Non era nelle sue abitudini passare da quelle parti, semplicemente, quella sera, fu costretto a farlo per colpa di una fognatura tenuta male.
Era letteralmente scoppiata.
Il tubo, otturato dopo anni di incuria, era arrivato al punto di non ritorno in un pomeriggio d’estate, un po’ prima che cominciasse la finale degli europei di calcio.
A Fausto non importava un granché del fatto che la Francia e il Portogallo si incontrassero per contendersi il trofeo ma la partita in televisione presupponeva di scroccare una cena ad Aurelio e Luisa e non solo. C’era Graziella, la biondina, con il seno scultoreo e oca quanto bastava per farci un pensierino. Aveva addirittura creduto alla balla che lui si interessasse con buoni profitti di certi modernissimi sistemi di climatizzazione. Insomma, ce n’era quanto bastava per attraversare il centro storico nell’ora di punta e per convincerlo a sopportare i canonici novanta minuti, con il rischio concreto che si tramutassero in centoventi più i rigori.
La strada era invasa da una materia di un colore grigio-limaccioso tendente al marrone, punteggiato da una costellazione di carta a brandelli e preservativi usati, sparpagliati in giro come le barchette della Coppa America di vela. Una transenna a strisce diagonali di colori alterni invitava a girare intorno all’isolato, attraversare il fiume sul ponte di ferro e procedere per un chilometro fino al ponte successivo. La cosa era una solenne fregatura, visto che il vino, rubato il mattino sulla bancarella del mercato, era diventato ufficialmente suo dopo trecento metri di corsa e un minuto di paura, e adesso si stava indegnamente scaldando sotto il sedile del passeggero della sua Panda 30.
Le griglie suonarono rumorosamente sotto le ruote dell’auto e in breve si trovò nella parte della città destinata ai ricchi.
C’erano ville con giardino, palazzine con custode e tante berline scure parcheggiate nei vialetti. Alberi di faggio ben curati si alternavano a panchine in pietra e ferro battuto, mentre nella parte di strada rivolta al fiume dei minacciosi parchimetri esigevano lauti oboli per pochi minuti di sosta. I giardini pubblici, più grandi di quanto lui avrebbe concepito per una pista di decollo, pullulavano di podisti, amanti della tintarella con la faccia regalata all’ultimo sole del pomeriggio e bambini, chi intento a correre dietro un pallone, chi impegnato a fare volare un drone che sicuramente valeva più della sua auto.
Quella casa non l’aveva mai vista.
Doveva esistere da molti anni, sicuramente prima delle due guerre e forse ancor prima che i treni a vapore cominciassero a sbuffare per le strade ferrate di tutto il paese. Se lui non l’aveva mai vista, dipendeva forse dalle chiome degli alberi, che l’avevano tenuta nascosta per tutto quel tempo. Una recente potatura delle fronde, qualcosa che era avvenuta in seguito ad un misterioso parassita che aveva aggredito gli alberi in quella zona, aveva svelato l’esistenza di quell’edificio.
Dipinta di un color salmone ripassato di fresco, spiccava dietro una folta siepe per i due piani che si succedevano al primo. Aveva un lungo balcone, messo in sicurezza con una ringhiera in bacchette di metallo verniciate in color ghisa, che ne occupava la facciata per buona metà, e una serie di porte e finestre che vi si affacciavano, tutte chiuse dietro delle persiane di un grigio-verde di altri tempi. Tubi di discesa in rame ossidato si calavano lungo i tre spigoli che si intravedevano e sul tetto una vecchia antenna TV si elevava otre alla copertura della casa dietro, piuttosto lontana ma evidentemente dannosa per la buona ricezione. Sul lato rivolto a settentrione una lingua di edera veniva portata con classe, come una signora della società bene può sfoggiare uno scialle in morbida seta.
Sistemata com’era sulle pendici della collina, poteva essere raggiunta solo attraverso una strada stretta e impervia, abbastanza ripida da scoraggiare il passaggio di persone diverse dai pochi residenti e comoda per seminari degli sbirri che avessero voluto inseguire un ladro.
La collina, che rappresentava l’isola incontaminata e felice che buttava di tanto in tanto uno sguardo sdegnoso sulla cappa di smog a corredo della città, era raggiungibile solo attraverso strade perlopiù scomode, che si innestavano qualche volta sulle arterie trafficate mentre, in molti altri casi, finivano a fondo cieco da una parte e si generavano da una via poco più larga e altrettanto difficile da percorrere in auto. Era la stagione delle vacanze, e le persiane chiuse dimostravano che i padroni di casa erano andati a cercare ristoro altrove.
Un invito.
Rallentando appena, Fausto constatò che l’area doveva essere poco illuminata. Vedeva difatti un primo lampione qualche decina di metri a valle e poi un altro, sostenuto da un palo preso in ostaggio dai rampicanti che sbucava dietro il muro di cinta di un grosso podere.
Li avrebbe spenti.
A giudicare dal gusto retrò delle finiture, la casa doveva essere abitata da persone anziane, poco avvezze a installare antifurti e ancora attaccate a quei valori di onestà e rettitudine, quei valori che non esistevano più.
Sarebbe entrato.
Dietro quel muro in pietra, due metri e mezzo di altezza o forse più, c’era il paradiso dei ladri, una vacanza premio con volo low cost e rientro in business class. C’erano l’argenteria tenuta nei cassetti e soldi, tanti soldi, sistemati dentro qualche vaso o al massimo sul retro di una credenza.
Dietro a quel portone in pesante legno c’era lo stipendio di due anni, con la tredicesima, le ferie pagate e tutti gli straordinari.
Francia e Portogallo si sarebbero incontrate quella sera stessa.
Era ovvio che avrebbero vinto i padroni di casa, e altrettanto logico che lui, il giorno seguente, avrebbe messo a segno il furto migliore della sua carriera.
Fausto attese il crepuscolo ciondolando da un bar a quell’altro.
Era bene tenersi alla larga dal suo monolocale con bagno.
Per quanto fosse al piano seminterrato di un palazzo vergognosamente brutto, il padrone di casa si ricordava sempre di lui, dell’affitto che gli doveva e del rimborso spese condominiali. Una volta intascato il malloppo, nessuno più si faceva vedere da quelle parti per un mese. Quel giorno avrebbe dovuto pagare ma dal momento che l’ultimo borseggio aveva reso un paio di biglietti da venti e una serie di monetine insufficienti a pagarsi un aperitivo, si era reso irreperibile fin dal mattino.
Di tanto in tanto si girava verso la collina e constatava che quella casa era rimasta chiusa, disabitata.
I due soli lampioni che la circondavano erano danneggiati.
Al principio del pomeriggio, durante il suo giro di perlustrazione, era passato sotto le lampade e aveva piazzato un piombino nel bel centro, sparandolo con la sua silenziosissima pistola a gas compresso. Si era avvertito un rumore simile al sibilo di una biscia e poi qualche frammento di plastica era piovuto in terra. Quando si sarebbero accorti dei guasti, a sera inoltrata, avrebbero preso un appunto di telefonare il mattino dopo alla squadra manutenzione del municipio. Quello che importava era che la notte il buio fosse stato vero, intenso come una macchia di inchiostro e impenetrabile dagli occhi fallaci di un uomo.
Intanto si stava facendo buio.
La città chiudeva i battenti, gli ultimi ritardatari lasciavano l’ufficio e gli inguaribili bevitori andavano alla ricerca di qualche pub aperto. La caccia al parcheggio era cominciata e le famiglie stavano per riunirsi intorno al tavolo. Tutti i televisori si erano sintonizzati sui telegiornali: un unico concerto di notizie e di scoop vomitato tutto insieme dalle finestre spalancate. Al di là del fiume un odore di alghe si levava incontro al parco. Facendo attenzione, si poteva ascoltare lo scroscio dell’acqua anche stando lontani.
Sulla collina, complice la penombra prematura causata dagli alberi abbondanti, si erano accesi i lampioni della luce pubblica.
Due di loro erano rimasti spenti.
Atterrò nell’erba morbida.
Lo fece oltre al muro che aveva scavalcato agevolmente con la scala in corda. Se l’era era portata nello zaino assieme a una lampada frontale da corsa, un piccolo piede di porco e una minuscola torcia led a penna. Tutto il resto dello spazio, comprese le tasche laterali e quella sulla chiusura, era destinato alla refurtiva.
La fioca luce del led inquadrò un lampioncino da giardino spento, un marciapiede in cemento che aggirava tutto l’edificio e delle aiuole corredate da una collezione di statuette che riproducevano i personaggi di Tolkjen. Un hobbit dai piedi pelosi lo squadrava da dietro un ciuffo di margherite mentre la riproduzione di un elfo, in scala 1:25, sembrava volesse scoccare una freccia proprio nella sua direzione. La faccia cattiva lo rendeva credibile.
La città proiettava un alone di luminescenza all’orizzonte e le finestre della casa dirimpetto lasciavano passare una luce timida e lontana, che filtrava a malapena attraverso le fronde.
A parte il frinire dei grilli e la traccia omeopatica del rumore del traffico dalle strade, si era vicini al silenzio assoluto.
Era arrivato sul posto col favore del buio. Nessuno l’aveva notato, a parte un ciclista ritardatario che arrancava sulla salita per andare incontro alla sua cena. Era passato con la testa china sul manubrio e un fiatone che gli aveva di sicuro aspirato il sangue dal cervello. Fausto poteva giurare che non avesse nemmeno fatto caso a lui.
La linea di siepi che correva attraverso il giardino, dividendolo in due parti esatte, si prestava per coprire la sua avanzata. Ringraziò la buona sorte e dopo qualche passo si trovò davanti al portone di accesso, grande quanto bastava per farci entrare un’auto.
Era chiuso con un lucchetto, che aprì con una semplice forcina. Ci mise meno del tempo concesso al concorrente del Rischiatutto per rispondere a una mezza dozzina di domande difficilissime.
Una volta all’interno del garage, indossò la lampada frontale, non stupendosi affatto che nessun allarme fosse scattato.
Era un locale con il soffitto a volta costellato da efflorescenze di sale, le pareti in mattoni nudi e il pavimento rivestito con un gres piuttosto liso. Al centro dell’ambiente, accanto a una serie di scaffali coperti con teli scuri, una Lancia Flavia rossa come una ciliegia dimostrava la sua tesi: casa di anziani nostalgici, alle terme per curarsi i reumatismi oppure al mare a badare ad uno sciame di nipotini irriverenti.
Gli dispiacque davvero. Quell’auto, un modello del 1966 con 102 cavalli che giacevano addormentati sotto al cofano, era tenuta talmente bene che avrebbe fatto gola a molti collezionisti. Si chiese quanto gli avrebbero pagato la soffiata.
Aggirò l’ostacolo.
Un lampo, improvviso e inatteso lo accecò per un istante.
D’istinto fece un balzo all’indietro e andò a sbattere contro il telaio duro degli scaffali. La mano andò verso la cintura alla ricerca della pistola a gas compresso. La puntò di fronte a lui, senza un preciso bersaglio. Trovò riparo in una nicchia nel muro, assunse una posizione di profilo per non essere un facile da colpire e attese, con il cuore che rimbalzava fra la gola e il petto. Se fosse stato necessario sparare lo avrebbe fatto. Nessuno sarebbe morto a causa di quei piccoli piombini, ma l’effetto deterrente avrebbe funzionato abbastanza da coprirgli la fuga. La scala in corda era stata posizionata sul muro per ogni eventualità, e la sua Panda lo attendeva anonima in un parcheggio poco lontano, con una targa posticcia presa in prestito da una vecchia 127.
Quando si accorse che il lampo era stato solo un riflesso di luce sulle cromature della Flavia, si lasciò andare in una risata soffocata. Per quanto ci si abitui a fare il ladro, per quanto si affinino le tecniche e si acquisisca il sangue freddo, la possibilità che qualcosa possa andare storto rimane sempre innescata, come un residuato bellico sepolto sotto la sabbia.
Puntò il faretto in direzione dell’auto. Quella doppia terna di fari sul muso, insieme alla mascherina che sembrava un ghigno a bocca aperta, lo spaventò, richiamando alla memoria macchine infernali che se ne andavano in giro per Castle Rock a sterminare i nemici del suo proprietario.
Contò fino a dieci.
I secondi, per quanto strascicati verso la fine del conteggio, non furono sufficienti per riacquistare la calma smarrita.
Contò nuovamente fino a dieci.
Questa volta lo fece pensando alle tette sode dell’ochetta bionda che gli aveva tenuto compagnia durante la finale degli europei, mentre Aurelio e Luisa seguivano le scorribande in campo. C’era trippa per gatti quella sera, ma lui non era stato capace ad approfittarne. Nella sua testa si erano rincorsi mille pensieri collegati alle bollette da pagare, agli affitti da onorare e alle ville in collina da svaligiare. Da quando aveva notato quella casa, passando per il percorso obbligato dettato dalla deviazione, era stato come rapito dal pensiero di entrarci, di penetrarla. Chissà cosa aveva pensato la bionda dalle tette sode di quell’eccitazione che lui aveva messo in mostra. Era di natura sessuale, ma non nei suoi confronti. Era rivolta a un mucchio di mattoni e pietre.
Sul muro verso l’interno si apriva una porta. La inquadrò con il fascio di luce e vide che era appena appoggiata. Doveva portare verso le scale.
Spinse.
Le cerniere erano state lubrificate di recente e il battente scivolò fino a fermarsi contro il muro di fianco. Una scalinata con i gradini in pietra partiva una decina di metri oltre e poi svoltava perdendosi in uno stretto cunicolo. Prima di affrontare il corridoio si guardò ancora alle spalle: l’auto era immobile. La scrutò indugiando sui particolari: le gomme come nuove, il paraurti lucidato con cura e nemmeno un granello di polvere sulla carrozzeria. Il parabrezza riluceva di una sfumatura di azzurro. Non sapeva come ma, nel momento in cui aveva girato la schiena, aveva avvertito la sensazione di essere osservato.
Si sentì un idiota.
L’ultimo furto in appartamento gli aveva reso un computer nuovo di fabbrica, il numero 666 della produzione limitata della Gibson Les Paul 295 Florentine W/Bigsby e cinque bei centoni, che quel pirla del proprietario aveva lasciato in vista nel centro di un piattino in soggiorno. Tutto il lavoro era durato meno di cinque minuti, era avvenuto in piena notte e lui non aveva provato nessuna inquietudine.
E invece adesso la stava provando.
Dopo i primi due metri di corridoio incontrò una porta sulla sinistra.
La breve ispezione portò alla luce uno scaffale di ricchi vini. Erano tutti champagne costosissimi: Louis Roederer Cristal, Broël & Kroff, Bollinger Vielle Vignes e Krug Clos d’Ambonnay. Quest’ultima bottiglia, valutò, se la sua memoria non l’ingannava, poteva costare anche 3000 euro.
Avrebbe sopportato il dolce peso nel suo zaino ooooh sì! Avrebbe fatto anche due giri, se necessario.
La seconda cantina era popolata di attrezzi per il giardinaggio, compresi un decespugliatore a zaino ed una falciatrice a scoppio, con una bella testata da 10 cavalli appena camuffata dietro una mascherina nera corredata dello stemma con un toro chinato alla carica. Le lame erano ancora macchiate di clorofilla e terra. Quell’odore di miscela e grasso, che arrivava al naso forte come una cannonata, gli ricordò suo padre, che invano tentava di farlo appassionare al lavoro. A lui di lavorare, sudare e sporcarsi le mani di terra non interessava. Il suo vecchio avrebbe potuto raccontargli tutte le favole del mondo sulla dignità, l’onestà e la rettitudine, ma a lui interessava di mettersi all’opera una volta ogni qualche mese, aprendo la villa giusta, il negozio perfetto o il portafoglio con dentro qualche ricca pensione.
La villa giusta era lì, sotto i suoi piedi, sulla sua testa e tutto intorno a lui. Muri, cemento, legno, laterizio e metallo. Acqua che scorreva come sangue nei tubi ed energia fluente attraverso i cavi elettrici. Bulloni, tiranti e terra schiacciata sotto il peso degli anni. Se il buongiorno si vedeva dal mattino, lui aveva visto sorgere il sole su una collezione di vini che, da sola, valeva un anno del lavoro di un operaio.
Sopra, in casa, non ci era ancora entrato.
Avrebbe trovato ogni ben di dio, soldi, gioielli e pezzi d’arte quotati. Magari fra le mura di quell’appartamento era conservata una raccolta di francobolli o qualche libro rarissimo e prezioso, tenuto su di uno scaffale senza particolari precauzioni.
La terza porta racchiudeva una grossa caldaia, sorniona sotto il suo scafandro da palombaro. Come l’auto era vecchia, anzi, vintage, ma la sensazione di potenza che trasmetteva era impagabile. Probabilmente consumava più gasolio di una portacontainer ma, evidentemente, ai padroni di casa ricchi e facoltosi non importava nulla. Come per tutte le cose presenti in quel posto doveva esserci un affetto particolare, un attaccamento all’oggetto, alla sua storia. Aveva il bruciatore installato alla sua base come il motore di un missile. Avrebbe scatenato l’inferno l’autunno prossimo venturo. Ne era sicuro.
Passò oltre e, dopo avere ispezionato la salita delle scale, mise il piede sul primo gradino.
Aveva notato il baluginare della TV accesa, e la cosa non l’aveva fatto desistere dal salire le scale e dall’entrare.
Uno dei tanti accorgimenti banali e totalmente inutili per scoraggiare i ladri, era proprio quello di lasciare accesi una luce o il televisore. Nel caso suo la cosa lo aveva rassicurato e gli aveva dato la conferma che i proprietari erano davvero lontani da casa.
Un vecchio film in bianco e nero proiettava la sua luminosità essenziale sul tappeto persiano, srotolato davanti a una coppia di poltrone coperte con delle lenzuola. In quel momento Spencer Tracy, vecchio pescatore disperato, stava lottando contro il mare e contro lo squalo che gli stava addentando la preda, un poco alla volta:
“se ci fosse il ragazzo bagnerebbe le duglie. Sì, se ci fosse il ragazzo, se ci fosse il ragazzo…”
La lampada frontale ruppe la penombra elettrica dello schermo e fece un giro d’orizzonte come un faro. Quello che vide gli piacque.
Intanto sulla parete di fronte erano apparsi dei quadri interessanti, qualcosa che aveva a che fare con i paesaggi di Lo Iacono, almeno per quanto si era capito dall’areola sfuggente di luce che li aveva sommariamente esaminati. Uno scaffale incastrato fra una finestra e l’altra ospitava una collezione di coppe e medaglie, molte delle quali avevano l’aria di essere in oro massiccio. C’era anche un gatto in ebano nero, scolpito e lavorato interamente a mano. I padroni di casa gli avevano riservato un intero scomparto. La porta, che interrompeva la parete al fondo, si apriva su una camera da letto che dava l’impressione di essere depositaria di tanti segreti. Dalla parte opposta si accedeva a un disimpegno, con libreria, mobile del telefono ed un portaritratti in argento che non faceva nulla per rimanere nascosto. La natura morta da due soldi che si intravedeva sul fondo aveva tanto l’aria di celare una cassaforte a muro, di quelle che si scardinano col piede di porco e si portano a casa sotto il braccio.
Fausto si strofinò le mani e decise che, per prima cosa, avrebbe acceso le luci.
Era del tutto inutile aggirarsi in quella casa col rischio di inciamparsi in qualche tappeto, quando le finestre erano tutte chiuse con le pesanti persiane e i vecchi lampadari, con lampadine a tortiglione tutte impolverate, potevano solo proiettare una luce debole appena sufficiente per muoversi.
Mise la mano sull’interruttore e accese.
Apparve una corona di capelli grigi, circondava una grossa testa calva appoggiata sullo schienale della poltrona più lontana. Sul cranio, la pelle si era corrugata in tante piccole onde. Doveva essere lì da tempo, perché sul lenzuolo che rivestiva il giaciglio si era formato un alone giallognolo.
Fausto, come poco prima in garage, indietreggiò di colpo e andò a sbattere contro la piattaia alle sue spalle. Un servizio decorato con motivi floreali diede origine a un concerto e lui si portò istintivamente le mani alle orecchie. Come un uccello finito per sbaglio dentro una stanza, tentò, agitandosi, di ricostruire la geografia del luogo e di trovare la via di fuga. Quando ci riuscì una porta chiusa gli impedì di continuare. Si ritrovò con i palmi della mani premuti contro il legno e l'affanno che prosciugava energie alla ragione.
Ancora una volta impugnò la pistola a gas compresso.
Ancora una volta il suo muscolo cardiaco si contrasse paurosamente.
Se fosse scoppiato non si sarebbe stupito. In quel momento la cosa che lo infastidiva di più, non era tanto l’ipotesi piuttosto concreta di finire in galera, quanto la figura di merda che avrebbe fatto nel raccontare le circostanze del suo arresto.
Al sommo della beffa, il faccione di Mr. Wolf si materializzò sullo schermo, a colori questa volta:
“Be', non è ancora il momento di farci i pompini a vicenda!”
Guardò indietro e spinse con tutta la forza. La porta scricchiolò appena e i piedi scivolarono sul parquet.
Era in trappola.
Decise che avrebbe spaventato il padrone di casa puntandogli addosso la sua pseudo pistola.
Ci sarebbe cascato con tutte le scarpe.
Gli avrebbe urlato in faccia, sputando in tutte le direzioni e lasciando che la pelle si tingesse di un rosso tendente al viola, anzi no, avrebbe indossato la calza che prudentemente si era infilata in tasca, gli avrebbe vomitato addosso minacce assortite e si sarebbe calato dal balcone, mentre il vecchio si preoccupava di pulire la merda dai suoi pantaloni. Sarebbe andato via da quel posto così velocemente, che i testimoni, se mai ci fossero stati, avrebbero raccontato di una lepre libera nei prati.
Guardandosi nuovamente indietro si mise il collant addosso, srotolandolo sulla sua testa come un preservativo. Di colpo la luce giallognola della camera assunse una tonalità sul marrone.
Osservò la testa appoggiata allo schienale.
Era ancora al suo posto. Gli ricordava il suo vecchio, a casa, quando era ancora vivo.
Ogni sera di tutti i giorni crollava in trance sul divano davanti al televisore acceso. Lo faceva se aveva lavorato, se era stato in ferie o se aveva marcato visita. Lo faceva alle feste comandate e tutte le sacrosante domeniche dopo la partita ascoltata alla radio, dopo una passeggiata in centro o con addosso la tuta dell’officina. Il suo vecchio era stato distrutto da una vita che aveva accettato con troppa rassegnazione.
Forse il padrone si era addormentato anche lui davanti al televisore, e non l’avrebbe nemmeno notato. La porta che gli aveva sbarrato la fuga doveva essersi chiusa per una corrente d’aria o qualcosa di simile. La giustificazione non gli piacque, ma doveva pure darsene una.
Impugnò l’arma rivolgendo la canna verso il basso. L’accorgimento doveva servire a confondere le idee, a lasciare intendere che la bocca da fuoco avesse un diametro credibile per qualcosa che poteva uccidere, non per un giocattolo come il suo.
La TV ritornò in bianco e nero.
Era evidente che l’uomo fosse sveglio e che esercitasse il suo sacrosanto diritto allo zapping. Come non si fosse accorto del baccano fatto dai piatti rimaneva un mistero.
Fonzie, Arthur Fonzarelli, stava ammonendo un ladro sorpreso in casa Cunningham, un vile topo d’appartamento come lui:
“se fai il colpo con l’arnese, ti becchi un anno invece di un mese!”
Non era possibile.
Fausto si convinse che stava delirando, che la paura gli stava giocando brutti scherzi. Era solo suggestione la sua, frutto di un momento di sconforto e della somma di qualche fattore sconosciuto, una specie di tarlo che aveva saputo scavare nel suo inconscio. Contraddicendo la spiegazione che si era appena dato, si convinse invece che aveva visto bene, che la casa era abitata e che aveva preso un abbaglio clamoroso. Pensò che forse avrebbe dovuto studiare il colpo con più cura, aggiungere un sopraluogo il giorno successivo, valutare ogni possibile eventualità. Si pentì di non avere fatto la classica prova della telefonata, di non avere tentato di colpire le finestre con una pietra per vedere se qualcuno fosse accorso a verificare chi fosse stato.
Come se quel metodo avesse valenza scientifica, riprese a contare fino a dieci.
Dall’uno al sette i numeri furono trangugiati come pastiglie indigeste, le ultime cifre della conta, al contrario, vennero fuori orgogliose e ben scandite:
sette, otto, nove…dieci.
Al dieci fece un balzo nella stanza.
La testa dell’uomo sporgeva ancora dalla sommità dello schienale.
Crollò letteralmente sulla poltrona rimasta libera e dal lenzuolo si sollevò una nuvola di polvere e acari. Sentì le molle del cuscino cigolare e i piedi affondare nel pelo alto del tappeto.
Non poteva fare nulla, urlare, fuggire o sparare. L’ultima delle opzioni era la meno praticabile, perché l’uomo che aveva di fronte era già morto.
Fausto si abituò velocemente a quell’immagine, solo l’ultima del teatrino degli orrori a cui aveva assistito.
L’uomo calvo respirava con affanno. Sollevava il torace ritmicamente, su e giù, e facendolo gli usciva del sangue da un buco nel centro del petto. I fiotti scavalcavano la mano che si teneva sull’addome e andavano a formare un laghetto melmoso nell’incavo fra le gambe unite. Quando ebbe il coraggio di guardarlo negli occhi, di sollevare gli occhi incontro a quelle orbite incavate, riconobbe il medesimo sguardo di odio e disperazione che aveva ricevuto cinque anni prima, quando quell’uomo era morto sotto i suoi occhi con un colpo di pistola sparato al cuore. Avvinghiando i braccioli, Fausto tentò di dire qualcosa in sua difesa.
"Non sono stato io a sparare, dovrebbe saperlo…"
L’uomo si spostò leggermente, facendo leva con un braccio per sollevarsi. La pozza di sangue si perse nel crepaccio che si era formato fra le cosce. Gli schizzi dal petto, intanto, continuavano a uscire come da un tubo rotto. "Io ho visto solo un lampo e poi ho sentito un dolore forte, qui." Il dito si infilò nel buco interrompendo l’emorragia. "Chissenefrega chi ha sparato! Tu e la tua brutta faccia eravate lì, davanti a me. Tu hai raccolto la valigetta che ho tentato di difendere, tu me l’hai strappata dalle mani, tu sei scappato facendo in modo che il tuo culo piatto fosse l’ultima cosa che ho visto prima di morire…"
"E’ stato Rocco a sparare!" E nominando Rocco gli tornò alla mente quella siringa insanguinata infilata al centro di un livido sul braccio. Era stata la sua sentenza di morte, una sentenza tagliata con della robaccia esagerata per le sue vene già piene di droga. Con i soldi sottratti alla valigetta era corso alla ricerca del suo pusher e, per sua disgrazia, l’aveva trovato quella sera stessa.
Non si era nemmeno capacitato di avere ucciso un uomo. Era accaduto tutto così in fretta che i soldi rubati erano stati spesi ancor prima che il cadavere di quel poveretto potesse raffreddarsi.
Fausto chiuse gli occhi stringendo forte.
Sapeva che non sarebbe servito a fare finire l’incubo che stava vivendo. Aveva provato a urlare, ad agitarsi come un tarantolato, ad infliggersi sofferenza. Nulla, non era servito a nulla. L’uomo alla poltrona era sempre lì, al suo posto, e lui non aveva potuto fare altro che sedersi di fronte.
"Le chiedo scusa. Quella rapina non doveva finire così. Rocco era nervoso, agitato. Stava sudando, soffriva come un cane e non poteva più aspettare. La crisi di astinenza, capisce, la crisi lo stava distruggendo. Capisce cosa significa un crisi di astinenza dall’eroina?"
L’uomo scosse la testa.
"È una cosa terribile, si smette di ragionare, si provano dolori così forti che si vorrebbe morire…"
"E infatti sono morto io…"»
Fausto tacque. Quella rapina di cinque anni prima, quando Rocco aveva premuto il grilletto con la facilità che si usa nei videogiochi, era stata archiviata senza colpevoli, o almeno senza che nessun uomo in vita potesse pagare per il suo crimine. I carabinieri avevano trovato sul posto tante di quelle tracce che riconducevano a Rocco, che nemmeno si erano preoccupati di cercare le sue, che pure abbondavano sul luogo del delitto. Avevano trovato il colpevole già morto con la valigetta rubata abbandonata al suo fianco. Avevano accontentato la stampa, i parenti e risparmiato i soldi del processo, tutto in un sol colpo.
Tossendo, l'uomo sulla poltrona sputacchiò sul tappeto una miscela di sangue e bava. Quando lo fece, il getto ematico arrivò dal cuore fin quasi alle scarpe di Fausto, che istintivamente si ritrasse. Mantenendo un minimo di lucidità vide che sul mobile del televisore era appoggiato un orologio d’oro. Solo che il padrone di casa non se ne voleva andare, non voleva scomparire dal suo incubo. Di tanto in tanto cercava di sollevare il corpo ferito spingendo sui braccioli ma otteneva solo uno scricchiolio della poltrona che sembrava deformarsi sotto il peso.
Il freddo che Fausto avvertiva alle gambe, assieme a un sapore di denti marci in bocca, rendeva tutto assolutamente vero. Ascoltò il cuore che batteva nelle orecchie e un tremore nella schiena che sembrava la scossa di una sedia elettrica.
L’uomo morto stava rimescolando la saliva in bocca. Lucio si accorse troppo tardi che stava per sputargli e non fece in tempo a scansarsi.
Gridò. "Io non potevo impedire a Rocco di sparare, io non potevo leggergli nel pensiero, io…"
In televisione c’era Tony Montana. Sullo sfondo di un tramonto infuocato incollato alla parete come tappezzeria, aveva appena piazzato un proiettile nello stomaco di Mel Bernstein, uno sbirro corrotto:
"Figlio di puttana…"
"Addio Mel, fa buon viaggio!"
PUM!
Era accaduto così cinque anni prima:
PUM! E l’uomo con la borsa piena di contante era rovinato in terra, con la bocca spalancata in un grido rimasto incastrati in gola. A Fausto tornò in mente quel rumore di ossa rotte nel momento in cui andò a sbattere le vertebre sul bordo del marciapiede.
Non stava facendo zapping. Il televisore si divertiva a proporre la sua personalissima interpretazione del momento. Improvvisamente, il canale virò sulla cronaca di un intervento chirurgico a cuore aperto, dove decine di tubi e pinze di metallo si infilavano dentro un petto sanguinolento, e la cosa fece contrarre lo stomaco di Fausto in uno sforzo di vomito.
La porta del pronto soccorso di ER si spalancò per fare passare la barella. Intorno a un corpo senza segni di vita si avvicendavano due infermieri, uno dei quali teneva sollevata la flebo con la mano destra. Il Dottor Carter accorse posando sul bancone della reception la cartella clinica che aveva in mano.
"Cosa abbiamo?"
"Colpo d’arma da fuoco con emotorace e interessamento della T4"
Lucio si lasciò andare a un tic nervoso. Stava impazzendo.
Tentò di fuggire, di sottrarsi a quel supplizio mentre l’uomo morto si prendeva gioco di lui ridendogli in faccia. Dopo poco le risa cominciarono a risuonare nella stanza e a fare tremare la cristalleria di Boemia ricoverata dentro una vetrina chiusa a chiave.
Si portò le mani alle orecchie per non sentire e di scatto si alzò. Sembrava il pilota di un aereo da guerra in difficoltà che si era fatto eiettare con tutto il seggiolino. Corse incontro alla porta che poco prima gli aveva impedito di passare e la sfondò con una spallata. Percorse il corridoio che andava incontro alle scale con la velocità di un treno. Passava a fianco delle porte e le sentiva aprirsi. Dalle camere uscivano tutti gli scheletri che in vita sua aveva chiuso negli gli armadi.
La signora degli alimentari in quel piccolo paese, che lui aveva rapinato facendole assaggiare la lama affilata del suo coltello, sbucò dalla camera padronale. Era così anziana che sarebbe morta di vecchiaia, lei e quel suo ridicolo grembiule blu che la faceva sembrare alla commessa di una ferramenta. Sarebbe morta nel suo letto, annoiando figli e nipoti con le storie della sua vita, si era detto dieci anni prima. Invece la signora, cinquant’anni passati dietro a quel bancone, i primi dei quali a compilare le somme della spesa sul retro della carta del pane, era andata a casa con il magone nel collo, un’umiliazione così grande che non aveva avuto il coraggio di raccontarla al figlio ed un dolore al petto che si era fatto vivo come se un cane le avesse addentato il cuore.
Era morta quella notte stessa, per il dispiacere.
Dal bagno sbucarono una coppia di donne scippate.
La prima aveva sentito il suo femore sbriciolarsi quando era caduta in strada proprio davanti alla frenata di un automobilista, la seconda aveva rincorso la sua pensione per dieci metri credendo di averne percorsi mille. Erano morte tutte due, una dopo un penoso e mai soddisfacente recupero dall’operazione di ricostruzione articolare, l’altra di polmonite, perché, assieme a quella pensione, se ne erano andati via anche i soldi per il riscaldamento.
Correvano come gazzelle, dopo morte.
Fausto le sentì arrivare alle spalle assieme a un vento caldo che gli infuocava la schiena. Grida, insulti e passi concitati che rimbombavano nel corridoio. Una mandria di cavalli imbizzarriti. Se non avesse avuto il coraggio di girarsi per vedere quei fantasmi, avrebbe pensato ad una mandria di cavalli spaventata da un’esplosione, pronta a travolgere tutto e tutti.
Impugnò la sua stupida pistola a gas compresso e rise.
Nessuna arma aveva mai fermato gli incubi, i fantasmi e tutte le maledette manifestazioni dell’oltretomba. Aveva letto abbastanza fumetti di Dylan Dog per farsi un’idea su certi argomenti, ma lui la impugnò lo stesso, sotto una stretta forte e sudata. Non si sarebbe affatto stupito se per sbaglio gli fosse partito un colpo, dritto nei testicoli.
Inciampò in un vaso. La pianta grassa cadde e gli inflisse un supplizio di spine nello stinco. Bestemmiò, senza pentirsi affatto di farsi sentire da gente che poteva pure avere un rapporto diretto con i padreterno.
"Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l'uomo con la pistola è un uomo morto"
Il televisore aveva il volume così alto che si sentiva in tutte le stanze.
Dolorante, Fausto si rivolse in direzione del soggiorno e vide il corridoio sgombro. Pensò che le vecchie rancorose non si erano nemmeno prese il disturbo di seguirlo fino a lì. Stringendo i denti, sfilò la prima delle venti spine che avevano ridotto la sua carne a un puntaspilli e una macchia di sangue prese ad allargarsi velocemente sui pantaloni.
Il televisore sembrava essersi spento. Nessun rumore, nessuna eco dalla stanza che aveva abbandonato sfondando la porta. La seconda spina venne via con un lamento. Si lasciò andare sulla moquette del pavimento ed ebbe una vista inedita del soffitto a cassettoni di legno.
Sdraiato, con gli occhi che bruciavano, pianse.
Valutò tutti gli sbagli della sua esistenza, l’arroganza, la totale ostilità ai consigli di suo padre, un brav’uomo, un uomo tutto d’un pezzo. Pregò come sapeva per quelle persone che avevano sofferto ed erano morte a causa sua.
Le rivide in vita, in quei momenti in cui la paura aveva cancellato la loro dignità, in cui la disperazione aveva mosso i loro ultimi passi, in cui un proiettile aveva aperto il cuore. Ne avvertì l’odore, le implorazioni, l'umiliazione che aveva penetrato le loro anime indifese. Le vibrazioni della preghiera lo tranquillizzarono, dapprima, poi diffusero in lui un sentore di stanchezza e sonno. Scivolò nell’incoscienza in compagnia dell’immagine di un uomo alto, magro e armato con un grosso fucile. L’aveva materializzata nei suoi pensieri talmente bene, che pensava si fosse fissata sulla sua retina.
"Quando un uomo con la pistola incontra un uomo col fucile, l'uomo con la pistola è un uomo morto."
Non era la TV, era un fantasma armato di tutto punto, e aveva un fucile.
Solo che lui non poteva contare su una pistola ma su un patetico simulacro a scoregge.
Imbracciava quell’arma con una mano sola, rinverdendo mille cliché di impietosi bounty killer dei film western, spietati banditi e infallibili cacciatori di bufali.
Lo spettro si era messo in bocca quella frase di Clint Eastwood, una di quelle che chiunque ricorda a memoria, un po’ come quella cazzata di Forrest Gump e la scatola di cioccolatini. La carabina Winchester 1873 che stringeva sotto l’ascella aveva tutta l’aria di essere stata appena lubrificata e lui era in terra sdraiato, più o meno con la dignità di un verme.
Non lo riconobbe subito.
Quando vide quella macchia blu che le cingeva il collo, capì. Si diede anche una spiegazione del perché quell’uomo sorreggeva la testa con la mano libera. Lo faceva perché aveva il collo rotto, perché, otto anni prima, si era impiccato dopo che lui, ladro da quattro soldi, gli aveva portato via l’auto nuova da sotto il naso.
Le era costata tutti i risparmi quella Golf, le ire funeste della moglie e i musi lunghi dei tre figli, rimasti senza i soldi per andare in vacanza.
Aveva riso a vedere quell’uomo patetico, con al collo una cravatta chiassosa e che si abbinava alla sua giacca come uno sputo giallo sul marciapiede. Lo inquadrava nel retrovisore, sempre più lontano, sempre più piccolo, con quella cravatta che ballonzolava a destra e a sinistra.
FLAP
FLAP
Aveva riso a vederlo disperato rinunciare all’inseguimento, chino sulle ginocchia con gli sforzi di vomito che, fra la curiosità dei passanti, non riusciva più a trattenere. Due giorni dopo, il suo suicidio era stato riportato in un trafiletto sulla cronaca locale:
Quarantanovenne, impiegato statale, si è tolto la vita impiccandosi con la sua cravatta a una trave del garage, una dependance della sua piccola casa alla periferia sud. Lo hanno trovato i figli alle prime luci del mattino. Erano andati a cercarlo all’autorimessa quando si erano accorti che non aveva preso con sé il borsello in finta pelle che non mancava mai di portare in ufficio. L’ipotesi è quella che l’uomo fosse caduto in depressione a causa del furto della sua auto nuova.
I carabinieri hanno aperto un indagine e il pubblico ministero ha disposto l’autopsia.
L’articolo di giornale non faceva cenno a quel fucile da caccia, che sicuramente si annoverava fra i ricordi del morto. Magari era stato l’ultimo oggetto visto prima di morire, quando si apprestava ad assicurare la cravatta alla putrella in acciaio che attraversava il locale da una parte a quell’altra. Forse aveva pensato di farla finita proprio con lui ma magari, all’idea di lasciare ai parenti un disastro di sangue e cervello da pulire, aveva optato per quell’orribile cravatta.
Provò a dire qualcosa ma dovette desistere. Distratto, lasciò la mano che sorreggeva la testa e questa si piegò di lato andando ad appoggiarsi sulla spalla. Il collo, gonfio e violaceo, si era talmente allungato che l’orecchio aveva superato il deltoide. Lucio vide il braccio con la carabina andare alla ricerca dei capelli e tirare per raddrizzare la testa. Quando il morto ci riuscì rimase in quella posizione, con la canna che gli faceva da cappello.
"Dai, adesso scappa…"
Fausto non capì subito, scosse la testa guardando dal basso in alto.
"Adesso scappa, seminami, come hai fatto quella volta che mi hai rubato la macchina. Dai, cosa stai aspettando? Sgomma!"
Mancavano sì e no cinque metri al termine del corridoio, poi la porta e oltre le scale che scendevano al piano di sotto. Come si erano dematerializzate le due vecchiette che avevano organizzato una valanga nel corridoio e l’uomo con il buco nel petto seduto in poltrona, anche il soggetto col fucile, il nostalgico del vecchio west, si sarebbe volatilizzato. A quel punto sarebbe stato tutto finito, avrebbe preso le sue cose per cambiare aria. Al diavolo il furto in villa, l’argenteria e i quadri d’autore. Non avrebbe mai più fatto il ladro, né lo scippo né il rapinatore.
Si alzò in piedi e l’uomo caricò il Winchester. Facendolo dovette usare le due mani e il collo rotto, rimasto senza sostegno, crollò sul petto andando a baciare lo sterno.
Confusione, disordine.
L’apparizione si agitò cominciando a roteare su se stessa, battendo con la canna del fucile contro le pareti. Al primo girò fece cadere un dipinto, al secondo agganciò il tiretto della tenda che pendeva dal soffitto, al terzo si mise a sparare all’impazzata. Si disintegrò un settore del cassettone sul soffitto, la porta a vetri dello studio esplose con un fragore e un proiettile infilò il dorso di un libro con un tonfo sordo, trasformando Le Affinità Elettive nelle Affinità El ive. Un proiettile, vero, tangibile e mortale, sfiorò l’orecchio di Fausto e andò a conficcarsi nel muro rivestito con un’anacronistica tappezzeria in velluto.
Corse giù per le scale e lo spettro tentò di seguirlo. Sembrava un tacchino al mercato rionale, appeso al banco per le zampe e con la testa che sbatacchiava da una parte e da quell’altra. Colpì lo stipite e si dissolse con una specie di grugnito.
Di lui rimase solo il fumo acre degli spari e un acufene violento come la sirena di una nave.
Il soldato Hudson, appena sbarcato su LW 426, pronunciò piagnucolando la sua battuta. Benché il televisore fosse ormai lontano si distinsero perfettamente le sue parole
"Siete sull’ascensore per l’inferno…in discesa!"
La scala scendeva attraversando il ventre della casa con una spirale.
Dopo un primo rampante seguivano dei gradini messi a fazzoletto, che facevano la curva senza il pianerottolo. Al fondo dell’ultimo tratto cominciava il corridoio che conduceva al garage.
Fausto non si rese nemmeno conto di essere sudato, in preda a contrazioni nervose dello stomaco e lievemente ferito dal proiettile di fucile che gli aveva sfiorato il lobo dell’orecchio. Interruppe il riposo che si era concesso sui gradini e andò incontro a una luminosità incerta, che proiettava delle lame arancioni sul pavimento.
La caldaia, il residuato del dopoguerra che aveva notato salendo, si era accesa da sola.
Dalla finestrella che si affacciava al fornello, rumoreggiavano delle fiamme , insieme al motore del bruciatore che girava come un diesel svalvolato. Un odore di ghisa calda si stava arrampicando fin sopra. Si fermò davanti alla porta, ipnotizzato dal fuoco che scaturiva al di fuori degli ugelli. Non si sarebbe stupito se avesse visto un caldaista tutto muscoli che, annerito dalla fuliggine, riversava generose palate di carbone attraverso la caditoia. Gli sarebbe sembrato normale anche vedere un becchino spingere delle bare spartane nel cuore delle fiamme. Con un po’ di pazienza avrebbe sopportato anche una lingua di fuoco che usciva dallo sportello e lo inseguiva per tutto il piano terreno.
Non accadde niente di tutto questo.
Passò indisturbato e vide il meccanismo operoso lavorare sotto una consolle di spie colorate che si accendevano e spegnevano. Il groviglio di contatori, pompe, e tubature arrugginite e sudate che si contorcevano sopra e tutto intorno, gli sembrò qualcosa di simile all’intestino di un mostro preistorico.
Si lasciò tutto alle spalle.
La cantina con gli attrezzi per il giardinaggio era silenziosa e buia. Le vanghe, le zappe e soprattutto la falciatrice, giacevano freddi insieme a una raccolta di concimi e diserbanti ordinata su degli assi fissati alla parete. In terra la gomma per bagnare era arrotolata su se stessa per mezzo metro d’altezza e stivali e scarponi si presentavano come una formazione di bravi soldati, senza che nemmeno un po’ di fango indurito si fosse staccato dalle suole.
Era finita.
Gli incubi lo avevano abbandonato e insieme a loro se ne erano andati i sensi di colpa.
Sarebbe uscito da quella casa senza nulla che non fosse suo e da quel momento, avrebbe cominciato a comportarsi da persona per bene.
Vide la Lancia rossa dormire nel ventre confortevole dell’autorimessa e la porta, che lui stesso aveva forzato per entrare, ancora socchiusa. Ad aspettarlo fuori c’era la scala in corda per scavalcare il muro in pietra e un po’ più giù la sua vecchia auto resa anonima da una targa falsa.
Strisciando i piedi in terra passò davanti alla cantina.
Non poté farne a meno, dovette entrare.
Accese la luce e si riempì gli occhi di quella meraviglia.
Erano allineate come colpi di cannone pronti a essere sparati.
Quelle bottiglie di champagne, che già lo avevano deliziato all’andata, sembrava che lo aspettassero. Louis Roederer Cristal, Broël & Kroff, Bollinger Vielle Vignes e Krug Clos d’Ambonnay, roba da convertire all’alcolismo il più integerrimo degli astemi.
Il Kroff, Bollinger Vielle Vignes, elegante come una signora in nero, sembrava lo stesse invitando ad avvicinarsi, ad aprirlo. La bottiglia, stesa sul mobile con il collo posizionato nell’incavo in legno, brillava delle finiture dorate della sua etichetta e provocava. Sinuosa e appena perlata con qualche goccia di umidità, sembrava una donna di gran classe in abiti succinti, capelli corvini e lisci, un costosissimo collier e tanta, tanta energia da fare esplodere.
Esplose.
Il tappo di sughero volò con forza sufficiente a farsi sentire netto e chiaro nei suoi testicoli. Il getto di vino venne espulso con la violenza di una bordata e lo colpì in pieno volto, togliendogli il fiato.
Uno champagne da migliaia di euro lo stava letteralmente soffocando.
Tentò di opporsi con le mani e, quando finalmente vi riuscì, il Louis Roederer Cristal, Broël sparò il suo tappo colpendolo nell’occhio.
Vide un lampo e sentì un fiotto di vino prenderlo letteralmente a ceffoni. Spostandosi andò a sbattere contro una scaffalatura piena di rossi, della Toscana, delle Langhe e anche un Aglianico del Vulture riserva speciale, che cadde e gli si fracassò sul cranio.
Non mischiare i bianchi con i rossi, i fermi con i vivaci!
Non si ricordava chi glielo aveva detto. La cosa certa era che il suo sangue, copioso dalla ferita sul cuoio capelluto, si era confuso molto bene col rosso rubino intenso della vendemmia 2007.
Al secondo tentativo di sottrarsi al bombardamento, i rimanenti tappi di champagne colpirono con prontezza. Uno dei due gli si infilò in bocca.
Annaspò.
Con due dita cercò di recuperarlo ma ottenne solo di spingerlo ancor più giù. Sapeva di sughero invecchiato e di carta stagnola. Agitandosi, cosparso del suo sangue e dell’Aglianico che gli aveva riempito anche le mutande, cercò di tossire e riuscì a spostare un po’ il tappo, che finalmente si offrì alla presa delle dita inzaccherate di saliva. Quando riuscì al toglierlo fu aggredito dal vomito e si lasciò andare schizzando violentemente contro il muro, mentre le ultime gocce dei vini pregiati si perdevano nella pozzanghera che si era formata in terra.
Crollò in ginocchio tramortito da un carnevale di odori e svenne.
"Questo è quello che capita a fare i topi d’appartamento, i rapinatori e i ladri d’auto. Dovresti saperlo, Fausto. La gente attribuisce alle suo cose un valore particolare, le carica di energia. Non parliamo dei soldi, perché per quelli ucciderebbe…"
"Io non ho ucciso nessuno!"
Suo padre, che lo stava pulendo con uno straccetto bianco, era giovane, pressappoco dell’età che poteva avere avuto quando lui era adolescente. Già allora si divertiva a rubare i portapenne ai compagni di scuola e a metterli in vendita nella sezione dei poveri.
Chiuse gli occhi e attese che anche quella visione scomparisse.
Quando li riapri, suo padre aveva sostituito lo straccio con uno nuovo ed era invecchiato di vent’anni. A sentirlo bene si percepiva quel leggero rantolo nei polmoni che più avanti l’avrebbe ucciso. Nella tasca della camicia, la solita con gli ascellari un po’ ingialliti e quel terzo bottone che la mamma si dimenticava sempre di sostituire, il pacco mezzo vuoto delle Nazionali senza filtro. Anche lui aveva avuto i suoi vizi, dopotutto.
"Ok, papà, adesso però risparmiami la predica, che questa è stata una serata di merda!"
Si alzò a fatica. Facendolo, vide la figura del genitore diventare gradualmente trasparente fino a scomparire dietro all’accenno di un sorriso amaro. La bottiglia ancora chiusa del Krug Clos d’Ambonnay lo stava puntando minacciosamente alla fronte. Si spostò verso il corridoio.
"Escono dalle pareti. Escono dalle fottute pareti!"
Ancora lui, Hudson. Il marine spaziale di Aliens scontro finale si stava di nuovo piangendo addosso e gli faceva da menagramo, come al solito. Lucio si fiondò all’interno del corridoio e vide che Hudson aveva ragione. Dalle pareti uscivano mille braccia, giovani e glabre, pelose, raggrinzite, di uomini e di donne. Cercò di passarvi attraverso ma queste lo spogliarono di ogni cosa.
Prima i vestiti andarono in brandelli e poi gli venne strappata una catenina d’oro che teneva al collo. Il portafoglio, i suoi documenti e le chiavi dell’auto gli erano state sottratte per primi.
Al quinto metro di percorso era nudo come un verme.
Vide un pezzo dei suoi pantaloni sparire fra i mattoni e le sue mutande rimanere incastrate fra l’intonaco e il muro. Ormai aveva il cervello in acqua e non sapeva come le sensazioni che stava provando potessero essere tanto realistiche. Sentì il freddo, il pavimento granuloso che gli tagliava i piedi scalzi e le braccia che lo graffiavano sulla schiena.
Corse fino al garage.
Se ne sarebbe andato via da lì senza vestiti.
Non gli importava nulla se era appiedato, l’avrebbero scambiato per uno dei tanti pazzi lasciati in giro a riempire i vuoti della notte.
Varcò la porta e scoprì che la Lancia Flavia non c’era più.
Sentiva il ronzio sommesso del suo motore, fuori, da qualche parte nel cortile.
Coprendosi l’intimità si avviò tremando verso l’esterno.
Non sapendo a quale dio rivolgersi per chiedere perdono, bestemmiò. Lo fece per non sbagliarsi e sciorinò tutto il calendario dei santi, la Trinità e la Vergine Maria.
Fu lì che l'elfo arciere scoccò la freccia colpendolo in pieno.
Il bruciore si diffuse come un incendio di benzina e un velo lattiginoso calò davanti agli occhi. Chinandosi, vide il ventre trafitto come un puntaspilli e crollò in ginocchio nel prato.
Quando l’auto, sgommando e sollevando le zolle del giardino lo travolse in un lampo di fari accesi, sentì un concerto di ossa rotte, un rumore di carne caduta dal balcone e lo sciabordio del sangue che schizzava ovunque. Le ultime sensazioni che che avvertì prima di morire, furono l'odore di ferro caldo e sporco, esattamente come quello della vecchia caldaia, e la marmitta rovente della Lancia Fulvia, affilata come un coltello, che gli lacerava la schiena.
Il mattino seguente, qualche minuto dopo l’alba, il ciclista della sera prima passò per un nuovo avvincente itinerario. Lo avrebbe portato a scavalcare un paio di colli alpini e a fermarsi solo per mangiare i panini che si era sistemato nelle tasche posteriori della maglietta e che avrebbe buttato giù con le sue due borracce d’acqua sistemate sul telaio alla stregua dei professionisti. Gli occhiali da sole, la bandana e il casco in polistirolo erano appesi al manubrio, pronti per essere indossati appena il sole e le auto impazzite in centro avessero chiesto il loro tributo.
Passando accanto al muro in pietra vide appesa una scala in corda, di quelle che si usano per i soccorsi o per l’alpinismo. Incuriosito, appoggiò con cautela la bicicletta a bordo strada e provò a superare un paio di pioli per vedere cosa ci fosse dall’altra parte.
Sotto i primi raggi del sole, radenti la collina e appena caldi da rincuorare il giorno, vide il cadavere di un uomo. Era nudo, bagnato e cosparso di gravi ferite e sangue raffermo.
Doveva essere morto da poco, perché il calore residuo stava facendo evaporare la rugiada sulla pelle e qualcosa di schiumoso che lui non riusciva a capire. Circondato dall’erba alta, dalle ortiche e da grossi cespugli di rovi che sembravano fargli guardia, era riverso nel bel centro di quel prato, e lo spiccato di vecchi muri, crollati da molti anni e ricoperti di erbacce, faceva appena ombra ai suoi piedi scalzi.
Un drogato, pensò, o un senzatetto. Qualcuno che aveva bevuto così tanto che credeva di essere entrato in casa sua, o chissà, in una taverna a ipotecare ancora un po’ della sua patetica esistenza.
Non era il primo che andava a morire in quel quadrato di terra nuda e si chiese cosa mai attirasse in quel posto quegli scarti di umanità.
Seccato, tornò in strada, inforcò la bicicletta e si avventurò verso la città.
Appena la discesa gli permise di abbandonare uno dei due freni e approfittando di un primo semaforo rosso, prese il cellulare, compose il numero della polizia e attese.
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