verde che cigolava come un vecchio carillon e il tavolo con la tela cerata a fiori fissata con gli antivento e il parapetto in legno che sfarfallava di vernice secca al minimo movimento. Custer, il suo vecchio cane meticcio, con la coda spezzata in centro e una macchia bianca sul lato del muso, amava accovacciarsi nell’angolo del balcone. In quel punto i montanti della ringhiera sembravano cartavetrati e non solo, un alone scuro sul pavimento in legno dava la misura di quanto l’animale fosse affezionato a quel pezzo di mondo. 
Uno di quei pomeriggi d’inverno con l’odore della neve nell’aria, la canadese rossa apparve nel prato sulla sommità della collina.
Era piazzata per benino al centro di una corona di alberi, con il lato più breve rivolto al vento e i tiranti ben tesi. La cerniera a lampo che dava sull’ingresso appariva aperta per metà, con i lembi inferiori che svolazzavano appena. Uno dei primi fiocchi della nevicata, che sarebbe durata per due giorni da lì in avanti, si posò sul lato inclinato. Come gli altri milioni che arrivarono al suo seguito, rotolò in terra con un fruscio appena percettibile. Maria rincasò un po’ preoccupata, con Custer al fianco. Il cane saltò agilmente l’asse mancante sul ponticello in legno adagiato sulle sponde del torrente. Lei preferì passare a lato, facendo affidamento a una robusta presa sul mancorrente gelato.
La sera, con la mamma in cucina, il papà appena arrivato e l’umore un po’ peggiorato rispetto alla volta prima, Maria si alienò dalla realtà e si mise a leggere, lasciandosi cullare dalla sedia a dondolo di fronte al fuoco. Il telegiornale brontolava il solito rosario di brutte notizie. Moby Dick, intanto, si stava prendendo gioco del capitano Achab.
Una montagnola di neve. La tenda si presentò esattamente così. Dopo oltre due giorni di nevicata ininterrotta e di vento gelido che ne aveva irrigidito i contorni, non si scorgeva più nulla delle geometrie nette e le piante intorno avevano i rami ormai piegati. Maria, con i doposcì addosso e Custer, con un po’ di artrosi e la neve a solleticargli la pancia, si avvicinarono abbastanza da immaginare che la canadese rossa potesse benissimo essere la tomba di qualcuno. Maria tornò indietro, correndo e facendo attenzione al ponticello malfermo. Arrivò a casa con il bollore nei piedi e le gote colorite di un rosso febbre. Il signore delle mosche, nuovo di zecca, aspettava solo di salire sulla sedia a dondolo con lei per essere iniziato.
Il terzo giorno, sotto il cielo che avvicendava il bianco delle nuvole con timide striature d’azzurro, la tenda si era abbassata sotto il peso della neve come una torta uscita dal forno nel momento sbagliato. Custer in quell’occasione era rimasto a cuccia e il libro raccontava della testa di un maiale, infilzata su una picca in legno e circondata da uno sciame perenne di mosche.
Il quarto giorno piovve.
Maria non osò trovare nuovamente una scusa per allontanarsi da casa, affrontare la guazza gelata fino alla collina e vedere come fosse ridotta la tenda rossa. La immaginò premuta al suolo, con i tiranti accartocciati e la struttura collassata che fuoriusciva dal telo come una frattura scomposta.
La notte che seguì riuscì a dormire solo pochi minuti.
Incubi, coperte opprimenti e il troppo buio che premeva sulle palpebre. La radura fra gli alberi, con la tenda al centro, le apparve in sogno assieme a un rapido alternarsi delle stagioni, con uno stormo di corvi che si avvicendavano al banchetto e una processione di vermi incontro a quel ricordo di rosso.
Passarono l’inverno e poi la primavera. Frodo Baggins riuscì a liberarsi del suo fardello, Berverly Marsh, assieme ai loosers, portò a termine il suo rito iniziatico e Maria compì quattordici anni.
Un mattino d’estate, promossa a pieni voti e con mamma e papà scesi in paese alla ricerca di un’auto nuova, tornò alla radura. Portò con sé Custer, un po’ claudicante per l’aggravarsi dell’artrosi e attaccato a un inedito guinzaglio interpretato come un’irrimediabile offesa. L’erba, alta e fitta, non era riuscita a mascherare del tutto il telo della canadese che il sole aveva cominciato a sbiadire. I tubi ricurvi del telaio si erano rivelati un invito a nozze per le erbacce infestanti. Nel mezzo, un neonato alberello stava andando incontro al sole e si era trascinato appresso un lembo della tenda. L’odore di decomposizione nell’aria era piuttosto netto.
 Il Lord Jim risalì il suo fiume, Guy Montag cercò di appiccare più incendi che poteva e Il Grande Fratello la fissò a lungo dal grosso poster appeso alle pareti.
In agosto, sotto il solleone e con la mansarda arroventata, la biblioteca chiuse per il consueto riposo estivo e Maria finì di dondolarsi al riparo sotto il porticato, quando ormai sul fronte occidentale non accadeva più nulla di nuovo.
Corse verso la collina e vi arrivò con la lingua penzoloni. L’albero, nutrito delle piogge abbondanti in primavera, era cresciuto di almeno un metro e mezzo e vestiva di rosso come un abete natalizio. I tubi, i picchetti e i tiranti ormai arrugginiti, attorcigliavano in aria un’opera d’arte moderna piuttosto macabra. Ritornò indietro correndo ancora più veloce e si accorse che il ponticello aveva ceduto al fiume il secondo dei suoi assi marci. Un moncone di legno era rimasto a far da testimone dei bei tempi andati. 
L’autunno seguente rimasero in biblioteca solo alcuni libri ancora da leggere e la scuola media si liberò di lei per proiettarla verso un mondo nuovo.
Dimenticò la collina, la radura e l’albero smanioso di crescere che si trascinava appresso le spoglie della tenda rossa e chissà cos’altro ancora. Dimenticò al punto di non sognare più nulla che avesse a che fare con quel posto. Nei suoi pensieri un po’ di spazio per quel ragazzo ricciolino della prima B e un’emozione nuova per il seno, che si era finalmente deciso a puntare insistentemente sulla maglietta della salute. Al mattino, dopo colazione, la scelta dell’abbinamento fra i vestiti cominciò a richiedere qualche minuto in più.
La biblioteca dell’istituto, sistemata in un silenzioso seminterrato, aveva così tanti libri che Maria dovette darsi una regola. Scelse un criterio che teneva conto di una cronologia storica e di un ordine alfabetico non rigoroso. Prima delle vacanze si rifornì dell’opera omnia di Flaubert, Guy de Maupassant e Goethe.
Dondolò sotto il porticato assieme a Madame Bovary e imparò i rudimenti dell’Educazione Sentimentale. Accadde sul finire del pomeriggio, con un imperioso temporale che aveva fatto sparire il cielo a est. Conobbe la vita di Jeanne Le Perthuis e il cinico arrivismo di George Duroy, irresistibile playboy di una Parigi che compariva solo più nelle stampe d’epoca.
 Al principio di settembre, senza Custer costretto dall’artrosi al suo angolo di mondo preferito, si ritrovò nuovamente al cospetto dell’albero. Era cresciuto fino a pareggiare i suoi simili che circondavano la radura. Il telo della tenda aveva virato verso un rosa porcellino e calzava perfettamente fra i rami già rigogliosi. I tubi del telaio lo tenevano ben teso, come se una mano abile e paziente avesse stirato il colletto della camicia dopo averlo inamidato per bene. Fra le foglie più in alto e appena fuori dal riparo del telo, si intravedeva una chioma nera, piuttosto spettinata ma ancora folta. Stava adagiata sul tronco principale come se qualcuno si fosse organizzato la pennichella del pomeriggio al riparo dal sole.
Maria non era arrivata a mani vuote.
Aggirò gli alberi, pestò i piedi in terra per allontanare le vipere e infine sedette con la schiena appoggiata al fusto. Le formiche intraprendenti cominciarono a prendere le misure delle sue caviglie nude e lei le ricacciò, seppellendole sotto un leggero strato di terriccio. Il tessuto della tenda svolazzava appena, come quella prima volta al principio della nevicata. I passerotti cantavano e le cicale non si stavano di certo risparmiando. Sentì l’erba dura trafiggere i pantaloni estivi inconsistenti e un accenno di prurito alle gambe.
Resistette.
Spinse con la schiena e il giovane tronco ancora tenero si mise a dondolare. La chioma di capelli neri, producendo un rumore di ossa rotte appena confuso col fruscio delle foglie, si posò sul ramo a fianco.
Lei, con voce emozionata, attaccò la lettura del Giovane Holden.

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