La penombra confonde le forme e altera le distanze fra gli oggetti.
In sostanza si diverte a ingannare la realtà.
Quella volta, tuttavia, qualcosa si aggiunse e contribuì a rendere il quadro della situazione molto meno leggibile.
Dovette pensarci un attimo, fino a quando la nausea si fece riconoscere per prima, seguita da un forte dolore alla testa. Tentoni individuò l’interruttore e accese la luce su una camera sconosciuta. Si mise a sedere sul letto e si guardò intorno, mettendo a fuoco i particolari con gran fatica. Il bruciore agli occhi e di un recondito rifiuto di quella situazione lo appesantivano come uno zaino di sassi.
La camera non era grande. Aveva un piccolo scrittoio, un armadio a due ante impiallacciato faggio e un televisore da sedici pollici, fissato al muro con un supporto nero. I cavi dell’antenna e del satellite pendevano sul retro, tagliati lunghi da un impiantista sbadato e il telecomando sporgeva dalla poltroncina, ai piedi della quale era posato un piccolo bagaglio. La porta del bagno, socchiusa, mostrava delle piastrelle azzurre sullo sfondo, appena illuminate dalla luce della specchiera rimasta accesa.
Si alzò, rimandando per il momento la soluzione del problema principale, ovvero: dove sono e soprattutto, chi sono?
Lo specchio del bagno non fu di aiuto.
Sebbene quel volto riflesso fosse indubbiamente il suo, tutto il resto che lo riguardava non aveva più dimora nella sua mente. Sulle prime un attacco di panico tentò di esordire, subito ricacciato da un esercizio di training autogeno che, ovviamente, non si ricordava dove avesse imparato.
Portava una maglietta della salute in lycra, delle mutande nere aderenti e un calzino solo, che nel sonno gli aveva inciso un marchio nella pelle.
Nella piccola borsa ai piedi della poltrona non c'era nulla che potesse aiutarlo a riguadagnare la memoria perduta. Solo un portafoglio senza documenti o carte di credito ma con cinquemila euro in contanti al suo interno, suddivisi in pezzi da cinquanta e da cento.
La testa continuava a dolere.
Dietro l’orecchio un punto infiammato, forse un livido che non riusciva a vedere e quell’alito da sbornia che saliva fino al naso.
Ancora la stessa domanda di prima: chi sono, cosa devo fare e dove mi trovo? Non aveva idea sulle risposte.
C’era una finestra in quella stanza, del tipo a ghigliottina. L’aprì e cacciò fuori la testa nel rumore di un traffico che arrivava a quel decimo piano come se le auto gli stessero passando sui piedi. Di sotto una rotonda stradale, con delle palme e un giardino nel centro, arricchito da una fontana con la vasca in cemento e da una serie di panchine, disposte in circolo intorno a un monumento. Dall’altra parte della strada dei palazzi eleganti, con almeno sei piani e con le facciate che si alternavano nei colori, dal bianco prevalente a tenui pastelli tendenti al rosa o all’ocra. Più in lontananza un secondo albergo, con file ininterrotte di balconi in vetro e tende parasole a tutte le finestre.
Qualunque posto fosse, lui non lo conosceva affatto.
All’interno, il condizionatore stava suonando il requiem, messo sotto tiro da un direttore esigente.
Chiuse la finestra che escluse l’afa dalla realtà del momento.
Si mise seduto sulla poltrona, concentrandosi inutilmente per risolvere la sua amnesia.
Dieci minuti dopo, la confusione era aumentata e nulla della memoria era tornato a funzionare.
Si vestì, con i pantaloni di cotone e la camicia che aveva trovato accuratamente riposti sulla spalliera della poltrona. Mise i mocassini e uscì nel corridoio, portandosi appresso le chiavi della camera 1022. Camminò sulla moquette, fino alla 1001, assai dopo l’ascensore e appena prima delle scale di servizio: nessuno.
Di ritorno incrociò una donna, che tirò dritto abbassando le testa e tenendo in grembo un astuccio di finta pelle.
Il senso di smarrimento si accentuò.
Nuovamente in camera, accese il televisore. Era sintonizzato su un canale di sport, dove il gruppo della maglia rossa procedeva spedito a cinquanta chilometri dall’arrivo. I conduttori parlavano di strategie, profili altimetrici e gambe da preservare per le tappe di montagna.
Ancora nessun ricordo, nessun indizio sulla propria identità.
Quando ormai il numero di telefono del soccorso medico era stato individuato fra le decine messe a disposizione da una tabella applicata all’interno della porta, l’occhio cadde su un cassetto dello scrittoio non perfettamente chiuso.
Spinto dall’istinto si avvicinò.
All’interno il primo frammento di un mosaico da ricostruire.
Aprì il cassetto con cautela.
Apparve il secondo calzino, quello che non aveva avuto modo di disegnare il profilo dell’elastico sulla pelle. Era appoggiato su una piccola valigia in plastica dura che giaceva al centro dello spazio, insieme alla penna dell’albergo e a un pacco di fazzoletti di carta, probabilmente dimenticati da un precedente cliente.
Per qualche ragione, il calzino era stato tolto dal suo piede e posizionato in quel posto preciso. Chiunque avesse messo in atto quell’accorgimento lo aveva fatto per fargli trovare quella strana valigia. I ragionamenti fluivano rapidi ma la memoria latitava ancora in qualche remota regione del suo cervello. Per non cadere in una spirale distruttiva di pazzia, dovette fare ricorso a una dose supplementare di pazienza e concentrazione, .
Mise la valigetta sullo scrittoio e l’aprì.
Al suo interno c’era una pistola: una calibro nove, nera come la notte, senza silenziatore e con il caricatore già inserito nell’impugnatura. La estrasse e la strinse nella mano destra, sentendola come una cosa familiare, come una cosa sua. Con un gesto istintivo sganciò la cartuccera, che prese al volo con la mano libera. Non conosceva il suo nome, dove si trovasse e cosa stesse facendo in quella città sconosciuta. Di sicuro aveva dimestichezza con le armi, e se lo era appena dimostrato.
Prima di perdersi nuovamente nella ricerca vana della sua identità, un particolare colse la sua attenzione. Nella valigetta, rimasta aperta sul piano della piccola scrivania, un bigliettino giallo, ripiegato su se stesso, faceva capolino dietro l’imbottitura. Nella speranza di trovare un indizio utile per ricostruire la memoria perduta lo prese e nervosamente lo aprì. Era stato compilato con una matita e riportava tre informazioni, una sopra l’altra.
La prima era una data: 10-09-2015, la seconda un nome, la terza un indirizzo.
L’ascensore scese velocemente fino al piano terreno e le porte scorrevoli si spalancarono sulla reception dell’albergo.
Fu accolto da un trambusto di voci, clienti frettolosi e facchini indaffarati. Il banco con il portiere di turno era dalla parte opposta della sala dove una bruna con gli occhi verdi mostrava le sue forme di giovane donna, valorizzate da un vestito grigio elegante e da un’abbronzatura di giornata.
Attraversò l’ambiente senza che nessuno lo salutasse e andò incontro alla ragazza, pronta a riceverlo con un sorriso irresistibile. Prima ancora che potesse salutarla, la bruna gli sporse un documento di identità. Lo ritirò senza commentare ed elargendo un sorriso a sua volta.
«Buongiorno signor Serratos, la mia collega del turno di notte è molto dispiaciuta per non essere riuscita a...a restituirle subito il documento. Per lei, questa sera, la cena è offerta dalla casa, con le scuse della direzione.» Disse, indicando con la mano la porta della sala ristorante che brulicava di clienti, tutti alla seconda portata.
Ringraziò, prese la carta di identità e vide la foto, che corrispondeva alla sua faccia, solo con i capelli un po’ più lunghi. Finse di indirizzarsi al ristorante ma svoltò in direzione dei bagni. Lo fece con una certa dimestichezza, come se eludere le attenzioni della gente fosse parte del suo mestiere abituale.
In bagno non c’era nessuno. Sul documento compariva il suo nome ma la cosa non gli diceva niente. Dal momento che la memoria non voleva accennare a riaccendersi, si diresse ai terminali messi a disposizione dei clienti. Erano un paio, sistemati all’interno di due piccole cabine aperte sul davanti. Ricordavano le vecchie postazioni dei telefoni pubblici.
Fece partire il browser e digitò immediatamente il nome che compariva sul documento: Miguel Serratos.
In breve apparvero una mezza dozzina di righe, due delle quali riguardavano delle pagine Facebook, la prima di un giovane con cresta, tatuaggi e piercing ovunque, la seconda di un simpatico pensionato di Gandia col pollice verde, a giudicare dalle foto meravigliose del giardino di casa. Cliccò anche sulla pagina di una ferramenta di Burgos, sulla notizia di un incidente stradale il Galizia, dove il suo omonimo aveva trovato la morte e sul sito di un dentista colombiano, che con lui non aveva nulla a che fare. Seguivano altri Serratos senza Miguel, poi altri Miguel senza Serratos.
In preda allo sconforto si diede una botta sulla tempia con il palmo della mano, come se quel gesto potesse spaventare i neuroni e costringerli a riorganizzare i suoi ricordi andati in acqua, quindi digitò l’altro nome misterioso, quello che aveva trovato scritto sul biglietto insieme all’indirizzo.
Maria Manuela Jimenez Martinez…clic.
Attese un paio di secondi ed ecco comparire un profilo di Facebook.
Si trattava di una giovane donna, apparentemente dell’età di ventotto o trent’anni.
Era bella, bionda e generosa nelle forme. Portava i capelli lunghi e il tatuaggio di un piccolo scorpione sulla spalla sinistra. Chiara di carnagione, con gli occhi di un ricercatissimo verde, mostrava delle labbra carnose e due sopracciglia perfette, che si alzavano sui lati come le ali di un’aquila. Degli orecchini minuscoli si notavano appena dietro le chiome perfettamente pettinate, che incorniciavano l’ovale del viso come se un'abile mano l'avesse pitturate. S'immaginò profumasse di crema solare.
Non contento aprì la pagina delle info. La ragazza non ci teneva a difendere la sua privacy. Aveva dichiarato di abitare ad Alicante, esattamente come era scritto sul bigliettino giallo.
Chiuse il browser e ritornò in camera sua.
Dalla finestra il medesimo spettacolo di prima, con il solito traffico, il solito caldo opprimente e un'unica certezza: Miguel Serratos, chiunque fosse, era un nome che non lo riguardava, era un nome falso.
L’itinerario da seguire era stato studiato a tavolino, non erano ammessi dubbi o ripensamenti.
La meta era un grattacielo in Avenida Cajal, che cominciava a dare segno della sua imponenza molto prima di presentarsi al suo cospetto.
Camminava di buon passo sul lungomare, con le spiagge immense a un paio di file di palme da lui. Per quel giorno non era previsto il bagno di sole, né la passeggiata sulla sabbia bianca con l’acqua del Mediterraneo a lambire le caviglie nude. Quel giorno si doveva portare il peso di enormi interrogativi assieme a quello della pistola nascosta nella tasca interna della giacca.
Chi era Maria Manuela Jimenez Martinez?
Cosa aveva fatto di male per meritarsi la sua visita?
Ma soprattutto: lui la doveva salvare o la doveva uccidere?
La risposta a questi interrogativi non era scritta nel biglietto che qualcuno aveva recapitato all’albergo in mattinata, sporto in busta chiusa dalla portinaia con troppo fondotinta e accompagnato da un sorriso di circostanza.
Mancavano solo due isolati prima del palazzo bianco che doveva raggiungere, e non aveva risposte. Non le aveva nemmeno per quanto riguardava la sua identità. Sul biglietto era segnata un’ora, con la prescrizione tassativa di non tardare, nemmeno di un secondo. Diceva anche di salire al ventiduesimo piano, presentandosi prima al portinaio col nome di Miguel Serratos, quello suo, quello falso. Una volta arrivato, avrebbe dovuto aspettare la ragazza e colpire.
Ma colpire chi?
Miguel, o chi diavolo fosse lui, non aveva indirizzi a cui rivolgersi per chiedere delucidazioni, o perlomeno per rifiutare un incarico del quale erano troppo poco chiari gli estremi contrattuali. Inutile dire che, in calce al documento, non era riportato il solito numero verde dell’assistenza.
Intanto, come nei peggiori degli incubi, il palazzo si era materializzato davanti a lui senza che nessun ostacolo si fosse frapposto fra il suo cammino e il suo appuntamento.
Attraversò la strada sulle strisce, attendendo che la combinazione di velocità, intensità e buona educazione gli permettesse di farlo. In breve fu sulla porta, dove quattro larghi scalini di marmo bianco invitavano a calpestare una moquette color zucchino che sembrava invogliare la fuga, più che accogliere il visitatore.
Sotto la dettatura di un impulso, tentò ancora di ricordarsi chi fosse, ma fu l’ennesimo sforzo vano.
Il primo gradino fu superato.
Cercò negli arredi e negli elementi architettonici uno spunto, qualcosa che potesse aiutarlo a riguadagnare la memoria, magari insieme ad un odore familiare o a un viso amico.
Il secondo gradino era già alle sue spalle.
Quando anche il terzo passo venne compiuto, e la porta automatica in vetro si spalancò di fronte a lui con un soffio leggero, la pistola pesava sul fianco come un cilicio e un uomo in divisa gli venne incontro piantandogli gli occhi addosso.
«Desidera?»
La sua voce venne fuori impostata, come l’attore di uno spot televisivo. «Serratos. Miguel Serratos. Sono qui per fare visita alla signorina Jimenez Martinez.»
Il portinaio, un uomo di mezza età con due baffoni da nostalgico degli anni '70 e un profumo da dopobarba del supermercato, indugiò qualche istante e poi fece cenno di seguirlo. Lo accompagnò a uno dei tre ascensori, quello sotto la targa con la scritta T-22, pigiò il pulsante giusto e lo invitò a salire:
«Ventiduesimo piano, appartamento cinque…» sentenziò, prima di congedarsi con un sorriso privo di qualsiasi entusiasmo.
Solo, nel centro della cabina, chiuse gli occhi e chinò la testa. Non aveva le cuffie alle orecchie, l’unico accessorio che mancava per farlo sembrare il concorrente disperato di un telequiz alla vana ricerca di quella risposta da cinquecentomila euro, quella risposta che si era incastrata fra le cellule del suo cervello e che non voleva uscire come una lisca di pesce bloccata in gola.
Il tempo era scaduto.
Nessun ricordo ripescato, solo un'improbabile tappezzeria a quadri che si era manifestata all’apertura delle porte e una freccia inequivocabile che indicava una direzione, la destra, per un appartamento, il numero cinque.
Consultò l’orologio al polso, segnava le 17,22.
Otto minuti ancora per cercare di ricostruire la sua vita, per cercare di non commettere uno sbaglio.
Si sforzò di immaginare cosa avrebbe fatto, quando la bionda con il piccolo scorpione tatuato sulla spalla si fosse presentata di fronte a lui. L’avrebbe freddata con un unico colpo sparato in mezzo agli occhi? Avrebbe cercato nel suo sguardo quelle risposte che lui non si era saputo dare? Avrebbe girato le spalle e sarebbe andato incontro al suo destino, qualunque fosse stato?
17 e 23. Sette minuti ancora e nessuna certezza.
Doveva forse uccidere una spia pronta a trafugare segreti militari importantissimi, oppure stava per eliminare una pericolosa terrorista in procinto di innescare il telecomando di un’arma biologica?
Forse lui era solo un killer senza pretese, al soldo di un marito geloso o di una collega umiliata, oppure era l’angelo custode di Maria Manuela Jimenez Martinez, una povera donna che, senza il suo intervento, sarebbe caduta sotto i colpi di un assassino portando con lei le prove cardine di un processo importantissimo? Senza certezze, portò la mano sudata all’interno della giacca e avvertì sotto i polpastrelli la superficie ruvida dell’impugnatura. L'arma era con lui. Era tutto vero. La sua scomoda compagna di avventura non era scivolata via, scendendo lungo la gamba dei pantaloni per finire sul marciapiede, dimenticata e scalciata dai passanti distratti.
17 e 25.
Una manciata di secondi e poi avrebbe scelto.
Guardava fuori dalla finestra al fondo del corridoio, uno di quei serramenti tutta luce con il telaio incorporato nella muratura. Praticamente un vetro.
Era diviso da un panorama meraviglioso che inquadrava la città abbagliata dal sole, la prospettiva dei grattacieli che seguivano la curva del golfo e il castello di Santa Barbara sul rilievo roccioso del monte Benacantil. La spuma bianca delle onde, vista da lassù, era un irrinunciabile invito per un bagno nelle acque tiepide, rilassato, senza pensieri e con il corpo abbandonato ai flutti. Avrebbe voluto aprire quella finestra e avere le ali, per volare via e atterrare su un tetto qualunque a godersi il vento caldo del pomeriggio. Purtroppo per lui la finestra non si poteva aprire, le ali non gli erano spuntate ed erano le 17 e 28.
Fissare la sua immagine semitrasparente nel vetro non lo aveva aiutato a capire. Niente del suo passato era emerso. Lui continuava ad essere Miguel Serratos, un uomo con un nome preso in prestito, senza una storia, senza una speranza.
Si rassegnò all’evidenza e cominciò ad avvicinarsi alla porta dell’appartamento cinque, valutando contemporaneamente se al piano ci fosse qualcun altro. Nessuno, a parte il ronzio ipnotico del condizionatore e le vibrazioni sommesse degli ascensori che passavano indefessi attraverso i piani.
Sulla porta c’era il nome della persona con cui aveva appuntamento. Era scritto per esteso, con i cognomi dei due genitori e i suoi due nomi di battesimo. All’interno si avvertivano dei passi concitati. Probabilmente stava per uscire e si muoveva attraverso le stanze alla ricerca di qualcosa lasciato indietro: la borsetta, il cellulare o la pistola con tredici colpi nel caricatore.
17 e 29.
Fece qualche passo indietro. Maria Manuela stava per uscire.
Improvvisamente un ricordo gli trapassò la testa, come un lampo inatteso prima di un temporale.
Per istinto si portò le mani alla tempia, nel tentativo di bloccare l’informazione, elaborarla, ricavare qualcosa di prezioso. Fra le sue mani rimase la sola metaforica coda di quella lucertola che aveva attraversato velocemente la strada di fronte a lui, accecato da un sole troppo forte per i suoi occhi appena usciti dal buio.
Passarono i secondi e il volto di una donna si ricompose sullo sfondo di un paesaggio rurale. Si trattava della sua compagna o di sua madre? Gli occhi di lei erano carichi d’amore e serenità. I vestiti appartenevano a un’epoca che non era la sua. Forse la mente aveva ricominciato a ricomporre la sua esistenza partendo dall’infanzia?
Un secondo lampo, questa volta meno inatteso ma altrettanto sorprendente. Una piccola città adagiata fra le montagne brulle. Sullo sfondo la sagoma di un toro e un nastro di asfalto che l’attraversava sul fianco.
Mancavano pochi secondi all’ora prestabilita e una serie di immagini si susseguirono come i fotogrammi di un film: uomini, donne, bambini, animali.
Una scuola nella pioggia autunnale, un paese lontano, irriconoscibile, un’auto che percorreva la strada deserta, con un paio di piedi nudi sul cruscotto e una misteriosa musica di sottofondo. No, non era affatto misteriosa! Erano i Mott The Hoople che cantavano Whizz Kid. Quel riff, tanto semplice quanto efficace, non lo si poteva dimenticare facilmente, insieme a tutti quel suoni così leccati e a quella voce rauca: “far far from home, oh I felt so alone. Could not spin to the speed of the city”. Una rissa dentro a un bar, un uomo morente nella corsia di un ospedale e un berlina nuova, che brillava sulla pedana in velluto dell'autosalone.
Prima che Maria Manuela potesse apparire sulla porta, si concretizzarono altre sensazioni: giovani ragazze che profumavano di lucidalabbra alla pesca, preservativi difficili da infilare, marijuana, fumo bianco della discoteca che ricorda il borotalco e succulente torte con la panna. Un pallone da calcio che rotolava nel prato incontro a un portiere con la faccia spaventata. Un tuffo dallo scoglio e un neonato tenuto fra le braccia, con la delicatezza con cui si sarebbe maneggiata una bomba.
Ancora ricordi, ancora lampi: un professore severo dietro la cattedra, un treno strapieno di giovani attraverso lande sconosciute, una chitarra appoggiata al muro vicino ad un posacenere pieno, un computer che si accendeva lento in mezzo ad un concerto di ventole e scricchiolii. Una motocicletta che scivolava sull’asfalto bagnato.
Il bombardamento sensoriale non accennava a finire: l’odore di sudore di una palestra pulciosa, con decine di palloni bianchi che rimbalzavano impazziti sulle pareti, le mille luci disordinate di una sagra di paese, una pistola impugnata fra le mani tremanti e un barattolo lontano, difficile da colpire…
Maria Manuela gli apparve all’improvviso, confusa con i ricordi che stavano facendo a spallate nella sua mente.
Quando vide una pistola puntata contro di lei, Manuela rimase impietrita, con la porta alle sue spalle che si era appena chiusa con uno scatto. In preda al panico più genuino, prese ad armeggiare nervosamente all’interno della borsetta mentre il trucco appena applicato evaporava a causa di quel calore improvviso che aveva assalito il suo volto.
Lui la guardò, interrogando quegli occhi verdi che trasmettevano solo paura. Aveva addosso un vestito arancione pallido, attillato e succinto, quanto bastava per mettere in evidenza il tatuaggio con lo scorpione ed un corpo che per giustizia divina doveva continuare a respirare.
Rassegnata, lasciò cadere in terra la borsa che rovesciò il suo contenuto delle cose di tutti i giorni, compresa una bomboletta di spray urticante che evidentemente si era andata a cacciare nel fondo, proprio nel giorno in cui avrebbe potuto dimostrare tutta la sua utilità.
Le dita del finto Miguel Serratos si strinsero sull’impugnatura dell’arma e sul grilletto sensibile. Nella sua testa venivano riversati tutti i dati che in quei giorni era andato inutilmente a cercare.
Un istinto animale lo costrinse a girarsi verso il corridoio, allarmato più da un odore che da una visione concreta di quello che stava per succedere. La figura di un uomo spuntò dietro l’angolo. Correva con il braccio teso, all’estremità del quale una grossa pistola indirizzava la canna nella sua direzione.
L’immagine reale dello sconosciuto che lo teneva sotto tiro, si alternò con quelle virtuali che venivano vomitate nei suoi pensieri, come se la sua testa si fosse trasformata in un sistema cibernetico impazzito. Uno stadio pieno all’inverosimile, ruggiva, un bambino correva nel prato con un cane che disegnava evoluzioni pazze attorno a lui. L’altare di una chiesa, la vetta di una montagna con un tappeto di nuvole a perdita d’occhio, una pinacoteca immensa, con migliaia e migliaia di opere esposte.
L’uomo si avvicinò, gridando delle parole che si persero in quell’orgia di sensazioni e Maria Manuela contrasse il volto in una smorfia che anticipava un pianto disperato.
Il primo proiettile lo sfiorò appena, fischiando sopra la testa.
In quel momento l’aroma di una birra appena aperta precedette la visione di un pesciolino rosso, sorprendentemente morto nella sua boccia di vetro. Quando l’immagine di suo figlio si delineò nei pensieri, il secondo proiettile lo colpì nel centro del petto.
Cadde in terra, raggiungendo l’arma che aveva già deciso di non usare. Appena vista la rassegnazione che si era dipinta sul volto della povera ragazza aveva fatto la sua scelta.
Appoggiato con la schiena al muro sentiva la vita abbandonarlo, proprio mentre il fiume dei ricordi stava per riempire quel bacino, vuoto solo fino a qualche secondo prima. Sentì ancora le parole di sua madre, che si raccomandava di andare piano in auto. Poi vide la sua compagna, con un bicchiere di liquore in mano e quello sguardo triste, mentre lui partiva per una missione lontana.
L’uomo che lo aveva colpito gli passò accanto e allontanò la sua pistola con un calcio. Lo esaminò da vicino e convenne che il suo obiettivo era stato neutralizzato. Abbracciò la donna in lacrime e l’accompagnò in casa.
Un attimo prima di morire la sua memoria era tornata completamente.
Era un sicario della criminalità organizzata.
Nel suo paese, un piccolo centro nei pressi di Siviglia, la compagna e il giovane figlio lo stavano aspettando, ma lui non sarebbe mai tornato.
Avrebbe dovuto uccidere la consorte di un giudice, che nessuno sarebbe mai stato in grado di proteggere. Per fortuna la sua memoria non aveva funzionato.
Appena arrivato all’albergo era scivolato in bagno. Una piccola, insignificante pozzanghera di acqua e sapone che l'inserviente distratta aveva lasciato evaporare sul pavimento. La botta, il lampo e poi era svenuto dimenticandosi tutto.
L’uomo che lo aveva abbattuto era un certo Miguel Serratos, agente dei servizi segreti.
Lui, invece, si chiamava Juan Alberto Sanchez, di quarantatré anni.
Aveva scelto di essere una brava persona.
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