Polvere.
Prima era materia, duro lavoro, ferro annegato, fatica. Era il piacere di
riunirsi attorno al tavolo apparecchiato dopo essersi lavati via il sudore.
Erano il papà, gli amici, i vicini di casa e la mamma, che si dava da fare in
cucina convinta che non ce ne fosse mai abbastanza per tutti.
Frastuono.
Credevo di avere imparato. Credevo che le mie orecchie fossero addestrate
a riconoscere l’essenza stessa del frastuono. Da nord, da sud, dal mare.
Qualche volta arrivano dal mare e se il vento ha voglia di scherzare, ti
accorgi di loro quando ormai ti sono addosso.
Tremore.
È quello che ti sottrae alla terra, e se la terra è un pavimento, sotto i
piedi potrebbe cominciare l’inferno, il tuo.
Sole.
Quello ancora non hanno imparato a levarcelo. È vero, latita per qualche
ora ma quando il nemico se ne va, torna a brillare.
Ma chi è il nemico?
Qualche volta le ombre attraversano la città così in fretta che se guardi
il cielo rischi di rimanere accecato, e di non vedere più nulla.
Il fischio non è sempre lo stesso, cambia, si aggiorna.
Una bomba a caduta libera arriva con un rumore che ricorda un battito
d’ali, e poi dipende da quanto è grossa. Quelle piccole, se possibile, sono
ancora peggiori. Sfondano i tetti, si infilano nei vicoli, rotolano e magari
non esplodono nemmeno. Aspettano che arrivi qualcuno a liberare le macerie, a
farsi strada fra l’acciaio contorto, a sfidare le fiamme e l’acqua che ti
aggrediscono contemporaneamente, e sembra si prendano gioco di te. Ci sono
cocci, pezzi di mattone, frammenti d’uomo resi irriconoscibili. Se si è
fortunati, si può prendere una pala e scavare.
Nella polvere.
Se non si è fortunati c’è un meccanismo che scatta quando meno te lo
aspetti. Cessano le grida, i pianti, gli ordini e la frenesia che si era creata
accanto a quel cumulo di macerie, all’improvviso.
Come formiche.
Arrivano altri aiuti, accorrono come formiche agli ordini della regina e
riprendono a scavare.
Non hanno tempo di chiedersi chi sia stato. Per quello ci sono i giornali
dell’occidente, le loro televisioni. Cambiano versione secondo la convenienza,
snocciolano numeri di morti come se parlassero della classifica del campionato
di calcio, ascoltano testimoni, quelli con il trucco appena rifatto da una
troupe televisiva.
Per renderli credibili li riempiono di polvere.
Il mio bambino è cresciuto così: ha imparato a riconoscere gli
elicotteri.
Capisce il modello dal rumore delle pale, intuisce dove cadranno i colpi
a seconda della quota di volo. Per gli aerei è più difficile. Sono complici del
vento, loro, volano basso e qualche volta scompariscono dopo un boato.
Con i missili è impossibile.
Arrivano assieme a un sibilo e, se lo senti, devi conoscere una preghiera
abbastanza breve e devi essere bravo a recitarla piuttosto in fretta. I missili
se ne infischiano delle preghiere, dei matrimoni e dei funerali. A loro piace
arrivare quando la gente si riunisce a pregare, specialmente.
Questa mattina ho saputo che distribuiscono delle medicine.
Bisogna attraversare due quartieri e soprattutto, per orientarsi, occorre
ricordarseli com’erano prima. Il mio bambino è più bravo di me. Lui non si lascia
condizionare dalla città com’era prima perché quella l’ha vista solo nelle
fotografie. Qualche volta rimane stranito dal panorama di tetti bianchi, cupole
e torri a perdita d’occhio, e dall’antica fortezza sulla collina che è rimasta
al suo posto. Pare abbia sostituito il solito zerbino ai suoi piedi con un
altro consumato. Lui si fa guidare dallo scheletro del semaforo all’angolo, dal
tubo nudo della fognatura che fuma come un grosso sigaro, dall’officina del
ciclista con le biciclette buttate l’una sull’altra come nel mucchio di rottami
davanti alla fonderia. Non hanno più le gomme e i catarifrangenti dei pedali
hanno smesso di brillare da un pezzo. Il mio bambino si orienta con il gruppo
di alberi dati in pasto alle fiamme dove io, ragazzina, avevo dato il mio primo
bacio. Sapeva di cedro su un letto odoroso di oleandro in fiore rosso. Il bacio
è come il vino: eredita il carattere della terra che lo circonda e, se buono,
non lo dimentichi mai più.
Il mio bambino ha imparato a camminare veloce e a fare tesoro del mezzo
centimetro di suola che ogni giorno si assottiglia.
Il mio bambino è nato con la guerra e parla.
Parla in continuazione e non si preoccupa di farsi notare. Lo tengo per
mano mentre zigzaghiamo fra le case ridotte a frane, e mi dice che gli
aeroplani e gli elicotteri non sentono, e che i soldati sono così stanchi che
non hanno più voglia di sollevare il fucile. Indica una parete di vetri rotti
che sembra una dentiera presa a pugni e mi annuncia che siamo quasi arrivati,
che dopo il palazzo, quello con i pavimenti adagiati addosso come le orecchie
di un cane, ci sono le medicine.
E poi, senza preavviso, arriva il fischio cattivo, quello che devi
recitare le preghiere.
Lo devi fare in fretta e sperare nel perdono se manchi di pronunciare
qualche parola.
Sento la sua mano tirare. Sento un primo strattone che mi arriva fino nel
gomito assieme a una scossa e poi un secondo ancora più forte. Io sono
paralizzata dalla paura e le mie dita finiscono con lo stringersi su loro
stesse. Lo vedo scivolare via e correre come il vento. Inciampa, si rialza e
finisce col rintanarsi nel buio di un garage, con la serranda avvolgibile
accartocciata accanto alla porta.
C’è il frastuono, c’è il tremore, c’è la polvere e c’è il silenzio.
È un silenzio puro, che arriva subito dopo la pioggia di sassi e mattoni
e oggetti e fiammelle che si depositano in terra continuando a bruciare. Quella
cosa laggiù che rimbalza deve essere l’oblò di una lavatrice e un tetto si
attorciglia come un verme finito nel fuoco. Da una finestra si ravvisa un
rigurgito di panni sporchi. Non provo nemmeno a sottrarmi al muro di polvere
densa che mi arriva addosso come un treno.
È un pugno.
Faccio in tempo a coprirmi il viso con il foulard e a percepire il mio
sangue. Esce dal naso e dalle orecchie e s’ impiastriccia formando una
fanghiglia sul viso.
Non sento piangere, non sento chiamare la mamma.
Forse le mie orecchie non saranno mai più capaci di ascoltare un suono.
Mentre il mio fiato si riempie di pulviscolo, mi accorgo di essere in
ginocchio su uno strato di ciottoli. Forse il mio corpo non sarà mai più capace
di avvertire dolore.
C’è silenzio.
Quella cosa delle sirene che risuonano un secondo dopo la tragedia è una
stupidaggine. Succede solo nei film, dove le bombe al massimo ti spettinano.
Quella cosa delle grida lancinanti che rimbalzano fra le macerie, è una
stupidaggine. Le esplosioni mettono tutti a tacere, si disfano della gente e la
spogliano. Spesso in giro ci sono vestiti e borse e valigie e scarpe, che
qualche volta hanno ancora i piedi nel loro interno. Per gridare serve aria e
qui, adesso, l’aria è stata presa in prestito dalla guerra. Mi accorgo del
cuore vivo nel petto ma è muto, come un film nel televisore rotto. Mi accorgo
del sangue che scorre ancora nelle vene ma è avvelenato, come un fiume alla
fine del suo corso. Mi accorgo che il mio bambino è rimasto ostaggio delle
rovine di quel palazzo.
Ascolto.
Non un pianto, non un lamento: solo silenzio.
Aprire gli occhi, anche per un secondo, è come lasciarsi buttare la
sabbia in faccia da un omino del sonno cattivo.
Mi alzo.
Avevo letto della nebbia, del suo fascino misterioso e del freddo che si
porta appresso. Avevo letto del silenzio nella bruma del mattino, di quella
ricerca della solitudine con la quale gli uomini in pace cercano di combattere
i loro fantasmi. Avevo letto di alcuni che conquistano la cima di un monte per
guadagnare il silenzio e di altri, che si immergono in vasche per la privazione
sensoriale.
Dilettanti.
Avevo letto che il silenzio avvicina a Dio.
Quando la città si prende un ceffone non piange: si ritrae, china la
testa e cerca rifugio nel silenzio.
Quel mattino, da qualche parte, un colonnello con una tazza di caffè
caldo al suo fianco deve avere puntato il dito su una mappa e impartito
l’ordine di sparare, in silenzio. Non ha nemmeno parlato: ha solo picchiettato
con il polpastrello su quell’incrocio di strade e ha fatto capire con uno
sguardo che sarebbe rimasto davanti al monitor per vedere l’effetto che fa.
Muovo qualche passo, vaneggio nel bianco denso che mi circonda e sento il
mio pianto rimanere incastrato in gola. Sono una statua di gesso che cammina.
Vorrei sentire chiamare, urlare o piangere. Vorrei sentire la voce di un
bambino che implora di aiutarlo.
Quel missile ha posato una pietra tombale sulla mia vita. Spingo, graffio
con le unghie, tento di spostarla, ma una cecità che si accompagna al silenzio
mi porta alla lenta, inesorabile rassegnazione.
Ma sono in piedi.
La polvere si posa lentamente e stende l’ennesimo sudario bianco sui
miseri resti di questa città. Posso intuire il palazzo con i piani adagiati
come le orecchie di un cane e quell’altro, che prima aveva solo le finestre
rotte e adesso si genuflette alla guerra arrendendosi senza condizioni.
L’avvolgibile, che era davanti al garage dove si è rifugiato il mio bambino, è
volato dalla parte opposta della strada. È appoggiato sulla porta della bottega
del liutaio e un tubo spezzato lo sta ubriacando di acqua rugginosa.
Il silenzio è rotto.
Concentrandosi è possibile percepire il rumore del ferro sotto il getto.
Nulla a che vedere con il suono dei violini che il caro vecchio liutaio sapeva
costruire tanto bene, ma pur sempre musica.
Il palazzo dove si è rifugiato il mio bambino è ancora intatto. A
guardarlo con attenzione ha forse perso un paio di balconi e un terzo è rimasto
aggrappato alla parete come un alpinista nei pasticci.
L’occhio nero del garage è lì che mi aspetta. Sa di marcio e la corrente
d’aria umida porta fuori odore di morte. Mi avvicino con le pietre sotto le
scarpe che tentano di fasi strada attraverso le suole. Quando finalmente riesco
a guardare dentro, vedo il soffitto pieno di buchi e di cavi elettrici ovunque,
che penzolano come liane.
Gocciola.
Dalla parte opposta si intuisce una crepa che attraversa il muro in
diagonale. Lascia filtrare una lama di luce che disegna sul pavimento qualcosa
che ricorda gli scarabocchi dei bambini.
Quando erano vivi.
Quando andavano a scuola.
Quando correvano per la strada dietro al pallone.
Quello che sento si apparenta con le voci delle amiche, in quelle notti
d’estate che cominciavano tardi e che non faceva mai freddo. Ti chiamavano nel
frastuono della musica alle feste e le voci arrivavano filtrate da un’ovatta
spessa e consistente. Erano i tempi delle farfalle nella pancia, dei baci
rubati, delle notti passate a guardare le stelle e dei cieli dove volavano gli
aeroplani senza bombe e noi, ragazzine, ci divertivamo a indovinare dove
sarebbero andati. Erano i tempi in cui si guardava il mare, senza pensare che
il colore grigio di una nave fosse sinonimo di morte.
Erano i tempi dove la polvere si levava dai mobili, il frastuono metteva
allegria, il tremore era quello che ti prendeva nelle gambe quando il ragazzo
più bello della scuola ti sorrideva. Erano i tempi quando il silenzio si faceva
per rispetto, nei confronti dei morti o verso le persone stanche.
Quello che sento arriva dal buio, freddo e denso nel fondo della sala.
Sono passi, che corrono in una pozzanghera e abili schivano le ferite del
pavimento. Sono echi, sono respiri, sono strutture stanche di esistere che
scricchiolano sotto il peso di un bambino spaventato.
La parola “mamma”, vi giuro, è fra tutte quella più bella da ascoltare.
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