Clayton Mulligan detestava lasciare le cose al caso.
Complice l'estate precoce, il rinnovato miracolo delle piante fiorite, dei camion dei gelati a ogni angolo di strada, delle donne in abiti succinti a spasso per la downtown e dell'America in tutto il suo splendore, aveva goduto degli odori della natura attraversando la periferia, con il finestrino abbassato e la musica degli anni '70 che suonava nell'autoradio. Frank Valli and The Four Seasons avevano cantato December e poi Long train running dei Doobie Brother e i Bellamy Brothers e Steve Harley and cockney Rebel.
Nell'aria un trionfo di profumi, una meravigliosa miscela di terra bagnata, erba tenera e polline. Vincevano sullo smog per distacco e sulle marmitte, che avevano lavorato per tutta la stagione fredda stendendo una cappa nera sui tetti delle case.
Clayton Mulligan, che detestava lasciare le cose al caso, aveva parcheggiato lontano e si era diretto alla villa attraversando il parco, con le mani in tasca e l'andatura da teppista, rimasta incollata alle gambe da quando era giovane.
A quell'ora di sera non si incontrava quasi nessuno.
Sulla panchina, sotto due strati di coperte lerce, un senzatetto addormentato si annunciava col suo cattivo odore. Al limitare del laghetto, degli amanti spericolati davano la sensazione di avere fretta, tesi per la paura ancor più che per l'eccitazione. Dal bosco, nato spontaneamente attorno a una stradina pavimentata in pietra e contornata da file disadorne di mattoni rossi, già si intravedevano le luci giallognole delle finestre.
Strinse l'impugnatura del coltello serramanico che teneva in tasca.
Dura, di quella plastica rivestita con una madreperla sintetica che già cominciava a scollarsi, faceva compagnia alla sua erezione. Era cominciata nel momento stesso in cui i dettagli sugli omicidi che stava per commettere si erano delineati nella sua testa, quando l'immagine del sangue che sprizzava dalla giugulare aveva riempito di rosso lo schermo dei suoi sogni, quando le grida di terrore si erano estinte in un gorgoglio come una radio a corto di batterie.
Clayton Mulligan era sconosciuto alla polizia.
Era solo il profilo di un volto con un grosso punto interrogativo al suo centro, un nome in codice, delle fotografie di luoghi puntate sul tabellone polveroso. Era una collezione di articoli di giornale, ritagliati e lasciati ingiallire nei dossier che da anni si accumulavano, l'uno sull'altro.
Clayton Mulligan era quello, una somma di ipotesi, la frustrazione del poliziotto comune, la carriera degli investigatori che si arenava nelle secche sabbiose. Mulligan era un passamontagna e un paio di guanti in lattice, era quello visto solo di schiena, quello che non mi ricordo, quello degli identikit tutti diversi fra loro. Clayton Mulligan era bianco, nero, giallo ed eschimese. Poteva arrivare da un altro mondo come essere il tuo vicino di casa, quello che cucina pentolate di fagioli ogni sera. Magari era la figlia vergine del calzolaio, che si armava di tutta la sua energia repressa e calava in città con la tempra del serial killer, oppure il prete benedicente che puzza di quell'onnipresente odore di incenso. Clayton Mulligan, quando lasciava tracce, erano quelle delle rughe sulla fronte accigliata del pubblico ministero o i tratti nervosi che il commissario imprimeva a biro sul foglio bianco delle sue indagini, fino a stracciarlo.
Clayton Mulligan era imprendibile.
Lo era stato quando aveva violentato e ucciso quelle donne ai margini di una festa di provincia, quando aveva rapinato le banche ed era fuggito con la refurtiva, prima ancora che gli impiegati si fossero resi conto di essersi bagnati i pantaloni. Lo era stato in cento altre occasioni, alla mattina, al pomeriggio e alla sera, quando le porte delle case che svaligiava cedevano lascive ai suoi ferri e si spalancavano su mondi interi da esplorare.
Quella sera non fu un problema aprire il cancello.
Lo scatto della serratura si avvertì leggero e il battente si spalancò senza cigolare.
Dalla casa arrivava il rumore di una Tv accesa e delle sagome attraversavano lo spazio dietro alle tendine. Nascosto al riparo di uno spigolo e vestito del buio, Clayton si sforzò di ascoltare.
Si udivano le voci di lei, del marito e di una giuria che stava giudicando gli aspiranti cuochi usando la solennità che sarebbe parsa esagerata pure alla cerimonia dei Nobel. Gattonò sotto il davanzale, appoggiò l'orecchio alla porta ed ebbe la conferma: due persone.
Il piano era semplice. Prevedeva di attirare all'esterno la prima, per liberarsene con una coltellata al fegato, trascinarla dietro ai cespugli e sostituirsi al suo ritorno.
«Tutto bene, caro?» Avrebbe domandato lei, alzandosi dal divano con un bicchiere di Glen Grant con ghiaccio, ancora da cominciare.
E poi l'avrebbe violentata, non una ma due volte.
Nella pausa si sarebbe bevuto il Glen Grant ascoltandola piangere e, alla seconda, si sarebbe preso tutto il tempo necessario, magari svestendosi prima e riponendo con cura i suoi abiti sulla spalliera di qualche sedia.
Le cose non potevano andare diversamente. L'importante era di non lasciare le sue impronte digitali impresse in qualche posto e le orme dei suoi piedi, un quarantadue così diffuso che gli investigatori si sarebbero arresi al panico ancor prima di cominciare a fare il loro inutile lavoro.
E sangue.
Voleva lasciare laghi di sangue, attirare l'attenzione di vampiri addormentati da millenni, piuttosto, ma Clayton Mulligan adorava vedere scintillare le luci delle lampadine sulla distesa omogenea del sangue, percepirne l'odore e portarselo a casa come la memoria olfattiva di un vino di gran classe.
Gli investigatori, quegli inutili e patetici uomini con le cravatte prese in prestito dal cattivo gusto, dovevano armarsi di straccio e secchio e vincere la palude che lui avrebbe lasciato per ricordo.
Fece cadere un vaso per attirare l'attenzione e attese.
In casa si accese una luce, che andò a rinvigorire quella timida luminescenza che attraversava appena le finestre, si ammutolì il televisore e la porta si bloccò con uno scatto elettrico.
Con un fragore di ferro, le tapparelle blindate calarono e un potente faro fece luce sul giardino. Le telecamere col sensore di movimento lo inquadrarono e lo inseguirono attraverso il prato falciato di fresco. Anche il cancello si chiuse da solo imprigionandolo all'interno: quattro mura di pietra grezza, piante da giardino disposte secondo una precisa geometria, statue, putti e discutibili panchine da innamorati di Peynet. Dal balcone decollò un drone, un piccolo quadricottero in plastica con una minuscola telecamera montata sotto la pancia. Si mise a girare intorno a lui come una fastidiosa zanzara. Anche quando cercava di sottrarsi all'occhio impietoso della sorveglianza video, Clayton era seguito da quel mostro ronzante.
La polizia non tardò ad arrivare. Si materializzò al di là del cancello.
Dall'auto uscirono due uomini che andarono ad appostarsi al sicuro mentre da un elicottero, questa volta vero, tre specialisti si calarono con delle funi. Il primo e il secondo lo presero di mira con le armi da fuoco, incrociando le lame dei loro puntatori laser nell'aria tersa del giardino. Il terzo si avvicinò a grandi passi e lo folgorò con un teaser.
«Mulligan sei in arresto!» Abbaiò uno degli uomini mentre lui non riusciva a dominare le convulsioni. Sprizzava bava come un irrigatore da campo e pronunciava bestemmie inarticolate dalla bocca contratta.
L'ispettore, giacca azzurra, cravatta di un tono più carica e pantaloni di un impeccabile grigio antracite, si avvicinò e lo guardò dall'alto in basso. Indossava occhiali con grosse lenti che rimandavano il fascio di luce dei riflettori. Il vento scompigliava i capelli castani sbattendoli sotto la tempesta delle pale. In mano un dossier e nell'altra lo smartphone. Accanto a lui quello che probabilmente era il suo tirapiedi, un uomo con tanto naso quanta faccia e un accenno di rossore sulla punta. Portava i folti capelli biondi acconciati da una mano da molti dollari al colpo ma nulla, quel naso infelice catalizzava tutte le possibili attenzioni. Mulligan si piegò come un libro chiuso e tentò di dominare il dolore al ventre.
«Sì, sì, si!» E dicendolo annuiva con la testa. L’ispettore era in un brodo di giuggiole. Stava probabilmente godendo della sua promozione prossima ventura e della scopata che avrebbe rimediato quella sera stessa vantando le sue imprese con Katya, la nera con le tette grosse del dipartimento antidroga.
Il vice fece girare Mulligan con una pedata. I denti di quel sorriso da figlio di puttana non erano meno artificiali di quell'acconciatura tutta lacca.
«Adesso ci facciamo un giro alla stazione di polizia. Che dici stronzo, scommetto che non vedevi l'ora di visitarne una?» Si chinò e lasciò che uno sputo cadesse in faccia a Mulligan. «Così ti diciamo i tuoi diritti e ti facciamo vedere le prove...»
Il dolore, lo stordimento e quella nausea da campionato mondiale di sbornie si calmarono, mentre l'elicottero abbandonava il sito e il drone rientrava al nido come un aquilotto dalla mamma. Mulligan attese che un po' di saliva gli lubrificasse la lingua, quindi parlò.
«E di cosa mi accusate? Profanazione di prato all'inglese, furto con destrezza di nani da giardino?» La nausea si aggravò nuovamente, prima per lo sforzo, poi per il calcio che il biondo cotonato gli diede nello stomaco. L'ispettore mise il telefono in tasca e lo guardò come un quarto di manzo. Aveva la luce alle spalle che creava quell'alone da icona religiosa.
«Omicidio, stupro, rapina a mano armata ed effrazione con tentato omicidio. Ma non ti devi preoccupare. Dalle nostre parti la sedia elettrica è comoda. Se vorrai, potrai chiedere di metterci un cuscino sotto quel tuo culo flaccido e vedrai: hanno un cuore grande così al carcere della contea!»
Clayton Mulligan aveva quella risata grassa, piena. Quando rideva impiegava i due polmoni al massimo delle loro possibilità. Quella notte fece fatica e dovette sopportare del dolore ma non rinunciò alla risata, che proruppe come una salva di cannonate.
«Ah sì, ispettore. E cosa avresti nelle tue mani da femminuccia per inchiodarmi alla sedia elettrica, sentiamo...»
La prima delle prove gli cadde sui denti.
Era un plico rilegato ad anelli. Mulligan, con fatica, si mise seduto e lo sfogliò.
C’erano grafici incomprensibili e delle piccole didascalie al fondo di ognuno di loro. Tutto quanto non aveva per lui alcun significato. Gettò a terra il fascicolo e sputò nella sua direzione.
«Io mi ci pulirei il culo...»
L'ispettore si accese una Pall Mall e porse il pacco al collega nasone che rifiutò.
«Mai sentito parlare della prova del DNA, acido desossiribonucleico?»
«No, stronzetto, ma ho sentito parlare degli ispettori incapaci che alla fine hanno aperto un bar per i camionisti…»
La seconda prova era simile alla prima, ma con più pagine. Si vedevano le foto della città scattate dall’alto. Alcune delle strade erano percorse da righe colorate, rosse o blu. Qualcuna terminava con un circolino e altre con una piccola fotografia. Mulligan mandò il plico a fare compagnia a quell’altro.
«Ai miei tempi li chiamavano collage, e li facevano fare ai bambini cretini.»
L’ispettore si spostò, e di colpo la lama tagliente del riflettore colpì Mulligan nel centro delle retine assieme a un metaforico ceffone. Il subalterno, il vice o il tirapiedi con il naso infelice, si sgranchì le gambe per andare a parlare con uno degli incursori. Si era arrotolato il passamontagna sopra la testa e si grattava una cicatrice sul mento.
«Sono i movimenti del tuo cellulare, idiota! Avresti fatto bene a spegnerlo prima di fare tutte quelle porcherie. Guarda: questo e questo sono le rapine alle banche, questa e la tua serata brava di stupri e omicidi. Questo è il tuo ultimo giro, quello che ti sei fatto questa notte per venire fino a qui…»
Mulligan strizzò gli occhi dinanzi a quel documento e lo sfogliò nervosamente, avanti e indietro. Con le labbra ancora insensibili e la chioma spettinata a causa della scossa elettrica, sembrava un matto senza speranze di fronte a un impossibile test attitudinale.
«Non so di cosa stai parlando, ispettore. Io non so cosa sia il cellulare, e nemmeno ho idea di come faccia a muoversi come dici tu. Queste sono solo stronzate di compiti a casa per sbirri senza talento.» Si alzò con grande sforzo sorreggendosi la schiena e un grido di dolore senza filtri lo umiliò dinanzi a tutti. «La prossima volta portami delle prove, sbirro! Io adesso vado dal mio avvocato che troverà il modo di scucirti quel distintivo dalle tette…»
Claudicante, cercò di farsi strada e di passare oltre l’ispettore. Il vice col naso di luna gli si parò davanti con le braccia aperte.
«Decidi Mulligan, questo può essere il capolinea della tua carriera come l’ampiezza del tuo sedere alla fine del trattamento, o la somma delle due cose. Decidi tu. E adesso, da bravo, metti le mani dietro la schiena.» Due manette lucidate al sidol brillarono tintinnando fra le mani. Mulligan, ancora coi guanti di lattice addosso, piazzò gli occhi negli occhi dello sbirro. Quello sguardo, di solito, precedeva un omicidio di qualche secondo.
«Te l’ho detto, non so nemmeno cosa siano il DNA o il cellulare. Quello che conosco io, di cellulare, porta in giro gli imbecilli che si sono fatti mettere le mani addosso da voi, e di sicuro non sta in tasca alla gente.»
Le manette scattarono alle sue spalle, stringendo. Lo fecero dopo uno strattone senza riguardo.
Mulligan non reagì, non con la canna del fucile indirizzata verso il petto. L’uomo con il passamontagna arrotolato sulla testa tirò la sua cicatrice in un ghigno.
L’ispettore, che gli aveva messo le manette a tradimento, girò intorno a lui e gli sistemò il colletto della giacca. Con una mossa abile e veloce gli infilò la mano nella tasca anteriore dei pantaloni ed estrasse un cellulare: Honor 7 color silver. Gli occhi di Mulligan si accentrarono strabici e sorpresi in direzione dell’apparecchio. Quella cosa dura accanto al coltello non era stata l’erezione, evidentemente.
«Qualcosa da dire a tua discolpa, assassino?» Rimase muto. Se ne avesse avuto la forza si sarebbe lasciato evaporare in una nuvola. Sulle prime le sue labbra tremarono nel tentativo di emettere una parola, dopo borbottarono una frase con poco senso.
«Ma, ma, allora…»
L’ispettore congedò gli uomini dei corpi speciali con un gesto. Se ne andarono incontro ai lampeggiati che si intuivano al di là del muro. L’uomo dal naso enorme, pentito, chiese una sigaretta e l’ottenne assieme allo zippo.
«E allora sei fritto come una melanzana impanata, amico, fattene una ragione.»
«Ma allora» si guardò le mani. «I miei guanti per non lasciare le impronte, il passamontagna, il coltello che ho pulito ogni volta. Le lettere che ho mandato scritte a macchina…»
«Ti abbiamo incastrato amico, il tuo DNA sui corpi delle vittime, i movimenti del tuo telefono, l’intercettazione delle tue mail, i passaggi in autostrada, i prelievi col bancomat. Sei finito nei filmini delle telecamere di mezza città. Sei fottuto!»
Mulligan pensò alla sedia elettrica, a quell’odore di bruciato che avrebbe avuto tempo di sentire nell’agonia, a tutta l’attesa snervante nel padiglione della morte. Pensò all’ultimo pasto, al confessore con gli occhi bassi e al miglio verde. Quando il vice sfilò il suo portafogli e gli fece vedere la Mastercard piuttosto consumata, lui si raccolse in una specie di preghiera.
«Io, io…»
«Devi essere finito nel racconto sbagliato. E’ quello che sospetti Mulligan?»
Annuì, e una lacrima di rabbia gli rigò il volto.
«Porca puttana, sì...» Pensò al piccolo oggetto volante, ai raggi rossi che squarciavano il buio, alle telecamere che avevano seguito i suoi movimenti. Anche quell’arma a energia elettrica che gli aveva fatto rimpicciolire lo scroto gli era sembrata una cosa fuori contesto. «De…devo essere finito nel racconto sbagliato, in un’epoca sbagliata…»
Quando ebbe nuovamente il coraggio di guardare in faccia l’ispettore, le lacrime grondavano senza ritegno. L’uomo col naso grosso mostrò a sua volta un po’ di commozione.
«Siamo nel 2019…»
«Non nel 1971?»
I poliziotti si guardarono fra loro. Non sapevano come dirglielo.
«Sei finito nel racconto sbagliato, ci dispiace. Una domenica pomeriggio qualcuno che si annoiava l’ha scritto…»
«E chi...chi è stato?»
I due si consultarono brevemente parlandosi nelle orecchie. Il vice lo guardò con gli occhi lucidi. «Roberto Capocrisiti, uno che non si stanca mai di scrivere racconti e romanzi e tutto quello che gli passa per la testa…» Mulligan annuì. «In ogni caso è uno che si vuole complicare la vita e che non scrive mai racconti ambientati negli anni '70 o prima ancora, quando le trame erano più semplici e i criminali così difficili da catturare.» Aggiunse l’ispettore quasi vergognandosi.
Il vice cercò di addolcire la pillola. «Lo so Mulligan, è stato un colpo basso. All’inizio lo scrittore voleva ambientare la sua storia negli anni '70. Zampa di elefante, camicie coi colletti enormi e cocaina che costava una fucilata. Si era anche inventato una storia parallela di puttane con la permanente, auto con seimila centimetri cubici e sigarette fumate al cinema. Una cosa affascinante, devo dire…»
«E poi mi ha rifilato quel nome idiota, Clayton Mulligan!»
«Già, una vera schifezza! Mi dispiace, è fatto così. Ha cambiato idea, ha voluto complicarsi la vita con tutta questa tecnologia che rende difficile articolare una trama credibile e senza punti deboli. Insomma, cosa scrivi, scrivi, c’è sempre il pericolo che salti fuori un’invenzione che ti sega le gambe alla storia. E’ andata male, Mulligan!»
Un velo di tristezza calò il sipario su quel volto contrito. Clayton: un malvivente d'altri tempi catapultato nel 2019 senza uno straccio di preavviso. «Quindi i guanti per non lasciare impronte, il passamontagna e tutte quelle…»
«Precauzioni?» Intervenne l’ispettore. «Roba vecchia che non sta più in piedi…»
Quando Mulligan salì sul furgone per essere portato in carcere, la sua dignità si disintegrò. Mille coriandoli che il vento stava sparpagliando in giro sul marciapiede.
Lo aspettava un tribunale, dei giurati accigliati, ottusi e pieni di pregiudizi. Lo aspettavano tanti anni nel carcere prima che si liberasse un posto su quella sedia.
Per Clayton Mulligan, pluriomicida con prove schiaccianti a suo carico, non ci sarebbe stata clemenza.
© Diritti riservati
Nessun commento:
Posta un commento