Le parole fanno parte dei libri, non occorre risparmiarle.
E su questo siamo tutti d'accordo.
Il testo di un romanzo di media lunghezza, diciamo con un numero di parole comprese fra le cinquanta e le centomila, potrà raccontare più o meno bene una storia anche complessa, scegliendo di enfatizzare certi aspetti rispetto ad altri, di descrivere, spiegare, approfondire, istruire, emozionare. Ma siamo sicuri che tutte queste parole vengano adoperate nella maniera migliore?
Siamo certi che non siano l'egoismo, il narcisismo e qualche volta la frustrazione dell'autore a caratterizzare la storia?
Qualche volta accade.
Leggo tanto e facendolo mi imbatto in quegli scrittori (sono tanti per la verità) che tendono a spiegare tutto e che specialmente amano a mettere per iscritto ogni singolo pensiero dei protagonisti, senza fare nulla affinché il lettore, semplicemente, lo intuisca.
E' un approccio alla scrittura che non adoro, anzi, diciamo che quasi sempre riesce a porre le condizioni per il colpo di sonno, quello che ti sorprende con il libro rovesciato sulle ginocchia e con il segno fra le pagine andato irrimediabilmente perduto.
Mi succede questo perché sono sicuro che il lettore meriti rispetto, che sia abbastanza intelligente e sufficientemente coinvolto nella storia per essere capace, per esempio, di percepire da solo la chimica fra due amanti senza che lo scrittore traduca in parole ogni singolo ragionamento dei protagonisti, ogni minimo dubbio, ogni sensazione seppur fugace.
Se Diego e Alice, per esempio, si sono appena conosciuti e stanno per dividere una notte d'amore, lui (che è già cotto come la pasta dimenticata in acqua per venti minuti) penserà di non dare troppo a vedere il suo entusiasmo, di fare una pessima figura a causa della casa in disordine, di avere lasciato troppi indizi della sua professione sparsi in giro. Alla fine (perché nei libri e nei film non può andare diversamente) si consuma l'amplesso, seguito dall'appagamento e da quella meravigliosa pace dei sensi che si prova in certe occasioni.
Ecco.
Certi scrittori che non sono esattamente il mio punto di riferimento, avrebbero messo giù due righe in questo modo:
"La invitò a entrare. Era in ansia. Non voleva darle in pasto quel suo entusiasmo da adolescente, quella sua eccitazione fin troppo evidente che serpeggiava sotto la pelle. Pensò che si sarebbe dedicato a qualcosa di diverso, qualcosa che potesse fare credere ad Alice che lui, abituato com'era alle donne, ai loro capricci e alla scoperta di tutti quei meravigliosi tasti nascosti che le facevano diventare docili, sapeva dominare i suoi sensi. L'amore, quello fra le lenzuola, sarebbe arrivato dopo con tutta calma.
Vide i pesci nuotare nell'acquario.
L'idea che lei avrebbe potuto spazientirsi per finire col saltargli addosso lo convinse a dedicasi a loro. Prese il cibo e lo versò nella vasca a spizzichi. Si ricordò di quando lo faceva sua madre dopo essersi asciugata le mani sul grembiule e di come suo padre la guardava quando succedeva. Mentre i fiocchi galleggiavano sulla superficie dell'acqua che rifletteva il viola della lampada, gli venne in mente che Alice avrebbe anche potuto offendersi, che dare le spalle alla gente è sinonimo di cattiva educazione e che il portafoglio nella tasca dei jeans gli stava sicuramente rovinando il bel sedere, e tutti sanno quanto alle donne possa piacere un bel sedere.
La sentiva respirare e l'atmosfera si inquinò per la vergogna. Si ricordò che quella mattina non aveva fatto il letto, che aveva pedalato per mezz'ora e che i suoi indumenti sudati non erano stati lavati e che la cosa avrebbe potuto rovinare la poesia. Alle volte è un piccolo, insignificante dettaglio quello che rovina la poesia.
E poi cominciarono a fare l'amore, all'inizio con gli ingranaggi che scricchiolavano un po', dopo con l'olio della passione che era andato a lubrificare le rotelle più asciutte. Pensò di non meritarsi quella ragazza, così bella, così appassionata.
Era perfetta.
Si sforzò di ricordarne altre altrettanto belle ma non gliene venne in mente nessuna. Si convinse che pensare troppo avrebbe potuto levare preziose energie proprio da lì, e lui voleva durare, stare sul pezzo, strappare un biglietto per il paradiso, resistere all'evento tellurico che gli stava facendo vibrare le fibre più recondite... Concluse che non se la meritava ma il suo piacere, infine, cancellò ogni dubbio.
All'idea di quel momento, di quel ritaglio di vita che si era proiettato davanti ai suoi occhi come i fuochi d'artificio di una notte d'agosto, gli ritornarono alla mente le delusioni, i fallimenti, i giorni dati in pasto alla rabbia.
Tutto resettato, riavvolto come il nastro di una vecchia cassetta con un film rubato alla televisione.
Era stata sufficiente la morbida, calda e tenera Alice, la ragazza più bella in città che, quel giorno qualunque del principio di un'estate qualunque di un anno qualunque, di un secolo qualunque, si era messa in mezzo al suo cammino per indicargli la strada della felicità. Fu così, annegato in una tempesta di emozioni e sballottato dalle onde enormi della gioia che infine pianse."
Bello, mi piace. Del resto l'ho scritto io, adesso. :D Certo non è il mio stile. E' una forzatura che ho messo in pratica per dimostrare che la scrittura logorroica, alla fine dimostra dei limiti e magari qualche volta confonde.
Quando nel mio romanzo "Una notte per non morire" scrissi quella scena per davvero, la misi su carta esattamente così:
"Lui la invitò a entrare e diede da mangiare ai pesci nell’acquario; una vasca da centocinquanta litri con mezza dozzina di scalari, quattro coppie di sbaciucchioni e una serie operosa di pulitori di fondo, tutti immersi in un’atmosfera sospesa fra il viola e l’azzurro.
Si vergognò un po’ del suo letto sfatto, di quella coppia di calzini dimenticati sudati ai piedi della cyclette e soprattutto di quei portantini per gatti, impilati a torre proprio nell’angolo della stanza.
Si perse negli occhi grandi e scuri che Alice sapeva riempire passione e poi, quando la libidine sciolse il morso dei freni, apprezzò la pelle vellutata e le proporzioni perfette di quel corpo, fino ai particolari più nascosti. La sua intenzione di resistere venne disintegrata presto da quel terremoto ondulatorio e sussultorio che si era scatenato sopra di lui.
Fu talmente felice, che si sforzò di trattenere il pianto."
Avrete capito che sono per la scrittura asciutta.
E per le scene d'azione, per la violenza?
Uguale. Per il genere che scrivo, le scene d'azione con risvolti anche violenti sono piuttosto frequenti. Nel mio thriller "La sesta destinazione", per esempio, ho sviluppato in questo modo l'idea di un cecchino che sbaglia clamorosamente mira...
"Il vento che sentì carezzarle la schiena era quello provocato dal passaggio di un proiettile con ogiva di piombo incamiciato in acciaio.
Dopo avere provocato un piccolo foro nel vetro della finestra, impiegò l’infinitesima frazione di un secondo per sfiorarle le vertebre, aprire come un melone la testa di Cinzia e devastare le viscere del capo, che indietreggiò fino a travolgere la fotocopiatrice ancora in opera. Silvia, la ragazza che aveva passato gli ultimi dieci minuti a caricare in macchina un foglio alla volta, sentì il tonfo del proiettile che fermava finalmente la sua corsa a 830 metri al secondo disintegrando i meccanismi della macchina, e non capì. Non capì perché con la coda dell’occhio aveva intravisto una macchia rossa che sostituiva la testa della sua collega e non capì il motivo per cui dairectory era steso sul pavimento, piegato in due e in preda a convulsioni. Quando, assieme ad un pezzo del suo gomito, vide una grossa macchia di sangue sulla parete, capì a cosa era dovuto quel dolore lancinante che aveva cominciato ad avvertire nel braccio.
Era il secondo colpo.
Il terzo proiettile fece un foro accanto a quelli che avevano violato la verginità del vetro.
Il killer inquadrò nuovamente Francesca nell’ottica del suo fucile e sparò con l’intenzione di spaccarle il cuore. Ma in quel momento, quando era stato premuto il grilletto, nella mente di Francesca partì un impulso dettato dall’istinto, quello di uscire dal campo visivo della finestra e portarsi dietro alla veneziana. Quella questione di sinapsi, nervi e muscoli, la salvò nuovamente.
Sentì ancora fischiare il proiettile, questa volta accanto all’orecchio, attraverso i capelli, che svolazzarono tranciati per la stanza come se avesse deciso di rifarsi il taglio. Il ragionier Guarneri, accorso per capire cosa fossero quelle grida e quel caos, arrivò all'appuntamento con la morte offrendo il petto al calibro 7.62, quello che aveva solo spettinato Francesca.
Gli trapassò lo sterno e ridusse il suo cuore a una poltiglia.
Morì all’istante, cadendo su una sedia dietro di lui, con gli occhi sbarrati e le braccia cicciotte messe a nudo dalle maniche arrotolate della camicia. Si accomodarono sui braccioli e vi stettero..."
Ecco, qui nessuno pensa a nulla. Solo istinto, paura e sangue.
Eppure vi giuro, che esistono dei libri dove una scena simile viene interpretata diversamente, magari approfittandosi dell'occasione per infilarci qualche ragionamento sull'esistenza o, peggio ancora, qualche aforisma riciclato.
Quindi insisto, le parole fanno parte dei libri ma non approfittiamone. Il lettore non merita di sorbirsi il nostro narcisismo nel momento sbagliato e nemmeno è costretto a concentrarsi sulla lettura come un concorrente alla finale mondiale di scacchi.
Per come la vedo io la scrittura è musica, ogni strumento deve attenersi al ritmo, rispettare il tempo e tacere quando necessario. Ci sono i piano, i forti, le pause. Lo scrittore ha la fortuna di disporre di una sinfonia (la storia), dei migliori musicisti (il suo talento) e della bacchetta da direttore per fare sì che l'esecuzione funzioni perfettamente. Quest'ultima cosa la chiamerei umiltà.
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