venerdì 19 febbraio 2021

T 62, una storia di guerra.






Il T62 emerse dalle acque limacciose del fiume. 
Quando i mujaheddin lo videro arrivare, ebbero una reazione scomposta. Cominciarono a cadere sotto i colpi della Pulemyot Kalashnikova prima ancora di realizzare che un carro armato sovietico da quaranta tonnellate li stava travolgendo. I proiettili dell'inutile difesa rimbalzavano addosso alla corazza e all’interno si avvertiva quell’effetto di pioggia sul tetto.
La ritirata non ebbe successo, perché un colpo preciso del cannone da 115 divise in due tronconi il pick up, che s'incendiò dopo essere volato in aria per almeno cinque metri. La stessa sorte tocco all’altro fuoristrada, un Lada, che venne ridotto come un colabrodo da una raffica di mitra. I mujaheddin sopravvissuti ripiegarono dietro alla carcassa del mezzo e tentarono una patetica difesa, scagliando un paio di bombe a mano che scavalcarono il tettuccio per andare a sollevare delle inutili torri di polvere proprio davanti al carro.
Il tenente Dimitri Bulgakov, capocarro di quel mezzo indistruttibile che l’equipaggio aveva voluto battezzare con il nome di Furia Assassina, indicò al conducente la strada da seguire, che andava dritta contro il fortino di lamiera improvvisato. I cingoli aggredirono quella carrozzeria con tale violenza che uno dei combattenti rifugiati dalla parte opposta non fece in tempo a levarsi. Vide i suoi compagni correre via ed ebbe modo di rivolgere al suo Dio il principio di una preghiera mentre le gambe si amalgamavano con il metallo accartocciato. Quando il carro fu passato, non si distinguevano più le lamiere schiacciate dalla carne trita e un liquido fatto di olio e sangue scavava il suo corso nella polvere, in discesa verso la sponda del fiume.
«Il binocolo intravide due uomini in fuga e l’ordine fu repentino: «Fuoco!»
Levki, l’addetto alla mitragliatrice, un ragazzo di San Pietroburgo che avrebbe voluto usare i suoi begli occhi chiari per fare innamorare le donne più che per strizzarli all’interno di un mirino, individuò le schiene dei mujaheddin in fuga e, prima che la polvere potesse confonderlo, sparò due raffiche brevi e mirate. La
prima interruppe la corsa di quello più lontano, la seconda spezzò le gambe dell’altro, che finì col rotolare in un cespuglio. 
La marmitta e le armi avevano saturato l’aria di una nebbia bluastra che baciava il polverone sollevato dai cingoli e il fumo degli incendi si spingeva verso il cielo come un monito 
Sembrava che il carro avesse il fiatone, che fumasse e Marat, solitario nel suo vano guida, disegnava traiettorie precise fra gli alberi.
Il periscopio individuò due figure confuse nel paesaggio brullo.
Erano ragazzi. Trascinavano con loro un paio di fucili, forse dei vecchi Lee Enfield inglesi, più per rispettare la consegna di riportarli ai loro capi che per la convinzione che gli sarebbero serviti a qualcosa. Erano riusciti a raggiungere la strada sterrata, che ora scendeva verso il fondo valle disegnando un nastro monotono interrotto da alcune curve a tornante. Attraverso la pietraia che circondava tutto, correvano alla disperata ricerca di un riparo, divenendo via via più piccoli sotto il sole accecante del pomeriggio.
Il tenente Bulgakov ordinò di arrestare il carro in uno spiazzo panoramico: una bella vista sulla strada in discesa e sulla steppa. I due fuggitivi, ormai, erano una nube inconsistente di polvere che stava per conquistare un crinale poco lontano dove infine sarebbe scomparsa. Si sporse in torretta, inquadrò gli obiettivi nel reticolo del binocolo e non esitò. Mormorò un paio di coordinate, ricavate applicando all’esperienza la feroce determinazione nel chiudere la missione, rientrare alla base e godersi il meritato riposo. I numeri, arrivarono alle orecchie del tiratore. Tradusse gli ordini nella corretta inclinazione del cannone. Levkj, senza nemmeno farselo dire, caricò un proiettile a frammentazione da 18 chili, un OF 27 con oltre tremila grammi di esplosivo al suo interno e milleseicento metri al secondo di velocità iniziale. Quando il fumo dello sparo si diradò, in lontananza apparvero due corpi inermi, uno dei quali sembrava essere diviso in diversi monconi fumanti.
«I miei complimenti, tenente!»
Le mandibole del comandante si contrassero in una smorfia. Sputò in terra e si calò nel ventre caldo del carro.
«Complimenti a voi, compagni! Vi proporrò per una licenza. Si torna a casa!»
Un forte applauso tributò la sincera soddisfazione che si aggirava fra gli uomini.
Igor , un ragazzo con due enormi spalle e un torace prominente, lasciò che i suoi occhi scuri si perdessero in un sorriso sincero e sporse la mano al comandante che ricambiò con una stretta vigorosa. Anche Marat si sollevò leggermente dal suo seggiolino per condividere come poteva quel momento particolare.
«Fuori, ragazzi. Una boccata d’aria e una di tabacco. Offro io!»
Il tenente sgattaiolò all’aperto e saltò nella strada. Dalla corazza ancora bagnata gocciolavano in terra le ultime memorie del fiume che li aveva ospitati. Fra i cingoli erano tritate delle piante acquatiche e un cavolo d’acqua era rimasto incastrato nel grigliato di protezione del faro anteriore. Marat, Levki e Igor  seguirono il loro superiore, ognuno con la mano tesa per ricevere il premio promesso. Un pacchetto di Lucky Strike, non si sa come, saltò fuori dal taschino della giacca mimetica e il patto per mantenere quella cosa segreta venne silenziosamente suggellato. In tempi di guerra fredda, fumare delle sigarette prodotte dai fornitori d’armi dei loro nemici sarebbe stato considerato un reato grave, assimilabile allo spionaggio.
L’accendino, uno zippo con la scatola in metallo ramato e un bassorilievo che rappresentava un combattente di Stalingrado nell’atto di lanciare una molotov, fece il giro dei presenti e un aroma di tabacco andò a corrompere l’odore di polvere da sparo e carburante bruciato. Le prime boccate furono accompagnate da un religioso silenzio, poi i cuori si riscaldarono.
«Tenente, non ce l’ha mai detto. Lei ha una donna che l’aspetta a Mosca?»
Sul volto di Bulgakov calò un velo di serietà, quello che di solito gli si incollava sotto il fuoco del nemico. Marat, che aveva fatto la domanda, se ne stava già pentendo. Igor e Levki fecero un passo indietro, isolando simbolicamente l’autore dello sbaglio. Dal pacchetto saltò fuori un’altra bionda, che il comandante mise in bocca senza accendere. Lo sguardo torvo venne indirizzato con la stessa cinica precisione angolare di un pezzo d’artiglieria. Marat deglutì vistosamente.
«Sergente Golubev, lei non solo è un insolente, è anche inopportuno…» Tuonò, un attimo prima di dare fuoco alle polveri.
Il pilota assunse una posizione di attenti, poco credibile con quella cicca in bocca, ma pur sempre formale, rispettosa degli standard pretesi dall’esercito. Il tenente gli fece un giro intorno, si mise a trenta centimetri dalla sua faccia e sbuffò del fumo. La sigaretta cadde dalla bocca, disintegrandosi in un fuoco d’artificio sulla punta dello scarpone. Alle loro spalle, intanto, il motore del carro si stava raffreddando emettendo ticchettii irregolari.
«Tenente, le chiedo scusa fin da ora se sono stato inopportuno…»
Come abitudine contrasse le mascelle in una smorfia e prese a vomitare quel fiume di parole che esondava sempre quando era arrabbiato. Le prime uscirono dalla bocca assieme a un odore di tabacco tostato.
«Non ci sono scuse che tengono, compagno Golubev, quando dalla sua bocca escono quelle stronzate tutte insieme!»
Il sergente tirò su col naso e girò lievemente la testa in direzione del  superiore. La raffica di miserie era appena cominciata.
«No. Nessuna donna mi aspetta a Mosca, e sa perché?»
Scosse la testa.
«Perché io sono di Kursk. Seicento chilometri a sud della capitale. Una gloriosa città dove l’Armata Rossa lottò e vinse contro i crucchi invasori. Lei lo sa, vero sergente?»
Annuì, mentre gli altri membri dell’equipaggio guardavano in terra imbarazzati. Un filo di fumo superstite uscì dal cannone mentre in cielo una coppia di grifoni volava in cerchio, in attesa di attaccare le carni morte che la guerra metteva a disposizione senza lesinare.
«Kursk, una meravigliosa città, con quattrocentomila abitanti, la metà dei quali donne, tutte innamorate del tenente Bulgakov e pronte a mettersi a sua totale disposizione.»
Una risata si strozzò in gola ai due colleghi e sulle labbra severe del comandante cominciò a delinearsi un ghigno soddisfatto.
«Ho capito, tenente…Allora, quando verrò a Kursk, ci sarà qualche bella bionda anche per me?»
«Qualche bruna, Golubev. Le bionde le voglio tutte io.» Sottolineando il concetto con tre robusti pugni sul petto.
Il ventre del soldato cominciò a scuotersi in numerosi singulti, mentre una fila di denti bianchi fece la sua apparizione dietro le labbra. Una sonora risata esplose e riecheggiò fra le vicine montagne, fino alla grande pianura polverosa che si stendeva a perdita d’occhio. Si abbracciarono e il tenente dispensò un paio di generose pacche sulle spalle al suo sottoposto che quasi pianse dalla gioia. Si unirono Igor e Levkiy e il suggello a quella loro amicizia, vissuta fra le lastre roventi di un carro armato si consolidò, quel giorno e per sempre.
Kursk, con le sue duecentomila donne, bionde, brune, rosse o castane, li aspettava tutti, giovani allegri e affamati di vita da vivere, lontano da quelle brandine pulciose, da quelle nuche rapate e da quell’odore perenne di sudore e di morte. Avrebbero mangiato, bevuto e fatto l’amore. Gliele avrebbe presentate il tenente, che si sarebbe congedato con il grado di capitano, una generosa buonuscita in rubli e un’agenda ricca di numeri telefonici.
Lontano, un cespuglio si mosse.



Accanto al cadavere maciullato del mujaheddin, quell’altro, che cadavere evidentemente non era, prese ad allontanarsi zoppicando. Marat, che stava godendo dell’abbraccio dei commilitoni, vide la scena svolgersi nella canicola del pomeriggio.
Avrebbe voluto tacere e godersi l’attimo. Avrebbe voluto tirare un bel respiro e concentrarsi sulle donne lascive della città di Kursk o al limite sulla foto della ragazza nuda appiccicata da anni sulla consolle dei comandi. Avrebbe voluto fare finta di nulla.
Ma loro la dovevano attraversare quella valle, e avrebbero dovuto farlo da soli, chiusi nel ventre ferroso e angusto di un T62. Un guscio protettivo completamente indifeso contro un singolo uomo equipaggiato con un’arma anticarro spalleggiabile e con il favore delle tenebre, che presto sarebbero scese a uniformare il paesaggio. Quel sopravvissuto stava correndo, ora, incontro ai suoi compagni, con un pacchetto di coordinate geografiche da portare loro in dono: la posizione del carro.
«Laggiù, sta fuggendo!»
Come falchi i loro sguardi conversero tutti e contemporaneamente su quel punto, dove delle pietre rotolanti testimoniavano che qualcuno era sgommato via.
Al primo tentativo il motore si accese, diffondendo nell’aria odore di gasolio. In breve, tutti i posti di combattimento furono assunti. La croce ortodossa in legno di tek, appesa con un cordino al soffitto della torretta proprio accanto alla foto della ragazza senza veli, prese a dondolare mentre i cingoli, come macine, sgretolavano i sassi sulla loro strada. Fumo, rumore e polvere. Forza bruta scaricata sulla terra incolpevole.
«Scendiamo dalla scarpata!» Furono le direttive mentre il fuggiasco aveva già superato il crinale, scomparendo. Il T62 si bilanciò ruotando il cannone sul retro, si inclinò paurosamente e si comportò come una slitta, scivolando per un lungo tratto in pendenza in un trionfo di fracasso e polvere.
Il ragazzo, perché era un ragazzo anche lui, con sedici primavere sulle spalle e  molti anni di guerra stampati a fuoco negli occhi, avvertì quel rumore di sassi, come una frana che scendeva dalla montagna per inghiottirlo. Fingersi morto non era servito a nulla. Il rimorso, per avere avuto paura e non essere stato sdraiato in terra insieme alla nuvola di mosche che si era formata intorno a lui, lo colse come un crampo allo stomaco. Il ginocchio era ferito e doleva. Una scheggia dell’esplosione, quella che aveva diviso in tanti pezzi sanguinolenti il suo compagno, l’aveva sfiorato appena, quanto era bastato per disegnare un largo sorriso rosso e lucido proprio sotto la rotula. I pantaloni strappati avevano un lembo che pendeva sotto lo squarcio. Ora sembrava che la ferita stesse facendo la lingua. Il fucile pesava. Avrebbe voluto abbandonarlo ma il perdono dei suoi superiori, lo sapeva, non sarebbe arrivato facilmente. Lo trascinò con sé, strattonando più volte la cinghia di cuoio che si agganciava a ogni arbusto, a qualsiasi ostacolo della terra. Un dolore sordo, quello che era germinato insieme all’esplosione, stava crescendo come una pianta infestante, con le sue propaggini che  aggredivano l’inguine e la parte sinistra del ventre. Il rumore di ferraglia, intanto, stava assumendo un volume insopportabile. Si girò, vide una nuvola di fumo e al suo centro il diavolo. La punta del cannone spuntò per un attimo e poi scomparve. Ora si potevano distinguere i cingoli, le taniche appese ai lati e quel rumore di morte.
Corse per molti metri. 
Dinanzi a lui la pianura, immensa.
Il calore alterava il paesaggio e alle sue spalle quei cigolii come lame nei timpani. Presto i sovietici avrebbero superato il rilievo e allora lui sarebbe diventato un tiro a segno, qualcosa da abbattere, magari dopo che una bella scommessa fosse stata giocata: 20 rubli al terzo colpo, 40 al secondo e cento, udite udite, cento rubli al primo!
Ora anche la gamba sana cominciava a fare male.
Tutto il peso del corpo e la responsabilità della sua vita erano caricate su quell’arto. La caviglia ballava malamente all’interno della scarpa, una calzatura da montagna recuperata dal cadavere di un soldato russo, quindici centimetri più alto di lui,  due numeri di scarpa di troppo e un grosso buco nel centro del petto. La calza al piede della gamba ferita si era impregnata di sangue e adesso sembrava di camminare dentro una pozzanghera. Si riparò dietro un masso, poi un cespuglio gli venne in aiuto. Sentì le vibrazioni prima ancora del rumore. Il T62 stava arrivando e presto l’avrebbe inquadrato nel mirino. 
Boom!
Bevve alla borraccia l’illusione di un liquido: era asciutta come il deserto.
Un terremoto. Quelle vibrazioni si stavano trasformando in un terremoto!
La macchina infernale aveva cambiato marcia, scaricando nell’aria una dose supplementare di fumo velenoso. Il comandante sulla torretta scrutava l’orizzonte col binocolo, ondeggiando come una bambola morta in balia delle onde del mare.
Solo che lui non l’aveva mai visto il mare.
Corse, o forse rimbalzò come un canguro.
Era protetto da un rilievo del terreno che nascondeva al facile tiro la sua sagoma. Ma era una battaglia impari: una gamba e mezza contro seicento cavalli. Lui li sentiva scalpitare sotto quell’acciaio, rallentati solo dal paesaggio lunare e da pietre ovunque, da schiacciare, da travolgere, da scansare.
L’arrivo del mostro fu anticipato dal crollo di un  albero trasformato in tanti piccoli trucioli.
Ruggiva.
Sentiva il suo respiro affannoso e quella tosse infernale. Fu investito come da un alito caldo, e cadde.

«Vai dritto, Marat! Tieni una traiettoria diritta!»
Il capocarro si calò nel guscio, senza chiudere lo sportello sulla sua testa, azionò il piccolo periscopio per un paio di scansioni: solo segnali vaghi e nessuna traccia termica all’orizzonte.
L’avevano perso.
Il carro aveva disegnato una lunga diagonale attraverso la steppa, seppellendo arbusti, piccoli sassi e insetti. Aveva aperto uno squarcio nel fondovalle che ancora fumava negli ultimi bagliori del sole, una palla rossa e rassegnata a nascondersi dietro i crinali.
Anche lui, non voleva essere testimone di quanto stava per accadere.

Il fornelletto a gas stava riscaldando una zuppa, con la fiamma schermata e 40 tonnellate di acciaio a protezione dei commensali. Il crepuscolo si stava accomodando nella pianura, accompagnato da un vento freddo e carico di cattivi presagi. Confusa, la radio di bordo gracchiava ordini incoerenti.
«Cosa dicono al comando tenente?» Domandò Levki, carico della stanchezza di mesi e ormai rassegnato a perdere la sospirata licenza. Igor stava mangiando del tonno in scatola, qualcosa che doveva essere stato pescato da Cristoforo Colombo. Marat era seduto in terra, la schiena contro i cingoli e una sigaretta russa spenta, diventata fra le sue mani un esercizio da giocoliere. Bulgakov fissò il rosso dell’orizzonte e sputò in terra.
«Rientriamo con il buio, lenti e silenziosi. Per quanto può essere silenzioso questo affare. Facciamo il giro lungo, passando lontano dalle montagne. Scanner termico e infrarossi. Daremo fuoco a tutto quello che si muove…»
«Merda!» Imprecò, Marat, scalciando una pietra addosso a un formicaio. Il casco da carrista, in tessuto verde oliva, era indossato storto e slacciato sul mento, con i fili delle cuffie che pendevano ineleganti. La giacca della mimetica aperta sulla maglietta sudata faceva il resto.
Levki andò a rimescolare la minestra che esalò un odore poco simpatico di cavolo e Igor fece l'ennesimo giro intorno al mezzo. Prese il binocolo e guardò lontano quella che sembrava essere la sagoma di un carro amico, fermo e abbandonato a se stesso. Sapeva a quale spettacolo avrebbe assistito, ma volle farsi del male.
Sprofondato nella sabbia e arrugginito, aveva il cannone rivolto verso il basso, arreso a un’impotenza piuttosto esplicita. Il portello della torretta era aperto e un piccolo buco nella fiancata si apriva sulla pianura. Una cosa strana, pensò, intanto perché intorno al foro non si era formata quella classica bruciatura, e poi aveva dei contorni stranamente frastagliati. Uno dei due cingoli era abbandonato in terra come una serpe morta, senza che tuttavia si intravedesse quel classico squarcio nello scafo.
Un’ondata di tristezza lo invase.
Il carro, evidentemente, era stato fermato da una mina e qualcuno, approfittando della sua immobilità, lo aveva finito con un colpo ben assestato, forse un RPG sottratto a loro stessi, forse un lanciarazzi venduto dagli americani. L’immagine dei commilitoni, bruciati vivi da quella lama di metallo, fuso da una carica cava in quaranta milionesimi di secondo, lo mise nelle condizioni di perdere quel poco di appetito che si era lentamente insinuato, sgomitando con i postumi di quella giornata storta. Il passaggio di Levki con in mano una scodella fumante non gli fece cambiare idea e continuò la sua esplorazione. Pochi metri a ovest c'era un soldato morto accanto al suo fucile. Doveva essere uscito alla disperata ricerca della sua salvezza. Del corpo, per la verità, rimaneva ben poco, fatto salvo quella divisa sgonfia, scolorita e tristemente abbandonata sulle ossa asciutte. Non era bruciata, forse perché il poveretto era riuscito a fuggire prima che il razzo anticarro impattasse la corazza. Il suo destino, evidentemente, era già stato scritto. La testa, probabilmente colpita da una raffica di mitra, si era staccata dal collo ed era rotolata di qualche metro oltre. Sembrava prendesse beatamente il sole, con il teschio rivolto a mezzogiorno e il casco imbottito ancora legato sotto il mento. Nell’orizzonte tremulo alterato dal caldo, gli sembrò per un attimo di intravedere un fantasma stanco ed evanescente che si allontanava dal carro. La figura, in breve, scomparve come un miraggio.
Recitò mentalmente una preghiera per i compagni caduti, abbassò il binocolo e andò incontro alla sua cena.





Glielo aveva detto Asil, “se sei nella merda, buttati dentro qualche tana e aspetta…”
Non era proprio andata così.
Nella tana ci era caduto, procurandosi un’abrasione sulla gamba sana e una nuova ferita al gomito.
Non sapeva a quale animale appartenesse quel buco, e nemmeno gli interessava di arricchire la sua conoscenza. Doveva solo aspettare il buio, quello vero, quello che sarebbe arrivato solo dopo che la luna si fosse congedata da quella notte. La ferita non sanguinava più, piena com’era di terra e residui dei suoi stessi pantaloni e lui non si preoccupava; al villaggio l’avrebbero lavata e disinfettata.
Quando il carro gli era passato sopra, le pareti di quel buco avevano preso a franare, coprendogli i piedi di terriccio sottile e penetrante. Aveva temuto di essere sepolto vivo dal peso di quel bestione ma gli animali della steppa sapevano il fatto loro e l’avevano dimostrato.
Fuori ancora un po’ di luce e il residuo di un giorno che aveva visto i suoi amici volare in cielo: Yasir, Azhar, Admil, Muhtady, Samir, Labeeb e Kalidh. Tutti in paradiso a godersi la frescura, i pasti luculliani e le vergini. Quante erano le vergini per i martiri? Non se ne ricordava più. Le lezioni sul Corano erano solo un confuso ricordo frammisto al dolore. Del suo capo feroce, invece, se ne rammentava bene: sempre ad abbaiare ordini, a pretendere il massimo da tutti mentre lui rifugiava al villaggio a godersi le mogli. Era per quel motivo che si trascinava dietro quel fucile, e anzi, se quello di Admil non si fosse disintegrato assieme alle sue ossa, glielo avrebbe portato indietro, magari ripulito e lubrificato con uno sputo.
Non c’era più tempo.
Doveva uscire, trascinare le ferite attraverso la notte e avvertire al villaggio che la missione era fallita e che forse sarebbe stato bene prendere con sé le capre e le donne e allontanarsi, prima che i MIL 24 fossero arrivati con la loro pioggia di morte, fuoco e fosforo bianco. Quei maledetti avevano la radio, lui solo una gamba sana e la voglia di farcela.
Spinse con tutta la forza che aveva, uscì e si rimise in cammino vestito di buio.
Portò la mano all’articolazione e un bruciore intenso fu la risposta.
Si era procurato un bastone per aiutarsi a camminare ma la cinghia del fucile gli stava segando la spalla e la febbre saliva. Ombre prendevano forma tutto attorno a lui: mostri, belve feroci e fantasmi. La terra sotto i  piedi sembrava smottare a ogni passo e la via da seguire era incerta, come le stelle nel cielo che si mischiavano alla stanchezza degli occhi. L’aria fredda, insieme al dolore, lo stava rallentando.
Il villaggio doveva essere dietro a quel dosso: un’altura che lui credeva di vedere sotto la luce fioca del firmamento. La sua casa scavata nel calcare, appena chiusa con una porta in ferro adattata al buco incerto che faceva da entrata, era il massimo che in quel momento poteva augurarsi. Suo padre sarebbe stato comprensivo. Un materasso buttato in terra, prima, e quella minestra a scaldare sul fuoco, poi, sarebbero stati l’anticamera del paradiso.
I colpi delle esplosioni riecheggiavano ancora nelle sue orecchie e non avrebbe dimenticato facilmente i lampi che avevano falciato i suoi compagni di guerra. Se chiudeva gli occhi, se solo provava a rilassarsi, ricomparivano assieme all’odore acre dell’esplosivo.
Un chilometro, forse due.
Era la strada da fare prima di sentire l’acqua fresca scorrere sulla sua ferita e la carezza rassicurante di sua madre. Al suo rientro al villaggio tutti avrebbero chiesto notizie di quegli altri e lui avrebbe abbassato il capo in segno di lutto e preghiera.
Non avrebbe parlato dei particolari.
Nessuno tritato dai cingoli, nessuno falciato da una raffica, nessuno saltato in aria a cinque metri da lui in una nube di polvere e sangue. Solo una battaglia epica, con un carro armato in difficoltà che si era difeso con ogni arma a sua disposizione. Nessuna storia di imboscate, mostri d’acciaio che emergono dalle acque e pick up saltati in aria come tappi di bottiglia. Una vile superiorità numerica e basta, che si era concretizzata con l’arrivo di un primo e poi di un secondo rinforzo. I compagni avevano resistito, sì, ma alla fine la prepotenza delle armi del nemico aveva avuto la meglio.
Un chilometro, forse due.
Il piede strascicava nella sabbia e raccoglieva erba morta, infilata nei lacci degli scarponi e intorno alle caviglie. Le pietre sporgevano come tante lame. Portò la mano al volto e avvertì un odore di sudore acido ed un alito corrotto dalla sete. La febbre aveva gonfiato gli occhi, ora ridotti a fessure roventi.
Un chilometro, forse due.
Ce l’avrebbe fatta.
Solo se stremato a terra, impotente e in preda al delirio, avrebbe invocato l’intervento di Allah.
Il piede ferito cozzò contro un dosso e lui cadde, portandosi istintivamente la mano al ginocchio malato. Il dolore intenso scemò lentamente, fino a che un sonno pesante chiese di sostituirlo.
Poteva dormire, qualcuno sarebbe venuto a cercare superstiti, a cercare lui.
Un principio di incoscienza lo colse di sorpresa e lo trascinò in un’alcova calda e rassicurante, inondata da una luce azzurra intensa. Il respiro si fece calmo e delle voci suadenti iniziarono a cantare nella sua mente.
Si lasciò andare, ma solo per poco.
A qualche metro da lui, nel buio più severo, il motore del carro armato si accese.

Non riuscì subito a individuare l’esatta posizione del rumore, ingannato dal vento e dalla stanchezza.
Quando si accorse che il mostro era a meno di dieci metri da lui, impugnò istintivamente il fucile e mirò quella massa scura appena delineata nella notte. Come se si fosse trattato di un buco nero nello spazio, intravide contorni confusi, che sembravano respirare al ritmo di quel mormorio.
Una prima accelerazione venne percepita come il ruggito di una belva, e lui sparò il primo e il secondo dei dieci inutili colpi che aveva a disposizione. Due scintille colorate disegnarono i loro motivi sulla corazza e la belva sembrò inferocirsi. Con uno scatto guadagnò la metà della distanza che la separava da lui e altri tre colpi andarono a infrangersi contro la severità dell’acciaio. Ancora mezzo giro di cingoli e il carro gli fu addosso.
Si fermò come per annusarlo e fece percepire il suo respiro pesante assieme a quelle vibrazioni simili alle fusa di una tigre.
Cadde in terra e le lacrime riempirono il volto.
Dallo stomaco e dal cuore un urlo proruppe con forza, attraversando ventiquattro centimetri di metallo:
«Maledetti, vigliacchi maledetti! Uccidetemi!»

«Cosa ha detto?»
Domandò Bulgakov, che vedeva quella figura disperarsi nel suo personale teatrino in campo verde. Gli occhi risultavano come due fari nel visore notturno e le lacrime brillavano come ghiaccio.
Levki, stanco e provato da quella lunga attesa, deglutì, prese coraggio e si rivolse al comandante limando via un po’ del rispetto che gli era dovuto.
«Credo ci stia implorando…»
Igor annuì, rettificando appena quell’interpretazione.
«Vuole che lo uccidiamo, che la facciamo finita…»
Marat nel suo buco, con il piede sul pedale, tremava. Era pronto a cancellare il ricordo di quel ragazzo dalla sua memoria. Si rischiarò la voce e disse la sua.
«Mettiamolo sotto e facciamola finita…»
Il ragazzo fuori era in ginocchio, con lo sguardo rivolto al suolo e il fucile usato come stampella. La raffigurazione stessa della disperazione. I singhiozzi scuotevano il suo corpo e il pianto stava arrivando dentro all’abitacolo come una triste ninna nanna.
«Lasciamolo andare, comandante, è ferito. Racconterà al suo villaggio cosa capita ad affrontare un T62. Porterà la paura fra la sua gente.» Soggiunse Igor, senza illudersi di vedere accolta la sua proposta. A quel punto il tenente decise.
«Mi piace la cosa, caporale, lo lasciamo andare…» Un sollievo generale si diffuse fra l’equipaggio. «Prima, però si deve guadagnare la pagnotta…»
Marat strinse le leve, senza badare di lavare via quell’apatia dagli occhi. Levki tolse il dito dal grilletto della mitragliatrice carezzando il ponticello. Il sergente alla guida chiese lumi. «E come se la guadagnerà la pagnotta?»

Il carro gli mosse incontro, sollecitando il suo istinto di fuggire, di mettere in salvo la vita.
La sua reazione, lenta e svogliata, fu sollecitata dal faro, improvvisamente accesso e puntato nella sua direzione. Quando fu abbastanza vicino dal travolgerlo, il carro si fermò e attese che guadagnasse qualche metro.
Senza sapere perché, il ragazzo si mise in cammino, con quell’angelo custode da quaranta tonnellate che lo seguiva e gli illuminava la strada. Davanti a lui comparvero arbusti, pietre, distese di sabbia e rivoli asciutti, tane di animali e carcasse. Passarono accanto a un carro distrutto: il fratello gemello di quello che lo stava torturando. La lunghezza costante della sua ombra denotava che i sovietici stavano facendo attenzione a seguire il suo passo, ora veloce, ora inesorabilmente lento. Ancora dolore, bruciore che si era impossessato delle membra e quella febbre a suonare il tamburo nella sua testa. Una preghiera disarticolata e carente veniva recitata nella sua mente mentre le scarpe strisciavano nella sabbia e il sangue era tornato a sgorgare. Il rumore dei cingoli che stritolavano la vegetazione era diventato un incubo e il motore ruggiva come una belva affamata.
La steppa incontrò una strada sterrata, che lui assecondò. Il rumore dei cingoli, fino a poco prima irregolare e nervoso, divenne un tamburellare costante. La sua ombra cominciò a presentarsi netta e ben definita, proiettata com’era sulla superficie piana della strada.
Dolore, stanchezza e confusione.
Per un attimo ebbe la sensazione di avere la schiena sudata sfiorata dall’acciaio.
Ora la luce bruciava nei suoi occhi.
Si fermò, esausto.
Socchiudendo le palpebre si girò nuovamente in direzione del carro.
Era immobile insieme a lui, e respirava.

«La finiamo qui?» Domandò Marat.
Il tenente aveva lo straccio di un uomo inquadrato nel visore notturno, una giovane vita messa a dura prova dalla crudeltà della guerra. Avrebbe voluto ordinare di finirlo, ma i patti erano diversi. Passò la mano nella barba rasposa senza mai perdere d’occhio il giocattolo di quella notte. Pensò che forse, quattro passi gli avrebbero fatto bene.
La luce dei suoi occhi si spense e l’ordine arrivò chiaro. «È una bella serata, facciamo ancora un giro tutti insieme…»
Un brontolio sommesso accompagnò delle mani portate al volto, un dito contratto nervoso sul grilletto e un piede poco disposto a premere ancora sul pedale. Vi fu un principio di ammutinamento e Igor se ne fece portavoce.
«Allora spariamogli e non se ne parla più, compagno comandante…»
La protesta non fu accolta. Si girò verso il basso. «Sergente, andiamo!»
Il carro si mosse con uno scatto, appena un paio di metri in avanti. Il ragazzo sussultò, risvegliandosi da quel torpore di morte che lo aveva accompagnato in quei secondi. Poi la frenata, con un latrato a un passo da lui.
Faticosamente si rialzò e ricominciò quel triste rosario.
«Dieci metri, diamogli dieci metri…Ah, lasciamolo al buio…»
Il faro si spense. Ora c’era un fantasma claudicante, inquadrato nel reticolo del visore a infrarossi. Dopo qualche metro la gamba cedette e il ragazzo crollò in terra, esausto. Mangiò un po’ di sabbia, quindi spinse con le braccia per tirarsi su.
Gli occhi azzurri di Levki si riempirono di rabbia. Mollò la presa sull’arma e gridò con tutto il fiato che aveva in gola. «Tenente, questo è disumano! O lo ammazziamo o lo lasciamo andare!»
Bulgakov, che si era reso conto di avere dato il fondo alla sua pietà, allargò le braccia, accennò un sorriso storto e scosse lentamente la testa.
«Va bene, mi avete commosso, signorine! Lasciamolo andare, che se ne torni in mezzo ai beduini! Quanto a te, Levki, ne riparliamo al campo, da uomini, e non da soldati…» Ringhiò, stringendo il pugno e facendo intendere che la disputa sarebbe stata regolata senza applicare i protocolli. Igor si sentì di intervenire. «Tenente, siamo tutti stanchi. Giriamo la carretta e torniamo alla base a farci una vodka…La prego, tenente…»
Qualcosa si ruppe. I lineamenti del volto si distesero, diffondendo una nuova atmosfera, più rilassata. Gli occhi celesti del mitragliere tornarono a brillare, Igor strinse la mandibola in una morsa per ricacciare un sorriso, il piede del pilota si sollevò dal pedale. Sembrava che un aroma di alcol si stesse diffondendo nell’aria assieme ad un rinnovato entusiasmo. Avevano vinto, in fondo, e ora dovevano solo portare a casa la pelle e quel mucchio di ferraglia, e poi tutti a Kursk, a conoscere le duecentomila meravigliose donne di quella città, quando, improvvisamente, una fucilata squarciò la notte.

Si era sparato. 
Il ragazzo si era sparato, spinto da una disperazione masticata a lungo nelle fauci della febbre e della stanchezza.
Il colpo di fucile fece trasalire il tenente, che privo di casco andò a sbattere una zuccata contro il soffitto. Nessuno si aspettava quell’epilogo, nessuno lo aveva veramente voluto, dopotutto.
Il corpo esanime giaceva nella strada e un rivolo di sangue irrigava la terra, dal buco nel collo fino alla piccola pozzanghera che si andava formando. Ora sembrava solo un mucchio di stracci dimenticati. Il fucile, che fumava ancora, era rivolto verso il carro, con il dito rimasto incastrato nel grilletto. Il comandante distolse lo sguardo del visore notturno e intimò al sergente di interrompere quello che stava facendo. «Fermo Golubev, che nessuno metta la testa fuori da qui!» Ordinò, e la mano del sergente mollò la presa sulla leva di sgancio del portello. «Se qualcuno lo ha ammazzato, sta solo aspettando di vedere spuntare un paio di corna russe. Cerchiamo di non fare la fine degli idioti!»
Il sergente si vergognò appena un poco. Del resto era ovvio che il ragazzo si era suicidato. Ma il tenente, che era sopravvissuto fino a quel giorno senza che  il carro fosse mai colpito per davvero, usava la prudenza che occorreva in guerra. Prima ancora che potessero pensare, un nuovo ordine fu impartito:
«Un giro della torretta, quindici secondi. Esploriamo tutto intorno.»
Il motore elettrico azionò il meccanismo di rotazione e il paesaggio nel visore notturno cominciò a cambiare come se fosse visto dal cavallo di una giostra.
Ciuffi di erba rinsecchiti si piegavano lievi al vento. Sullo sfondo le creste delle montagne, tutto in salsa verde. Grossi massi, alberi solitari e cespugli punteggiavano la monotonia del fondovalle. Un rilievo naturale a forma di seno e poi di nuovo la strada, in leggero rilevato rispetto alla campagna circostante.
Centottanta gradi e nessun segno di vita.
Lontano un pick up distrutto, già conquistato dalla vegetazione che ne avvolgeva interamente il cassone e un cratere nella terra. Vicino, pietre sparse e un albero adagiato al suolo. Una folata di vento un po’ più forte agitò la polvere. Il giro d’orizzonte raggiunse i 270 gradi, quando, improvvisamente, qualcosa di velocissimo attraversò l’inquadratura, qualcosa di lungo, mellifluo e scivoloso. Il comandante arrestò la rotazione della torretta e spostò la testa dall’oculare, abbagliato da quell’apparizione improvvisa. Il nervosismo fra l’equipaggio si diffuse con la velocità di un lampo.
«Cos'ha visto, tenente!» Chiese Levkij, molto preoccupato e pronto a fare un giro col periscopio in dotazione. Bulgakov lo fermò, mettendogli una mano sulla spalla. In uno spazio tanto stretto, con i nervi tesi al limite della sopportazione, anche un piccolo contatto poteva esasperare gli animi. Il caricatore mantenne la calma.
«Stai buono. Un uccello. Mi è passato davanti un cazzo di uccello...»
«Cosa ha detto?»
«Un uccello. Capisci il concetto di uccello? Nessun cazzo di beduino la fuori, nessun lanciarazzi e nemmeno qualcuno che ti salta fuori da un buco con una bomba da dieci chili. Quindi vediamo di darci una calmata!»
«Va bene, tenente. Ma adesso andiamo via. Non abbiamo neanche le griglie di protezione su questa tomba.» Soggiunse Marat e la sua voce si mise a tremare sul finire della frase. Bulgakov gli riservò un insulto che suonò chiaro e forte nell’interfono..
«Non è una tomba, altrimenti noi saremmo morti. Se non ci hanno montato le griglie è perché questo è il T62 è furia assassina, perché c’è scritto furia assassina sul cannone. Lo sai leggere il cirillico sergente?» Annuì. «Quindi, se noi ci facessimo colpire dai beduini, sul carro ci sarebbe scritto checche del cazzo, e non furia assassina! Mi sembra chiaro, no?»
Il nervosismo generale stava aumentando e la torretta riprese a girare con l’intenzione di ritornare nel punto esatto dal quale si era dato inizio all’esplorazione. Ancora campagna desolata e brulla, una casa abbandonata, ormai ridotta a un mucchio di cocci e un bidone arrugginito, forse lontano duecento metri. Dopo poco comparve il rilevato della strada e la carreggiata, nello stesso punto da cui era cominciato il giro di giostra.
Il cadavere del ragazzo non c’era più.

«Fuoco!»
L’ordine arrivò in modo repentino e venne interpretato nella maniera letterale.
Il lanciafiamme con centro metri di raggio venne azionato e ruotò velocemente assieme alla torretta, generando in un attimo un cerchio infernale tutto intorno. Immediatamente l’erba si incendiò assieme agli arbusti e la zona si illuminò a giorno. Un colpo di cannone centrò in pieno il rudere, sollevando in aria centinaia di sassi, un altro disintegrò lo scheletro marcio del bidone rilevato agli infrarossi. Levki salì in torretta e la mitragliatrice cominciò a cantare, riversando in un frastuono migliaia di proiettili e fulmini verso un nemico invisibile. Il motore si accese subito e i seicento cavalli cominciarono a scalpitare. Il carro scelse di buttarsi a sinistra, abbandonando la strada e sperando di avere lasciato il nemico dall’altra parte del rilevato. Una nuvola di polvere vanificò la luce delle fiamme e il ruggito riecheggiò fino alle montagne. Il cannone continuò a sparare e il meccanismo di espulsione vomitò all’esterno i bossoli roventi. La strada saltò in aria, in un primo e in un secondo punto. Un proiettile attraversò un cespuglio polverizzandolo e finendo la sua corsa in un lampo lontano. In breve furono fuori dal cerchio di fuoco, verso una direzione non meglio precisata. Nella sua lucida follia, il carro travolse un gruppo di piccoli alberi, attraversò un torrente in secca ai sessanta all’ora e si allontanò dalla zona del suicidio, quanto bastava per mettersi al sicuro da un’imboscata.
Un piccolo montarozzo di terra divenne il suo riparo.
«Com'è possibile?» Chiese Igor, con la voce rotta dalla paura. Il comandante mise in bocca una sigaretta spenta e non rispose. Marat, solo nel suo vano e quasi sdraiato, stava passando in rassegna le numerose spie rosse accese, mentre Igor alla radio comunicava alla base l’attacco fallito nei loro confronti. Il motore diesel si era calmato e sembrava un grosso gattone pronto a fare la nanna.
Nel modulo di combattimento, i tre erano esausti e ascoltavano con indifferenza la radio, dove una voce con l’accento di Pietroburgo intimava di rientrare alla base, e di farlo presto, quando, improvvisamente, qualcuno picchiò sulla corazza.



Il capitano Vladislav Vasilyev, alla guida di una colonna di carri in ritirata (i comandanti l’avevano chiamata fase di uscita ma in quell’autunno del 1988, gli oltre quattordicimila morti fra le file dei sovietici e forse i due milioni fra gli afghani, erano diventati gli ambasciatori di pace più convincenti), vide col binocolo il relitto di un carro T62, esattamente come quello che stava comandando. Era abbandonato dietro un rilievo di terra senza che apparentemente avesse subito alcun grave colpo. Aveva solo un piccolo foro nella parte laterale della torretta, nulla che facesse ricordare gli effetti delle armi anticarro. Il portello era ancora aperto, appena appoggiato sulla sua guarnizione e l’antenna spezzata penzolava sfiorando il suolo. Poco più in là, nella sabbia e confusi nella vegetazione bassa, c'erano un paio di cadaveri, vestiti in divisa da combattimento e riversi con il volto nel terreno. Il secondo, quello più lontano, aveva la testa staccata dal collo di un paio di metri appena e girata verso le montagne.
Senza indugiare diede l’ordine di arrestare la marcia e la sua decisione ebbe effetto su gli altri undici mezzi incolonnati. Una serie di teste nervose si scossero e alla radio cominciarono a susseguirsi domande su domande.
Scese e percorse la colonna a ritroso.
Mentre veniva guardato male dalla maggior parte dei colleghi, il sergente Ivan Kuznetsov, un ragazzo di Ekaterinburg con un paio di curatissimi baffi biondi e un’aria nobile, gli si avvicinò sorridendo. Porse il saluto militare e tese la mano. Si fermarono a un metro l’uno dall’altro, spostandosi un poco al lato per non respirare i fumi di scarico.
«Da quando, sergente, questo paese abbandona i suoi morti a marcire nella steppa e lascia le armi a disposizione del nemico?»
Kuznetsov attraversò la strada, passando fra il muso e il retro del quarto e quinto carro. Il capitano lo seguì ed entrambi si meritarono alcune maledizioni mormorate nei dialetti più svariati. Insieme guardarono quella scena di morte e distruzione.
«Non è stato il nemico. E’ stato un demone…» disse fissando quel punto lontano e riunendo le mani dietro la schiena
Il capitano, sentita quella spiegazione, si mise sull’attenti e piegò la testa in modo buffo. Negli occhi del suo interlocutore solo un misto di serietà e serenità. Strinse le labbra e colpì il terreno con il tacco, sollevando un piccolo sbuffo di polvere. Non parlò, ma era chiaro che si aspettava una spiegazione meno assurda. Il giovane sottoufficiale andò avanti.
«È un essere antico, abita queste terre dalla notte dei tempi. Lui si sveglia e…»
«Sergente, cosa cazzò sta dicendo?»
«…Lui si sveglia quando c’è troppa sofferenza, e uccide…»
Il capitano si girò verso la campagna per impedire ai sottoposti di leggere la rabbia disegnata sul suo volto. Una nuvola azzurra di gas, intanto, si stava formando tutto intorno.
«E questo chi glielo ha detto?»
«Entra nei carri facendo un buco nella corazza, poi si concretizza all’interno, mostruoso» fece segno con le mani, mimando qualcosa di enorme e putrido e orribile. «Chi l’ha visto, ed è sopravvissuto, non ha mai più riacquistato la pace. È diventato pazzo, praticamente.» Spiegò, senza timore di essere punito.
Il comandante indietreggiò. Seccato, porse un saluto formale e ritornò al comando della sua colonna prima che il nemico fosse tentato di colpire quei mezzi immobili.
Con un lamento da animali da soma, i carri si rimisero in marcia.

Quella notte di qualche anno prima, dopo che sentì bussare sulla corazza, l’equipaggio del T62 fu preso da un panico innaturale, da un terrore che prese a sgorgare dal profondo dell'anima.
Come un missile anticarro, una forza misteriosa penetrò l'acciaio, fondendo letteralmente lo scafo, e qualcosa di freddo e pauroso vi entrò. Nessuno potette descriverlo, perché il mostro si materializzò nell’abitacolo invadendone ogni anfratto, ruggendo e puzzando orrendamente. Marat, il conducente, sentite le grida dei suoi compagni, uscì di corsa dal suo alloggiamento e morì all’aperto, dopo solo pochi passi e con la testa staccata dal collo da un tentacolo misterioso. Anche Bulgakov, il comandante, tentò una fuga disperata ma non andò molto più lontano del compagno d'armi. Igor, semplicemente, morì di paura, con il cuore spaccato da una tensione più forte di un colpo di cannone e Levki rimase dentro, soffocato da quell’odore penetrante, da quelle grida inumane e completamente subdolo di quella creatura infernale.

Ora il demone se ne è andato, forse, ma non ha più manifestato la sua rabbia con chicchessia, o almeno non è alcuna arrivata notizia in tal senso.
Dicono le leggende del posto che, quando attacca qualcuno, spesso si ferma a fare compagnia all’ultimo sopravvissuto, incorporandosi con lui e nutrendolo. Questo succede ovunque, in casa, in prigione o in un carro armato.
Quando le tracce del demone della steppa sono così evidenti, nessuno osa avvicinarsi.

Levki è ancora li dentro, fra le braccia del demone assopito.
Sta aspettando che qualcun altro lo faccia risvegliare


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mercoledì 17 febbraio 2021

Scrivere romanzi di genere senza abusare degli stereotipi...







La letteratura di genere, così come il cinema, si può definire tale perché attinge a certi stereotipi che la rendono riconoscibile e per quello, piace. 
Un romanzo giallo sarà inevitabilmente imperniato su un delitto e sulle indagini che ne seguono, un thriller su un evento o una serie di eventi che indurranno la repentina trasformazione di un personaggio, di un gruppo molto vasto di personaggi o di un'intera società, che vedranno l'iniziale indole pacifica e accomodante diventare qualcosa di difficilmente gestibile e prevedibile.
Il limite del prodotto di genere è fin troppo ovvio: l'eccessivo sfruttamento del cliché, l'esaurimento della sua forza, il crollo della sua efficacia. 
Se io, per esempio,  ritengo che la storia de Il buono, il brutto e il cattivo rasenti la perfezione formale e sostanziale, che rappresenti il baricentro fra l'epico, lo splatter e il pulp, che il celebre triello sia la voce enciclopedica perfetta alla ricerca della parola "sparatoria", devo però capire che riempire le tre ore di film di trielli e sparatorie in tutte le salse e ambientazioni, alla maniera di un brutto videogioco, sia la strada più breve per produrre spazzatura, e questo a Hollywood succede sempre più spesso.
La stessa cosa vale per la narrativa. 
Se Raymond Chandler e Mickey Spillane, che anni fa avevano inventato la figura dell'investigatore con il cuore di pietra, il brutto carattere, l'ascendente sulle donne e il grilletto facile, erano stati geniali e avanti con i tempi, oggi, indurire il cuore del personaggio fino a renderlo disumano, calcare i tratti del carattere al punto di rasentare il ridicolo, metterlo in competizione con Rocco Siffredi e farlo sparare su tutto ciò che si muove, non migliora il risultato ma lo azzera. Non stiamo parlando di cavalli vapore, di pixel o di giga di memoria ma di personaggi letterari.
Non sto scherzando.
Leggo molto e capita di imbattermi in autori, anche famosi, che credono di avere in tasca la soluzione contro la noia e applicano il principio del replicare cose già fatte e dell'esagerare fino ad apparire grotteschi. 




E poi ci sono gli investigatori a spese del contribuente: commissari, ispettori, sottufficiali con il piglio del vincente, semplici agenti e impiegati generici con la capacità deduttiva di Sherlock Holmes, la mira da cecchino e la memoria eidetica. Qualcosa di simile lo aveva scritto Giorgio Scerbanenco, intuendo che la cosa sarebbe piaciuta, ma erano gli anni '40. 
Nel frattempo la materia si è evoluta nella direzione dei tutori della legge sempre più bizzarri: viziati, malati, collerici, fedifraghi, ortodossi, peccaminosi, ambigui. 
Impossibili.  
Tutti hanno un passato di sofferenza, abusi e soprusi. Molti sono semplicemente disturbanti.
Mi chiedo se personaggi normali o appena caratterizzati da qualche tratto che non sia caricaturale possano andare bene oppure no. Vanno bene, altro che, solo che troppi scrittori non portano alcun rispetto nei confronti del loro pubblico e sono convinti che fare uso di un cliché trito e ritrito e poi esasperarlo, sia una naturale conseguenza dell'evoluzione darwiniana. Don Winslow, per esempio, ha scritto  romanzi superlativi e la sua trilogia del narcotraffico è abitata da banditi normali, poliziotti normali, prostitute normali e giudici normali. Magari i banditi sono efferati, e ci mancherebbe altro, gli sbirri schiumano rabbia e si fanno lasciare dalle mogli, i giudici sono corrotti e le femmine non sono tutta casa e famiglia e pure i preti hanno qualcosa da nascondere ma ogni dettaglio è assolutamente credibile e soprattutto non induce la risata.




A mio parere, la vera evoluzione è quella di rielaborare il genere attribuendo a ogni situazione un valore ponderale diverso. 
Posso parlare di un serial killer apparentemente onnipotente senza che la storia sia filtrata dai soli occhi degli inquirenti e osservata esclusivamente dalle polverose stanze di un commissariato? Chi me lo impedisce?
Posso immaginare un complotto internazionale e vedere l'effetto che fa sulla pelle delle vittime e non degli agenti segreti? Perché no?
Posso ambientare una scabrosa vicenda in provincia facendo a meno dei soliti stereotipi sui bifolchi facili a regolare i conti con la motosega? Che ne dite?
Posso immaginare la disperazione di un uomo senza che ad assisterlo nei suoi patimenti ci sia un maresciallo?
Posso liberarmi della solita ragazza trovata smemorata nel bosco, ferita nel bosco, moribonda nel bosco, sepolta nel bosco o dimenticata nel fondo di un pozzo?
Posso usare il pretesto della struttura solida di un bel thriller per arricchire la storia con denunce sociali, riflessioni, humor, cenni culturali, storie d'amore e di vita? Posso fare saggio uso dei retroscena e divertirmi a scrivere personaggi interessanti  che esulino da tutto quanto atteso in un libro di genere? 
È assolutamente possibile, rinunciando all'ennesimo clone dell'ennesimo clone, dell'ennesimo clone. I cloni sono come la psicosi della notizia, crescono di passaggio in passaggio fino a diventare inverosimili e talvolta mostruosi.
I cloni hanno abbassato la qualità dei romanzi e convinto tanti editori che un libro uguale a mille altri sia l'unica cosa che serve per sbarcare il lunario.
Quindi la letteratura di genere è bellissima ma va maneggiata con cura, amore e fantasia e a cercare bene, si trova. 

Come ha detto Haruki Murakami, se leggi soltanto quello che leggono tutti, puoi solo pensare quello che pensano gli altri.