Piero non aveva avuto nemmeno il tempo di svegliarsi.
Con l’umidità della notte appena trascorsa che evaporava dai vestiti, aveva puntato la canna del fucile in direzione del cespuglio e aveva sparato.
Il mattino era cominciato con una luce timida che rimbalzava sul tappeto di nebbia ai piedi della montagna, il suono ovattato del campanile del villaggio e un tepore che sapeva di casa, di colazione e di zucchero da lasciare affondare generoso nella superficie nera del caffè.
Il proiettile aveva attraversato le fronde seminando volute acri di fumo azzurrognolo e se ne era andato a morire dentro un tronco coricato. Il lupo non era stato colpito nemmeno quella volta. Semplicemente se ne era andato. Aveva girato le spalle a Piero, che intanto cincischiava malamente intorno al cinturone alla ricerca di nuovo cibo per il suo fucile. Si era affacciato in mezzo a una coppia di alberi come un curioso si sarebbe sporto alla finestra sulla piazza. Poi era sparito, sollevando una nuvoletta di foglie morte ed un po’ di terriccio.
Il giorno precedente era trascorso così, nell’attesa di una nuova occasione.
Piero aveva battezzato un ceppo sul quale stare seduto, aveva atteso che il lupo si presentasse di nuovo e, fissando i grappoli di bacche rosse e le foglie lanceolate appena stuzzicate da una timida brezza, si era addormentato.
Il giorno successivo, con l’alba che aveva appena finito di scacciare le stelle e la solita, immancabile nebbia stesa a rullo sul fondo della valle, Piero si era appostato dentro una trincea. L’aveva scavata con le sue mani, addomesticando le radici e venendo a patti con un paio di grossi sassi che proprio non se ne volevano andare. Quando l’odore del lupo si era fatto vivo ed il solito inconfondibile fruscio tra le foglie aveva denunciato la sua presenza, la canna aveva eruttato il suo colpo assieme ad un boato e le bacche selvatiche erano esplose dando l’illusione del sangue. Anche quel giorno l’animale era sgusciato via senza nemmeno darsi la pena di correre e, anche quel giorno, le dita scottate di lui si erano ingarbugliate nel tentativo di ricaricare il fucile, di avere una seconda possibilità.
Aveva pianto
Era accaduto quando il lupo, al sicuro dietro al tronco di un castagno secolare, lo aveva guardato con i suoi piccoli occhi verdi. Con il pelo leggermente arruffato sulla schiena ed un po’ di terra secca attorno al naso, sembrava che se si fosse divertito a sua volta a scavarsi un buco.
La notte seguita al suo ennesimo fallimento, all’ennesima dose di frustrazione che appesantiva la sua anima già greve, Piero non aveva dormito, o mangiato, o sognato. Per lui era normale nutrirsi di aspettative e lasciare che il suo fagotto floscio rimanesse chiuso accanto a una fiaschetta di vino che stava evolvendo in aceto. L’unica cosa che gli importava era che il lupo tornasse, che la sua mano fosse ferma e che il fucile avesse voglia di ripetere la stessa scena del giorno prima.
All’alba successiva il mantello grigio aveva attraversato lo specchio della sua visuale, sempre confuso con quel fogliame onnipresente e sempre contaminato con quelle striature nere che sapevano mimetizzarsi con il folto del bosco. Piero aveva sparato il suo colpo e un fungo in campo lungo si era disintegrato in un’esplosione di profumo. Disperato, con la testa fra le mani e gli occhi fissi su un tappeto di ricci, consapevole anche per quella volta che il lupo gli era scappato, non aveva nemmeno reagito quando quel naso umido aveva indugiato sul suo collo assieme al solletico dei baffi duri, con il fiato che si era insinuato fin sotto la giacca.
Dopo poco l’animale si era allontanato offrendogli la schiena.
Prima ancora di portarsi al sicuro, di finire fuori tiro, si era immerso nel crepuscolo fino a scomparire e il gelo della notte aveva nuovamente cominciato a dettare le sue condizioni.
La pioggia si era presa cura di ogni singola foglia, aveva nettato il legno, spolverato i frutti e messo in allarme le formiche. Nel sottobosco gli aghi di pino avevano galleggiato come velieri ed una teoria di minuscole montagne, valli e corsi d’acqua, ridisegnato la geografia del terreno Il giorno era salito con qualche minuto di ritardo, scrollandosi le nuvole di dosso e dimenticandosi un mare di panna sui tetti del villaggio ancora addormentato.
Dall’alto del ramo si vedeva la foresta invasa dalle lame di luce. Alcune erano penetrate fino alla base del tronco e sembrava volessero incendiare le foglie morte accumulate ai suoi piedi, altre si spegnevano nel fitto della vegetazione, altre gettavano isole luminose sulle cime lontane dei larici. Dal fondovalle la solita nebbia e in lontananza un torrente. L’acqua scrosciava imbizzarrendosi in una curva e poi si lanciava in una cascatella che risolveva in una confusione di spuma e vapore. Poco sotto, un vecchio ponte in legno si era digerito i chiodi che lo tenevano insieme e aveva la parte esposta ai getti ricoperta di muschio.
Il proiettile era partito quando il lupo aveva attraversato una radura chiazzata di sole e aveva fallito, tranciando l’erba nei pressi della sua coda. Il secondo colpo, che Piero questa volta era stato bravo a ricaricare, aveva provocato un impercettibile tremore fra i rovi di un cespuglio di more e si era fermato con una scintilla su un mucchio di sassi testimoni di un vecchio muro. Il lupo se ne era andato, con la coda vaporosa raccolta fra le zampe e l’incedere lento e costante di chi non ha paura.
Prima di penetrare la barriera di felci dinanzi a lui, si era girato e aveva visto Piero piangere.
I sentieri partivano netti, con dei sassi che sporgevano dalla terra e dei muretti incerti sui lati. Talvolta si addentravano nel profondo del bosco, talvolta lambivano i precipizi affacciati sulla valle. La nebbia, onnipresente, omogenea e compatta, sembrava un placido fiume incanalato fra le montagne. Piero quel giorno li aveva percorsi tutti senza mai stancarsi. Quando indugiavano e infine si perdevano ingoiati dall’erba, lui deviava e andava alla ricerca di nuove strade. Il fucile sulle spalle, avvolto in un panno verde come la stecca di un giocatore di biliardo, era carico, con il proiettile accomodato in canna in attesa di quel colpetto che l’avrebbe costretto a partire incontro al lupo.
Quel giorno non si era fatto vedere, protetto da un labirinto di frasche, tronchi e cespugli che un giocatore di Risiko cinico e attento sembrava avere posizionato con calma. Nelle ore calde la nebbia ai piedi della montagna si era sfilacciata, tradendo un tessuto di tetti e campi che si giocavano lo spazio concesso loro nelle anse del grande fiume.
Piero aveva accennato un primo appostamento sul bordo di un rigagnolo, un secondo nell’incavo di un tronco morto e un terzo dietro un masso erratico che si era prestato al bisogno. Alla fine la sera era scesa, preceduta da un venticello leggero e da uno stormo di uccelli che si era levato in volo come sospinto dal rumore di un ramo spezzato.
Aveva tenuto gli occhi spalancati nel buio.
Non avevano fatto male e nemmeno lacrimato, e le palpebre erano rimaste ferme come quelle di una statua di cera. La luna, vestita di un insolito azzurro, aveva riempito il cielo della sua presenza proiettando in terra le ombre abnormi delle chiome degli alberi. Gli animali della notte si erano dati da fare; occhi brillanti e curiosi, stomaci da riempire e ignare prede da cogliere di sorpresa.
Il lupo si era presentato all’improvviso, giocando di prestigio con gli occhi di un barbagianni famelico che avevano preceduto i suoi.
A quel punto la mano aveva carezzato la canna e il calcio del fucile, memore di mille speranze, paure e delusioni, si era appoggiato silenzioso sulla spalla.
Il centro del mirino collideva con lo spazio fra gli occhi ed il dito si era contratto sul grilletto.
Quando il colpo era partito, la suggestione di quell’immagine, due carboncini accesi e pieni di cattiveria, era stata l’ultima cosa rimasta di quel lupo perché lui, carne, ossa e pelo, si era allontanato ancor prima che il fucile fosse imbracciato.
Per il rumore dello sparo, il barbagianni aveva chiuso le palpebre. Una volta riaperte, si poteva leggere in quello sguardo un sincero e profondo sentimento di compassione.
Il vento ha i suoi schemi.
Si ripete secondo una cadenza precisa, matematica, che Piero aveva imparato a comprendere. Aveva imparato a scrutare le foglie nelle interminabili giornate alla caccia del lupo.
Quel pomeriggio, sotto un sole nevrastenico preso a ceffoni da mille nuvole veloci e insofferenti, avevano presentato la schiena o la fronte a intervalli regolari, nel rispetto di un algoritmo che la natura portava inciso nell’aria.
Alla dodicesima ripetizione del ciclo, aveva capito che quell’arbusto stava disobbedendo alle leggi dell’universo, e allora aveva fatto un bel respiro e preso la mira nel centro esatto della massa verde.
Le sue frustrazioni, le epoche di triste rassegnazione, i pianti e i rimorsi ingoiati insieme ad un bicchiere di spine, si erano dileguati con la forza disumana che aveva scaraventato la palla attraverso quei dieci metri di spazio. In quell’istante, nel tempo in cui i gas avevano sospinto il piombo sacrificato nella canna, nel momento in cui l’aria si era fatta da parte per lasciare passare un tizzone rovente, prepotente e pesante, l’universo intero era stato assoggettato alle sue regole e tutto era rientrato nei ranghi
Allo sparo era seguito un grido, straziante.
Era stato tanto forte da riecheggiare fra le pareti glabre e le cime ancora innevate. Si era fermato il tempo, la natura aveva taciuto ed il brontolio del torrente si era tramutato in un risucchio.
Di seguito un silenzio irreale, lungo abbastanza da fare rabbrividire.
Al primo lamento era seguito un fruscio di rami e qualche fiore che scuoteva i suoi petali in omaggio alla terra. Il fucile, ormai inutile, era andato a raffreddarsi ai suoi piedi e un po’ di humus era penetrato nella canna soffocando il fumo.
Piero, impettito, aveva atteso che il bosco finisse di suggere il sangue della sua vittima. Sapeva che sarebbe andato a prendere il corpo del lupo già freddo e, pervaso da un senso di calma che aveva affinità stretta col meritato riposo del guerriero, aveva goduto della fresca carezza dell’aria sulla schiena sudata.
Non aveva fretta perché aspettava da anni.
Ne erano passati a decine, si erano accavallati due secoli e il mondo si era trasformato in qualcosa di profondamente diverso. Da allora la sua misera sporta non era mai stata rabboccata e la borraccia era seccata dentro come in preda all’arsura di un deserto. Si era guardato le mani, le giovani mani di un giovane uomo, poco più di un ragazzo. Del suo volto non aveva che un ricordo, fotografato contratto in una smorfia di disperazione che il tempo non aveva saputo cancellare.
Quando il suo vecchio amico era sbucato dal cespuglio, aveva dei rametti impigliati nei folti capelli e la manica della camicia tenuta in ostaggio dai capricci di un rovo. Il volto sereno e le labbra sottili atteggiate in un timido sorriso davano la dimensione della sua bellezza. Le gote colorite parlavano di aria aperta, sole e scampagnate. Un fazzoletto sbucava dal taschino e nei piedi ancora quelle scarpe da cacciatore, quelle alte robuste e bene allacciate che lui stesso aveva tirato a lucido quella domenica mattina, ancor prima che fosse nato il sole.
Piero aveva fatto fatica ad accettare che un fantasma fosse uscito da un cespuglio con la stessa naturalezza di una lucertolina incoraggiata dal sole e sì, con difficoltà si era arreso all’evidenza, rassegnandosi a vedere il lupo vivo, seduto alla base di un albero, con le zampe anteriori perfettamente accoppiate e la coda sciolta intorno alla coscia.
Quando l’amico aveva parlato, mille ricordi si erano accesi in sequenza e avevano elaborato momenti indimenticabili, emozioni e odori della sua giovinezza. Anche l’amico, come lui, era rimasto giovane, sano, con la camicia che cadeva come su un manichino e i pantaloni che mostravano una riga sfacciata fatta col ferro da stiro lasciato riscaldare sulla stufa.
Anche l’amico, come lui, era morto.
Quando gli era venuto incontro allargando le braccia, Piero aveva scrutato il suo torace con insistenza. Niente di quella ferita esisteva più, e nemmeno la camicia, la stessa di quel giorno, presentava lo squarcio che aveva aperto la strada al sangue.
«Il lupo non ne ha colpa, Piero. Ha giocato con te tutti questi anni e ha avuto la pazienza di aspettare che fossi pronto.» Aveva detto l’amico, mentre Piero cercava di arginare un fiume di lacrime in pericolosa piena. Il tentativo di parlare era stato abortito, con le parole inceppate come un vecchio fucile pieno di ruggine. Le prime, faticose sillabe, non erano state che un’evoluzione del singhiozzo.
«Mi…mi…mi dispiace, io non volevo.»
«Lo so…»
«Io…ero sicuro. Io avevo sparato nel cespuglio per colpire il lupo e invece…» Lo aveva abbracciato. La consistenza del suo corpo, gli odori e la morbidezza dei panni era quella che si annidava nei ricordi più lontani. C’era tutta la giovinezza in quei ricordi, e la gioia che non riusciva mai a smettere. C’era il cuore gonfio di ebrezza per la guerra appena finita e la voglia di vivere di amore e di amori, uno dopo l’altro, vissuti nelle balere con i dischi che giravano sugli ultimi grammofoni, e quella fila di lampadine colorate, rade, fioche e appese al pergolato con le pinzette da bucato.
«E invece c’eri tu dietro quelle foglie. Mi dispiace, davvero. Non sai quanto mi dispiace!»
«Oh, lo so, invece, ma adesso è ora di dimenticare, di andare avanti.»
Il lupo, intanto, si era alzato e si stava strusciando contro le gambe dei due, di nuovo insieme dopo tutti quegli anni. L’amico aveva la fermezza di un vecchio saggio, anche se lo splendore della gioventù illuminava ancora il suo volto. La nebbia nel fondovalle, intanto, si era diradata e i prati brillavano di un verde irreale, appena disturbati dal nastro grigio della strada. Le case del villaggio si stagliavano nette sullo sfondo del cielo e dalle strade un vociare appena percettibile arrivava fin lassù.
«Quindi non ce l’hai con me, mi hai perdonato?»
«Non ho mai avuto rancore e te lo avrei detto subito, soltanto che, testone come sei, non me lo hai mai permesso!»
«Io avevo sparato al lupo. Si era nascosto nel cespuglio e io…Io avevo sparato al lupo…» Ripeteva come un disco rotto, alternando una parola con un singhiozzo. La voce tremula, intanto, sembrava estinguersi come la coda sfumata di una canzone.
«E invece avevamo sbagliato tutto. Noi, perché ci credevamo grandi e forti sparando agli animali, tu, Piero, perché hai pensato che il mondo fosse solo un banale processo di azioni e conseguenze. Invece il lupo non era nel cespuglio e io sono morto al posto suo. E’ lui, guardalo, ha vissuto la sua esistenza sapendo che un uomo era stato colpito al posto suo. In qualche modo ti è riconoscente…»
Era lì, ai loro piedi, con la bocca piegata in qualcosa che ricordava un sorriso e le orecchie diritte, come se capisse ogni singola parola. Improvvisamente aveva leccato a Piero il palmo della mano e lui gli aveva stretto il muso come se fosse il cane di casa in cerca di coccole ai piedi del camino. In quel momento un guaito leggero si era reso appena udibile.
«E lui, mi avrà perdonato?»
L’amico aveva riso. Con i pantaloni di fustagno che sembravano appena usciti dalla lavanderia e quella camicia che sapeva di bucato, sembrava reduce dalla messa della domenica mattina, sul sagrato della chiesa e col giornale appena comprato piegato sotto al braccio. Nei capelli c’era ancora la brillantina che luccicava. «Lo spero bene altrimenti, caro Piero, non sapremo proprio che strada seguire per tornare a casa, perché ti aspettano a casa, sai?»
«Da…davvero?»
«Certo! Sono tutti impazienti. Tua moglie poi…Sebbene il tempo lassù lo si percepisca profondamente diverso da quello nel mondo dei vivi, qualche volta è vero, ci annoiamo un po’ anche noi…»
Aveva tremato. «Ah, tuo figlio è in forma. E’ laggiù…» Il dito era andato a indicare il villaggio. «Si dice tutto il bene possibile di lui e fidati, ha ancora un gran daffare prima che lo chiamino. Quindi che dici, andiamo?»
Piero era rimasto perplesso. Il suo purgatorio, quel bosco immenso e ripetitivo che lui pensava di avere imparato a conoscere ma che invece ogni volta gli aveva riservato delle sorprese, stava per essere lasciato al suo lento e inesorabile ripetersi. Lo doveva abbandonare e lo doveva fare subito. Il lupo si era già incamminato e lo stava guardando impaziente qualche passo avanti.
«Io ti ho ucciso…»
«E io ti ho perdonato. Tutti ti hanno perdonato...»
«Davvero? Dici davvero?»
Quel sorriso era valso più di mille parole.
Un fruscio di foglie aveva sancito l’inizio del cammino.
Il lupo li aveva preceduti annusando le radici sporgenti, i sassi della mulattiera e ogni altro angolo del sentiero. C’erano dei rami di felce che sbucavano dai lati e qualche volta si era reso necessario scansarli. Dei conigli selvatici, accovacciati al riparo dietro i ciuffi d’erba, avevano assistito al loro passaggio, per nulla preoccupati di quel lupo ad un passo dai loro musi.
Erano saliti con un’andatura lenta ma costante verso la parte alta del bosco, quella che Piero non aveva mai avuto il coraggio di esplorare.
In poco erano spariti, accolti in un mare di verde. Piero, il suo amico e il lupo.
Il bosco respirava come un bambino assorto nei suoi sogni.
Prima di partire insieme, avevano seppellito il fucile sotto un metro di umida terra.
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