mercoledì 24 febbraio 2021

Il semaforo, una storia di amiche per sempre





La provinciale 48 è un noioso rettilineo che divide in due la pianura. Di tanto in tanto si incontrano gruppi di case che affacciandosi sul nastro di asfalto interrompono la monotonia del viaggio.
Di giorno si può godere di un panorama discreto: alberi monumentali che sorprendono la piatta continuità dei prati, qualche dosso a  scavalcare l’idea di un torrente e un crinale di colline in lontananza che fanno a gara con la nebbia. Le città, i paesi e tutti gli assembramenti umani che riuniscono un numero di abitanti superiore ai dieci, sono lontani da quella via, semplicemente nati e cresciuti da un’altra parte. Gli incroci sono rari e, quando si incontrano, vengono anticipati da una serie di cartelli e ammonimenti sul pericolo di incorrere in paurosi incidenti. Qualche volta la ferrovia fiancheggia l’asfalto, tenendo compagnia agli automobilisti sempre in procinto di cedere al sonno e talvolta addirittura si  manifesta, attraversando la strada in corrispondenza di un passaggio a livello che si erge colorato come un miraggio nel deserto. 
Di notte, invece, la provinciale si  trasforma in un posto freddo e impersonale, sempre uguale a se stesso. Un chilometro dopo l’altro ci si può alienare dalla realtà, morire di noia o semplicemente dimenticarsi di esistere.
Io sono morta, ed è successo proprio in quel posto.


Era una  notte di tarda estate, aveva appena finito di piovere e i fari dell’auto facevano fatica a infrangere la barriera nera del buio. Niente luna, naturalmente, nessun lampione nel raggio di chilometri e poca, pochissima benzina nel serbatoio. 
Io e la mia amica Gina, di ritorno da una stupida festa di compleanno, piena di ubriachi e vomito in tutti gli angoli della casa con eccezione della tazza del cesso, avevamo atteso pazienti che almeno la metà dei convenuti se ne fosse andata. Lo avevamo fatto per levare il disturbo senza essere additate come due con la puzza sotto il naso. La condizione si era realizzata quando mancava più o meno un quarto alle due di notte, e quando Mario, Lino, Paolo e quella banda di ubriachi che componevano la compagnia di amici più sfigata del nord Italia, si erano assentati per fumare senza più rientrare, forse indispettiti dalla pessima musica che vibrava come una scorreggia dalle casse rotte, forse perché semplicemente non avevano più nulla da chiedere alla serata. Negli anni ’80 era così, si consumava il repertorio delle hit e poi si rimaneva sistematicamente a corto di idee, con la permanente messa a dura prova dall’aria umidiccia dell’ambiente e un mal di piedi per il quale era facile individuare il colpevole.
Uscimmo di fretta, saltando la metà dei convenevoli e buona parte dei saluti. 

All’inizio mi ero  annoiata. 
Lo stato d’animo si era instaurato fin dalle fasi di studio, durante le quali i numerosi invitati fingevano di essere educati e armati delle migliori buone maniere. 
Dopo poco il ghiaccio era stato rotto ed erano partite le avances dei maschi. 
Ce n'erano di interessanti, lo ammetto, tutti con le loro belle chiome tenute a spuma e quei giovani sederi sodi, messi in evidenza dalla vita alta dei pantaloni. Uno in particolare, un certo Ludovico, aveva le spalle larghe e un paio di occhi intelligenti che ti sapevano guardare. Odorava di un buon dopobarba ed era in grado di intrattenere una conversazione. Lo aveva dimostrato parlando con me per un paio d’ore e spaziando brillantemente fra argomenti più disparati, senza che mai una proposta di appartarci fosse stata fatta. Nessun invito a ballare, nessun tentativo di cacciarmi la lingua in bocca. Un ragazzo da sposare, avrebbe detto mia madre, e il fatto che il bicchiere con il cocktail rosso gli si era riscaldato in mano senza essere bevuto, le avrebbe dato ragione.
Gina, la solita birichina con poche inibizioni, che avevo imparato a conoscere fin dalle scuole elementari, aveva trovato il suo.
Era sparita nel giardino sul retro, dove la padrona di casa aveva messo a disposizione una serie sedie a sdraio per dare sfogo ai bassi istinti. Lo aveva fatto in compagnia di uno spilungone pallido come un cencio, peggiorato da un abbigliamento in stile dark in totale contrasto con i capi da paninaro che andavano per la maggiore sotto le luci della discoteca, un angolo della casa piuttosto ben accessoriato all’uso.
Era stata fuori dalla scena per un’ora o forse più, infischiandosene dei pezzi riempipista che il dj non lesinava a fare girare sul piatto e dei lenti che erano seguiti, ispirazione e spunto per quelle toccatine e per quei baci caldi e sudati che erano stati generosamente dispensati.  Era tornata sistemandosi i collant sotto la gonna, con la faccia tirata, i capelli scompigliati e la camicetta stropicciata come se fosse rotolata al fondo di una scarpata. Le bretelle del reggiseno, che si vedevano in trasparenza sotto la seta bianca, erano attorcigliate come degli elastici finiti nelle mani di un bambino nervoso. Aveva l’aria di chi arriva da un incontro di  wrestling con Tiger Mask. Non le chiesi nulla. Era fin troppo evidente che quello spilungone dark doveva avere dei numeri da circo, tutti da esibire sotto le lenzuola o alla luce fioca dei lampioncini. Le discussioni sull’opportunità di farsi quel soggetto, o perlomeno di farselo senza averlo costretto a prolungare il corteggiamento per almeno dieci minuti, le avremo prese in esame  poi, il giorno seguente e dopo una bella dormita.

Il primo errore fu quello di non fermarsi al distributore automatico, il secondo quello di sbagliare strada.
Confuse da una cartellonistica che sembrava essere caduta prima ancora delle foglie in autunno, girammo a destra cinque chilometri prima del necessario. 
Avremmo giurato che era tutto sotto controllo, che quel posto l’avevamo visto nella direzione contraria durante il viaggio di andata, che il cascinale di mattoni rossi nell’incrocio era il medesimo che avevamo ammirato alla luce del giorno e che anche il pilone votivo, con la madonnina messa in sicurezza dietro una robusta grata in metallo, poteva essere l’unico di tutta la regione.
Dopo venti minuti di viaggio sulla strada bagnata, con i nasi messi a baciare il parabrezza e un’apprensione che saliva in maniera direttamente proporzionale ai chilometri percorsi, ci trovammo con la spia del carburante fissa sul rosso, un deserto di prati e campi mietuti intorno a noi e la netta sensazione che, pur pentite, non saremmo riuscite a tornare indietro fino alla stazione di servizio, quella che avevamo visto sotto una pensilina dipinta di colori sgargianti  e illuminata a giorno.
«Se andiamo piano ce la facciamo…» Disse Gina, facendo sfoggio del suo  inguaribile ottimismo. No so quali fossero i suoi piani; forse intercettare una strada perpendicolare che ci avrebbe ricondotte a quella di casa, forse confidare nella comparsa di una pompa di carburante. Tutto intorno, naturalmente, non c’era né l’una né l’altra cosa, solo un buio che premeva come l’acqua sul fondo dell’oceano.
«Rifacciamo, torniamo indietro. Che dici Gina?» 
La vidi rallentare e pensare. 
Da sempre era la mia migliore amica e, anche se non lo volevo ammettere, era anche l’unica. La conoscevo da una vita e sapevo che quando dava aria al cervello tendeva a spingere con la lingua sotto le labbra. Lo fece e contemporaneamente, aiutandosi con la luce di cortesia, controllò la tenuta del trucco nel retrovisore. Aveva due occhi pesti che sembrava avesse fatto sesso con un carro armato, invece che con quel figlio della morte vestito come un prete. «Dico che se torniamo indietro rimaniamo a piedi di fisso. Meglio continuare fino al prossimo paese...Non vediamo una casa da mezz’ora e quindi sono nostre le possibilità di incappare in un centro abitato.» 
Non l’avevo mai apprezzata come amante della statistica, ma quel modo di definire le possibilità come “nostre” ebbe l’effetto di tranquillizzarmi un po’. Allungai le gambe sotto il cofano e mi sforzai di essere fiduciosa.
Dalla cassetta infilata nell’autoradio, i Bauhaus stavano cantando Stigmata martyr.

Strada, asfalto bagnato che si mangiava  la luce dei fari e freddo.
Complice la gonna corta, che quella sera aveva fatto interessare alle mie gambe più di un animale da festa, sentivo freddo e un leggero intorpidimento alla punta dei piedi. Chiesi a Gina di accendere il riscaldamento dell’auto e lei lo fece.
Nei dieci ulteriori chilometri che avevamo percorso, nessun paese, incrocio, cartello o distributore, solo qualche strettoia che  interrompeva la noia e, di tanto in tanto, dei guard rail che fornivano l’indizio di una curva. Gina stava cominciando a innervosirsi e guidava con una sola mano sul volante, mentre l’altra indugiava sul ginocchio.
Il passaggio a livello ci lasciò attraversare sotto le sue sbarre erette. 
Il grosso semaforo spento sonnecchiava in punta al suo palo e delle barriere in cemento consumate dal tempo  facevano  fatica a reggere il loro stesso peso. Le  ortiche attorcigliate alla loro base se le stavano lentamente digerendo. I sobbalzi, che l’auto affrontò superando il binario unico, fecero singhiozzare il motore in debito di benzina.
Ci guardammo. 
Come al solito Gina riusciva a nascondere tutte le difficoltà, semplicemente calandosi in faccia una maschera che sapeva pareggiare la sua faccia a un sedere. Di solito funzionava, ma non quando si aveva a che fare con un rapporto fra cavalli motore da nutrire e carburante scarso come l’acqua nel deserto.
Dopo nemmeno cinquecento metri l’auto si fermò tossicchiando. 
Gina non si curò neanche di accostare. Non avevamo incrociato nessuno in tutto il percorso e nemmeno qualcuno ci aveva sorpassate. Come al solito, come ai tempi della scuola, degli esami e delle feste in discoteca eravamo noi due, spaurite, indifese  e a cinque ore almeno dal sorgere del sole. Prima ancora che ci fossimo fermate  aveva già inserito con un pugno le quattro frecce di emergenza
«Bene Gina, e adesso?» 
Mi guardò da dietro il mascara mischiato alla stanchezza. 
Le lacrime erano colate dagli occhi arrossati. Tradendola, avevano lasciato impresso il loro segno come la ruggine sotto una ringhiera. «E adesso niente, vedi là?» 
Guardai in punto lontano che mi aveva indicato. «C’è un semaforo. Non mi sembra tutta sta notizia.» Obiettai, mentre cominciava a suonare Rosengarden Funeral of Sores. Gina si mostrò indispettita.
«Se c’è un semaforo, bella, è perché c’è traffico, e se c’è traffico, bella, è perché c’è gente, e se c’è, gente…» 
La interruppi e finii io stessa la frase ondeggiando la testa nei due sensi. «E se c’è gente è perché c’è un paese  e se c’è un paese è perché c’è un cazzo di distributore.» Vidi il suo pollice tirato su per fare un ok tutt’altro che convinto. 
Aveva scopato la mia amica, lo sapevo, ma a vederla ridotta così pareva appena uscita da una fossa al cimitero. Pensai che era vero quel che si diceva, che ci sono persone talmente cariche di energie negative che sono capaci di trasmetterle con l’amplesso. Fui tentata di chiederle cosa le era preso per decidere di darla via a quella specie di becchino, ma rinunciai.
«E allora andiamo a cercare un automatico.» Guardai nel portafogli. «Viene anche bene che ho due pezzi da cinquemila lire.» 
«Cazzo bambina, ma dove li prendi tutti quei soldi?» 
«Me gli ha dati il papi, dove vuoi che li abbia presi?»
Gina mise la mano sulla maniglia. «Invece il mio, di papi, è così previdente che nel cofano tiene sempre una tanica per la broda. Abbiamo due papi che si completano a vicenda come noi, gioia!» 
Pensai che il suo papi avrebbe potuto prestarle la macchina con qualche litro di carburante nel serbatoio, o almeno educarla a fare attenzione alle spie del cruscotto. 
Scendemmo nel lampeggiare alternato delle luci di emergenza e da fuori vidi che l’agognato semaforo era piuttosto lontano. Proiettava  le sue luci intermittenti che si spalmavano sull’asfalto, lunghe e liquide. Guardai sotto le mie scarpe i tacchi dodici  e quelli di Gina, ancora più spericolati. Saremmo arrivate al fantomatico paese all’alba e per un momento fui tentata di rinunciare a mettermi in cammino.
Non ne ebbi il tempo.  Gina era già partita. 
Zoppicando vistosamente aveva guadagnato una decina di metri di vantaggio. Sculettava sotto la gonnellina mettendo in mostra un vistoso squarcio nei collant, che appariva e scompariva al ritmo delle frecce. Con quella tanica in mano, che di tanto in tanto andava a sbattere contro le punte dei guard rail in cemento, sembrava concentrata nell’attirare l’attenzione di qualche automobilista.
«Aspetta Gina!» Urlai claudicando, con i tacchi che sprofondavano nella banchina in mezzo all’erba. Dopo qualche passo abbandonai la prudenza e mi misi a camminare nel bel centro della provinciale.
«E aspetta…» 
Ricevetti in cambio il dito medio sollevato all’uopo. C’erano delle volte che l’avrei ammazzata quella lì!
Tentai di accelerare l’andatura ma non trovai il ritmo della mia amica, che dopo pochi secondi aveva già messo una bella distanza fra me e lei e guadagnava punti in direzione del semaforo, ora rosso per noi e verde per gli altri, subito dopo  all’opposto.
Mi girai e constatai che la nostra auto si era vistosamente rimpicciolita, con le luci lampeggianti che sembravano occuparne la stessa grandezza.
«Aspetta Gina, cazzo! Ci teniamo compagnia.» 
Lei non si girò nemmeno. La sentii rispondere dopo breve, lontana e quando ormai la luce del semaforo la stava tingendo di un rosso inferno. «Bella, avremo un eternità per tenerci compagnia…» 
La prima storta mi sorprese con una frustata che si trasmise dal piede lungo la gamba, coinvolgendo la schiena e finendo col provocarmi un dolore al collo simile a un ceffone. Mi trovai rannicchiata a massaggiarmi quel che rimaneva della caviglia, quando Gina era già scomparsa al di là dell’incrocio. Provai a recuperare ma un dolore si insinuò nel lato del piede e mi prese in ostaggio. 
Dopo dieci passi, mi arresi. 
Sedetti su un muretto in pietra al limitare della carreggiata e attesi.
Come sempre, quando la vita prende una piega sbagliata, si annega il cervello nelle acque torbide dei rimorsi. Quella notte mi misi a rivangare su quel ragazzo educato, uno dei pochi in quella porcilaia. Mi aveva filata per buona parte della festa. Era stato timido, rispettoso, quasi commovente nei suoi modi gentili. Al contrario del ragazzo in nero che aveva approfittato della vena scopereccia di Gina, non aveva osato prendere iniziative in quel senso e infine non aveva battuto chiodo. Forse avrei dovuto incoraggiarlo, abbassare di qualche centimetro le mura che circondavano la mia persona, lasciarlo invadere il castello, insomma. Mi preoccupai anche di avergli provocato un patema d’animo, una crisi di fiducia. Chissà, magari per colpa mia sarebbe un giorno diventato prete.
Le mie elucubrazioni, fatte con il muretto che mi gelava il sedere e le gambe seminude strette assieme come se fossero incollate, finirono nel momento in cui un paio di fari apparirono alle mie spalle, lontani ma già chiaramente percettibili. 
Dopo breve cominciai ad avvertire il rumore di una macchina molto potente, non sportiva nel senso classico o di lusso, ma con un motore sovralimentato e spinto da tanto sprezzo del pericolo. Quando passò, credo che l’autista non mi avesse nemmeno vista.
Lo spostamento d’aria mi spettinò e si insinuò con un refolo freddo sotto la gonna.
Guardai in direzione del semaforo e, incredibilmente, vidi una seconda auto sopraggiungere dalla strada che si innestava sulla provinciale. 
Dal mio punto di osservazione si distinguevano i colori: l’auto veloce sarebbe passata con il verde che era appena scattato, l’altra avrebbe dovuto fermarsi al rosso imperativo, che si era appena acceso sostituendo la breve esistenza del giallo.
Ma le cose non andarono così.
Il semaforo, che fino a quel momento aveva alternato meccanicamente i colori che regolavano da sempre i cicli universali del traffico, si assestò sul verde, e da tutte e due le parti.
Scattai in piedi, disinteressandomi del dolore alla caviglia che cominciava a somigliare al morso di un cane e gridai. Lo feci con tutto il fiato che avevo in gola senza ottenere nulla. 
I due automobilisti vedevano entrambi la via spianata, il permesso di passare, l’incoraggiamento a far rotolare le ruote su quel nastro di asfalto nero. Nessuno si preoccupò del malfunzionamento del semaforo, di quella anomalia che non si era mai verificata nella storia, dall’invenzione dei relè, delle lampadine e della stessa energia elettrica. 
Il semaforo era verde per entrambi e questa, per loro, era stata una buona ragione per morire.

Vidi per primo un braccio mozzato.
Era nel centro della strada, a cavallo con la linea della mezzeria. Quando passai, la mano si aprì per un riflesso nervoso, come se volesse salutarmi. Lo schianto era  stato così violento che un lampo di luce l’aveva preceduto per un istante e poi un tuono, l’eruzione di un vulcano, l’ultimo barrito di un elefante morente. 
Le auto avevano rimbalzato l’una contro l’altra  ed erano ritornate beffardamente da dove erano venute, ognuna sulla sua strada. Dopo breve, i frammenti erano precipitati sull’asfalto dando origine a un macabro spettacolo di stelle cadenti. Una pistone rovente si era sbriciolato nell’impatto e una lama di sangue rosso aveva cominciato a scorrere verso il palo del semaforo. 
Camminando come un automa la scavalcai per non imbrattarmi le scarpe. 
Il motore dell’auto spinta aveva un cuore rosso e pulsante di fiamme vive. Sezionato come da una sega, sembrava uno di quei modelli esposti nelle scuole di guida per insegnare la meccanica e la logica dei quattro tempi. La coppa  dell’olio stava vomitando un rigurgito nero e una catena penzolava verso il basso. 
L’auto dell’altra direzione era voltata sottosopra, con l’unica ruota superstite che girava cigolando. Rimasi come ipnotizzata da quello spettacolo e i piedi che vidi sbucare dal baule erano davvero troppo distanti da quella testa sanguinolenta con gli occhi spalancati nel vuoto, rimasta schiacciata fra il montante della portiera ed il cruscotto.
Vomitai senza che nessun sintomo mi avesse avvertita.
Dopo i miei conati mi accorsi che  il silenzio era impressionante.
Si avvertivano i ticchettii delle lamiere che sembravano volessero stirarsi, il gocciolamento del sangue che aveva trovato altre strade per uscire ed il semaforo che cambiava colore. Se si faceva attenzione si poteva ascoltare lo scatto dell’impianto, che accendeva l’arancione per poi passare al rosso dopo qualche secondo. Dalla parte opposta, il verde si accendeva con rassicurante puntualità.
Ma non avevo dubbi. 
Quel maledetto semaforo aveva indotto in errore i due automobilisti. Aveva avuto la pazienza tutta la notte, aveva sperato che si verificasse la combinazione perfetta e poi tac…l’alternanza fra i colori era stata sospesa per organizzare quello scherzo. Ne ero sicura, avevo assistito a quello spettacolo con i miei occhi. Quell’impianto era diabolico, pulsava di vita propria, viveva alimentato dalla sua stessa perfida determinazione ad uccidere.
Impaurita, guardai quel palo grigio dall’alto in basso. 
Era fatto di quei tubi rastremati che stringono gradualmente la loro sezione a mano a mano che salgono. Dopo la curva del profilo, e nel suo punto più sottile, il semaforo appeso sul centro della carreggiata ondeggiava come un impiccato, facendosi beffe di me. Temendo che avesse potuto sganciarsi e cadermi addosso per eliminarmi, mi spostai di colpo all’indietro e andai a sbattere contro qualcuno.

Era un carabiniere, appena sceso da una vecchia Alfa Romeo degli anni '60, blu notte, con il tettuccio bianco e una doppia coppia di fari dei quali due finti. Gli antinebbia posticci appesi sotto al paraurti cromato erano accesi, assieme al lampeggiante che tingeva di blu la scena del disastro. Al terzo o quarto giro di luce l’agente mi chiese ragguagli.
«Si sente bene, signorina?» 
Era giovane, ben pettinato, con la divisa in perfetto ordine e due bei baffi folti  a incorniciare le labbra spesse. Stava dritto sulle gambe robuste e si manteneva impettito, con il cappello tenuto sotto il braccio. Dietro a lui, il collega, diceva qualcosa di incomprensibile nel microfono gracchiante della radio, appoggiando il gomito con noncuranza sulla portiera aperta. Quando la luce del lampeggiante lambiva il suo volto una grande cicatrice sulla guancia veniva messa in evidenza.
«Abbiamo avuto un guasto alla macchina, cioè, siamo rimaste senza benzina…» 
Le grosse labbra si atteggiarono in una smorfia di curiosità. «Abbiamo, siamo? Era in compagnia di qualcun altro, signorina?» 
Mi agitai. «Ma sì, Gina, la mia amica. E’ andata avanti per cercare un distributore, dovreste averla vista se siete arrivati di là» indicai la direzione. «Non potete non averla vista! Aveva un grossa tanica bianca che suo padre tiene sempre nel baule, perché non si sa mai…» 
Non ricevetti risposta. Solo uno sguardo di commiserazione. 
L’agente mi lasciò per fare un giro intorno alle auto incidentate. Con le mani dietro la schiena fece una prima ispezione alla carcassa fumante dell’auto veloce e poi una puntata alle seconda macchina. Tornò senza che il suo volto tradisse la  minima emozione.
«La sua amica sarà già arrivata alla destinazione, non si preoccupi. Piuttosto, lei avrebbe bisogno di coprirsi. Vedo la pelle d’oca sulle sue braccia. Gaetano…» Chiamò, e l’altro agente, senza fare domande, andò nel baule a recuperare una coperta da mettermi sulle spalle e una piccola tanica con un liquido rossastro al suo interno. Dell’incidente, dei morti e del semaforo sembrò non importare nulla a nessuno dei due. Quando l’agente arrivò, con la coperta appesa al braccio e la tanica che odorava di benzina super, mi porse i suoi omaggi e se ne andò subito, girando su se stesso come l’orsetto del tiro a segno. 
Ringraziai, misi la coperta sulle spalle e attesi.
«Signorina, lei ha assistito all’incidente?» 
Provavo una tale arsura che avrei attinto alla tanica per dissetarmi e la voce non era certo quella ferma e determinata che si può avere quando si ordina mezzo chilo di pane. «Sì, è così! È stata...è stata una cosa strana, perché tutte due le macchine sono passate col verde.» In risposta solo un sopracciglio alzato.
«Gaetano. Prendi nota di quello che ha detto la signorina…»  L’agente fece due passi incontro, curandosi di non impiastricciarsi i piedi nella miscela si sangue, olio e carburante che aveva invaso tutta la strada. Poteva incendiarsi, quel liquido, e mandare tutto in cenere, ma l’impressione fu che non importasse loro nulla. «Comandi, brigadiere!» 
Mi mise una mano sulla spalla, sorprendendomi. Un brivido gelido attraversò il mio corpo.
«Venga con me, signorina. Mentre  il collega sbriga, per così dire, le formalità del caso, l’accompagno alla sua auto…E’ quella laggiù vero?» Puntò il dito in direzione della quattro frecce accese che davano fondo alle residue energie della batteria. Vergognandomi per la puzza di vomito che avevo addosso, per avere creduto a quell’allucinazione del semaforo e per avere perso la mia amica del cuore, piansi. 
Il carabiniere mi lasciò sfogare e anzi, sgretolando le formalità mi strinse in un abbraccio forte.
«Non è lontana» mi consolò. «Faccia attenzione a non slogarsi le caviglie con quei tacchi.» Troppo tardi, ma apprezzai comunque. Mi porse un braccio come un cavaliere al ballo. Io accettai l’invito e sfilai il mio da sotto la coperta, nudo e tutto punteggiato dai follicoli piliferi eccitati dal freddo.
Arrivammo all’auto prima del previsto. La compagnia dell’agente doveva avere alterato la percezione del tempo. Le frecce stavano lampeggiando di colori più tenui, come se fossero sul punto di spegnersi. Anche il caratteristico ticchettio era diminuito di molto.
«Le ha le chiavi, signorina?» Mostrai il portachiavi in cuoio. Lo lasciai ciondolare al dito e ne rimasi praticamente ipnotizzata. 
Quando mi ripresi, vidi il carabiniere che stava rabboccando il serbatoio. Aveva anche aperto il cofano e dato qualche goccia di benzina per dissetare il carburatore asciutto. Era rimasto in maniche di camicia e della sua giacca con le mostrine rosse nemmeno un indizio. 
Finì quello che stava facendo, avvitò il tappo fino a sentire il rumore di fine corsa, quello che suonava come una cornacchia, per intenderci, e mi apri la portiera del guidatore.
«Allora buon viaggio, signorina.» Si portò nel mezzo della strada. «Al mio segno faccia tranquillamente inversione. Controllo io che non stia arrivando nessuno...»
Sistemata su quel sedile per me troppo lontano dal volante, cincischiai alla ricerca della leva per avvicinarmi. Chiusi la porta, accesi il  motore che partì disperdendo un po’ di fumo intorno e abbassai il finestrino. L’agente era piazzato in mezzo alla strada con un sorriso. Aveva la postura di un ballerino della Scala, con le gambe unite e quella camicia bianca aderente al petto muscoloso.
«Io…io veramente dovrei andare dall’altra parte a recuperare Gina…»
«Non se ne parla!» Senza alterare il sorriso che sembrava essersi fossilizzato sulla sua faccia.
«Ma agente, non posso lasciare la mia amica in giro da sola con questo buio…»
Non si mosse. «Ci penseremo noi alla sua amica, stia tranquilla. In quella direzione il traffico è bloccato. Non ha visto quanto olio nella strada? È pericolosissimo per lei, mi creda. Prego, giri in quella direzione…»
Traffico? Dal momento dell’incidente non si era più vista anima viva, solo qualche stella che cominciava ad apparire nelle fessure concesse dalle nuvole. La strada e i prati che la circondavano fumavano come una pentola di pasta.
«Non si può fare un’eccezione?»
Mi guardò solamente.
Girai l’auto, incapace di prendere confidenza con lo sterzo pesante e con quella trazione posteriore così ostile. Prima che passassi oltre, vidi ancora il carabiniere intento a controllare che non arrivasse nessuno.
Lo lasciai scomparire nel retrovisore. 
Dopo poco la sua camicia bianca, che aveva preso in prestito il rosso acceso dei fanalini posteriori, sparì inghiottita dal buio e io cercai di ricucire un rapporto amichevole con la riga della mezzeria che si consumava lentamente sotto i miei occhi.

Il passaggio a livello si presentò chiuso.
Lo fece beffardamente, calandomi la doppia sbarra fluorescente proprio davanti al naso. Rassegnata mi misi in attesa, senza spegnere il motore.
Avevo deciso. Sarei tornata indietro fino trovare una strada alternativa, poi mi sarei messa alla ricerca di Gina. Come avrei potuto lasciare sola la mia amica del cuore, farmi tutta la strada da sola e  presentarmi a casa senza di lei, e con l’auto di suo padre per giunta?
Dopo dieci minuti di attesa il rumore del treno mi sorprese addormentata. 
Saltai sul sedile quando il convoglio era già interamente passato, lasciando a testimonianza solo il buio e la danza inelegante delle ortiche a fondo scarpata, agitate da un turbine d’aria che non voleva finire.
Le sbarre erano ancora abbassate. 
La luce intensa del grosso semaforo aveva impregnato il mio volto del colore del sangue. Smisi di guardarmi allo specchio e attesi. Per ingannare il tempo misi in pratica un esercizio di rilassamento che avevo intravisto sulle videocassette di Yoga che mia madre collezionava.
Gina bussò al finestrino, così forte che mi fece sobbalzare. 
Fui sorpresa col respiro rotto e le mani contratte attorno al volante come due tenaglie. Provai a dire qualcosa ma il sonno, che mi aveva nuovamente colta alla sprovvista, aveva limato dalla mia gola la capacità di parlare, o perlomeno di farlo in modo chiaro. Quando la cercai aveva già oltrepassato il binario e mi stava aspettando dall’altra parte con un sorriso arioso e la tanica del carburante piena fino all’orlo. 
Mi fece segno di attraversare, poi si mise a simulare un’autostoppista con la gamba messa in evidenza scostando il lembo della gonna. Cercò di stare seria per qualche istante e poi si lasciò ridere addosso come il suo solito. Io non lesinai un sorriso a denti scoperti e pronunciai una frase eloquente da dietro il parabrezza, facendo bene attenzione che lei  leggesse i miei labiali:
«Eccola, la solita stronza!»
Lei rise ancora di più, e lo fece accompagnandosi con un gesto di invito. Mise in pratica il mio stesso gioco e mosse le labbra senza fare uscire alcuna parola. La frase fu assolutamente eloquente.
«Ce ne andiamo via insieme, finalmente? »
In breve avevo portato quel catorcio oltre la barra eretta del passaggio a livello. Facendo attenzione, affrontai le rotaie per la seconda volta quella notte.
Quando il treno si abbatté sulla fiancata dell’auto, dilaniandola, vidi la figura di Gina scorrere via velocemente dal riquadro del parabrezza. Una pellicola rotta, un immagine estemporanea vista dal finestrino di un mezzo in corsa, il subliminale di uno spot televisivo.
Poi furono scintille, un frastuono infernale e il terremoto che si era impossessato delle mie ossa, sbriciolandole. Il mondo, in quei secondi, cambiò mille volte di prospettiva. Vidi il cielo, vidi la terra e ne annusai l’odore intenso mischiato a un puzzo di ferro bruciato. 
Quando il treno si fermò, ero già morta.
Non accettai subito la mia condizione, non credo che nessuno l’abbia fatto mai. 
Quando vidi la pattuglia dei carabinieri venirmi in soccorso, temevo che non sarei mai riuscita a uscire da quel groviglio di lamiere, con la locomotiva che le pesava sopra e quel fuoco che minacciava di accendersi da un  momento all’altro.
Invece fu più facile del previsto.
Gina mi attendeva ai piedi della massicciata. 
Era bella come nei suoi momenti migliori, solare, serena e con l’aria di non sentire affatto freddo. 
Scesi senza nemmeno fare rotolare un sasso.
Il macchinista era saltato giù dal locomotore e si aggirava disperato attorno a quel disastro. Si era accorto abbastanza presto del mio corpo martoriato e si era lasciato andare in un pianto dirotto. Dopo qualche secondo arrivò anche il capotreno. Fece luce con la sua torcia elettrica nel groviglio di lamiere e si ritrasse immediatamente, scattando indietro come un clown a molla appena inquadrato quello che rimaneva di me. La conferma non tardò ad arrivare. Me la diede Gina, storcendo le labbra in una smorfia imbarazzata.
«Sono morta?» Domandai. 
«Non si sta male. Io sono in questo stato già da un po’…»
«Oddio, Gina, e da quando?»
La vidi rabbuiarsi, improvvisamente, come se quel pensiero le facesse ancora male. Attorcigliò il bordo della gonna con le dita. Lo faceva già da bambina e aveva trascinato quell’abitudine negli anni, fino a farla sua per sempre. La cosa mi fece commuovere.
«E’ stato il ragazzo alla festa, quello vestito dark. Ci eravamo ritirati per fare delle cose, e poi è diventato manesco, violento. Cattivo.»
Non era possibile, ma mi sembrò di avvertire un tremore alle gambe, un retaggio del corpo in carne, ossa e sangue, quel corpo che era stato mio fino a poco prima. «E tu?»
«E io avrei voluto andare via. Ho gridato ma la musica suonava forte e lui non mi  ha lasciata. Stringeva come una tenaglia. Si è irritato, è diventato nervoso, sudava e alitava come una marmitta vecchia. Non ci giurerei, ma credo che ad un certo punto abbia cominciato a schiumare rabbia dalla bocca. Aveva gli occhi carichi di odio, non capiva più niente. Credevo che quelle cose succedessero solo nei fumetti…»
I binari si stavano popolando. 
Era arrivata una prima ambulanza e poi una seconda. Uomini in tuta arancione correvano trascinandosi appresso delle attrezzature. Un principio di incendio era stato domato da un giovane pompiere conciato come un cavaliere medioevale. Portava un elmetto talmente grande che lo rendeva in qualche modo buffo. Guardò nella nostra direzione e diede la sensazione di avere scorto qualcosa nel punto esatto in cui ci trovavamo. Chissà, forse aveva visto i suoi primi fantasmi.
«Mi dispiace Gina, mi dispiace di non averti potuta aiutare. Accidenti a me! Avrei dovuto venire a cercarti!» Piansi. Insieme al tremore alle gambe fu la seconda sensazione terrena che provai da morta. Lei mi venne incontro e mi strinse forte: terza sensazione assolutamente terrena.
«Sei venuta a cercarmi, certo che sei venuta. Ero ancora viva, non ti ricordi?»
Mi sforzai. Lo feci per un attimo e sentii la testa pulsare. Pensai a quella cosa che, raccontano, succede a qualcuno che perde un arto: lo avverte per anni, continua a fare parte del corpo, muoversi, prudere, dolere. Quello che mi stava capitando doveva essere qualcosa di simile.
«Come sarebbe che eri ancora viva. Io non mi ricordo di essere venuta da te.»
«Ma sì, l’hai fatto!»
Qualche ricordo riaffiorò. «Forse sì…»
«Ricordo che eri disperata, che mi chiedevi di non morire, di non lasciarti sola. Ma sai come sono fatta io, inaffidabile e casinista. Non ti ho accontentata e sono morta. Mi dispiace.»
Avevo vagato  a lungo in quel prato, accanto al corpo senza vita di Gina, pieno di lividi e steso al fondo della scarpata. 
Non avevo idee o protocolli da eseguire. Si era fermato il tempo, la ragione si era liquefatta e l’intelligenza era annegata fra le onde nere di una tempesta. 
Senza senno, disperata e assalita da un affanno impossibile da arginare, presi le chiavi nella sua tasca e partii in auto senza una meta. Avevo gli occhi inondati di lacrime, non sapevo dove andare. Niente di quello che mi stava intorno era familiare. Vedevo solo buio e una strada che non portava in nessun posto. Ricordo che mi fermai sul limitare della ferrovia e mi lasciai precipitare nello sconforto, fino a che il sonno estinse la mia disperazione e mi trascinò dentro un sogno. Mi apparve un semaforo diabolico che si divertiva a provocare incidenti, mi immaginai di essere rimasta col serbatoio a secco, di avere perso la mia amica alla ricerca di un distributore e di avere ricevuto soccorso da due carabinieri. 
Angeli, erano semplicemente degli angeli.
Attesi cosi a lungo quel treno, che quando arrivò l’auto non voleva partire.
Un bastardo si era preso la vita di Gina. 
Lo aveva fatto senza investire un solo secondo in un ripensamento, ignorando i suoi pianti e le sue invocazioni di pietà.  
Quando lo vidi si stava sistemando i pantaloni e si annusava l’ascella come se nulla fosse accaduto. Era pronto per tuffarsi nella festa. Mi riservò uno sguardo pieno di disprezzo. 
Noi, povere ragazze, eravamo solo degli oggetti, femmine deboli e incapaci di resistere alle botte. Rifiutai quella realtà e scappai via.
Il mondo non avrebbe concesso giustizia a Gina, solo giudizi, sguardi perfidi e basse insinuazioni. Per lei ci sarebbero state battute sussurrate ridacchiando dinanzi a un bicchiere di birra, occhiate complici fra amici e offese alla sua memoria.
«In fondo era solo una zoccola…»

Davanti al passaggio a livello chiuso insistetti fino a fare accendere il motore. 
Proprio mentre il treno stava arrivando, partii sgommando, sfondai le sbarre e andai a cercare la mia unica amica.

© Diritti riservati

lunedì 22 febbraio 2021

Piero e il lupo. Una favola...







Piero non aveva avuto nemmeno il tempo di svegliarsi.
Con l’umidità della notte appena trascorsa che evaporava dai vestiti, aveva puntato la canna del fucile in direzione del cespuglio e aveva sparato.
Il mattino era cominciato con una luce timida che rimbalzava sul tappeto di nebbia ai piedi della montagna, il suono ovattato del campanile del villaggio e un tepore che sapeva di casa, di colazione e di zucchero da lasciare affondare generoso nella superficie nera del caffè.
Il proiettile aveva attraversato le fronde seminando volute acri di fumo azzurrognolo e se ne era andato a morire dentro un tronco coricato. Il lupo non era stato colpito nemmeno quella volta. Semplicemente se ne era andato. Aveva girato le spalle a Piero, che intanto cincischiava malamente intorno al cinturone alla ricerca di nuovo cibo per il suo fucile. Si era affacciato in mezzo a una coppia di alberi come un curioso si sarebbe sporto alla finestra sulla piazza. Poi era sparito, sollevando una nuvoletta di foglie morte ed un po’ di terriccio.
Il giorno precedente era trascorso così, nell’attesa di una nuova occasione.
Piero aveva battezzato un ceppo sul quale stare seduto, aveva atteso che il lupo si presentasse di nuovo e, fissando i grappoli di bacche rosse e le foglie lanceolate appena stuzzicate da una timida brezza, si era addormentato.
Il giorno successivo, con l’alba che aveva appena finito di scacciare le stelle e la solita, immancabile nebbia stesa a rullo sul fondo della valle, Piero si era appostato dentro una trincea. L’aveva scavata con le sue mani, addomesticando le radici e venendo a patti con un paio di grossi sassi che proprio non se ne volevano andare. Quando l’odore del lupo si era fatto vivo ed il solito inconfondibile fruscio tra le foglie aveva denunciato la sua presenza, la canna aveva eruttato il suo colpo assieme ad un boato e le bacche selvatiche erano esplose dando l’illusione del sangue. Anche quel giorno l’animale era sgusciato via senza nemmeno darsi la pena di correre e, anche quel giorno, le dita scottate di lui si erano ingarbugliate nel tentativo di ricaricare il fucile, di avere una seconda possibilità.
Aveva pianto
Era accaduto quando il lupo, al sicuro dietro al tronco di un castagno secolare, lo aveva guardato con i suoi piccoli occhi verdi. Con il pelo leggermente arruffato sulla schiena ed un po’ di terra secca attorno al naso, sembrava che se si fosse divertito a sua volta a scavarsi un buco.
La notte seguita al suo ennesimo fallimento, all’ennesima dose di frustrazione che appesantiva la sua anima già greve, Piero non aveva dormito, o mangiato, o sognato. Per lui era normale nutrirsi di aspettative e lasciare che il suo fagotto floscio rimanesse chiuso accanto a una fiaschetta di vino che stava evolvendo in aceto. L’unica cosa che gli importava era che il lupo tornasse, che la sua mano fosse ferma e che il fucile avesse voglia di ripetere la stessa scena del giorno prima.
All’alba successiva il mantello grigio aveva attraversato lo specchio della sua visuale, sempre confuso con quel fogliame onnipresente e sempre contaminato con quelle striature nere che sapevano mimetizzarsi con il folto del bosco. Piero aveva sparato il suo colpo e un fungo in campo lungo si era disintegrato in un’esplosione di profumo. Disperato, con la testa fra le mani e gli occhi fissi su un tappeto di ricci, consapevole anche per quella volta che il lupo gli era scappato, non aveva nemmeno reagito quando quel naso umido aveva indugiato sul suo collo assieme al solletico dei baffi duri, con il fiato che si era insinuato fin sotto la giacca. 
Dopo poco l’animale si era allontanato offrendogli la schiena. 
Prima ancora di portarsi al sicuro, di finire fuori tiro, si era immerso nel crepuscolo fino a scomparire e il gelo della notte aveva nuovamente cominciato a dettare le sue condizioni.

La pioggia si era presa cura di ogni singola foglia, aveva nettato il legno, spolverato i frutti e messo in allarme le formiche. Nel sottobosco gli aghi di pino avevano galleggiato come velieri ed una teoria di minuscole montagne, valli e corsi d’acqua, ridisegnato la geografia del terreno Il giorno era salito con qualche minuto di ritardo, scrollandosi le nuvole di dosso e dimenticandosi un mare di panna sui tetti del villaggio ancora addormentato. 
Dall’alto del ramo si vedeva la foresta invasa dalle lame di luce. Alcune erano penetrate fino alla base del tronco e sembrava volessero incendiare le foglie morte accumulate ai suoi piedi, altre si spegnevano nel fitto della vegetazione, altre gettavano isole luminose sulle cime lontane dei larici. Dal fondovalle la solita nebbia e in lontananza un torrente. L’acqua scrosciava imbizzarrendosi in una curva e poi si lanciava in una cascatella che risolveva in una confusione di spuma e vapore. Poco sotto, un vecchio ponte in legno si era digerito i chiodi che lo tenevano insieme e aveva la parte esposta ai getti ricoperta di muschio. 
Il proiettile era partito quando il lupo aveva attraversato una radura chiazzata di sole e aveva fallito, tranciando l’erba nei pressi della sua coda. Il secondo colpo, che Piero questa volta era stato bravo a ricaricare, aveva provocato un impercettibile tremore fra i rovi di un cespuglio di more e si era fermato con una scintilla su un mucchio di sassi testimoni di un vecchio muro. Il lupo se ne era andato, con la coda vaporosa raccolta fra le zampe e l’incedere lento e costante di chi non ha paura. 
Prima di penetrare la barriera di felci dinanzi a lui, si era girato e aveva visto Piero piangere.

I sentieri partivano netti, con dei sassi che sporgevano dalla terra e dei muretti incerti sui lati. Talvolta si addentravano nel profondo del bosco, talvolta lambivano i precipizi affacciati sulla valle. La nebbia, onnipresente, omogenea e compatta, sembrava un placido fiume incanalato fra le montagne. Piero quel giorno li aveva percorsi tutti senza mai stancarsi. Quando indugiavano e infine si perdevano ingoiati dall’erba, lui deviava e andava alla ricerca di nuove strade. Il fucile sulle spalle, avvolto in un panno verde come la stecca di un giocatore di biliardo, era carico, con il proiettile accomodato in canna in attesa di quel colpetto che l’avrebbe costretto a partire incontro al lupo. 
Quel giorno non si era fatto vedere, protetto da un labirinto di frasche, tronchi e cespugli che un giocatore di Risiko cinico e attento sembrava avere posizionato con calma. Nelle ore calde la nebbia ai piedi della montagna si era sfilacciata, tradendo un tessuto di tetti e campi che si giocavano lo spazio concesso loro nelle anse del grande fiume.
Piero aveva accennato un primo appostamento sul bordo di un rigagnolo, un secondo nell’incavo di un tronco morto e un terzo dietro un masso erratico che si era prestato al bisogno. Alla fine la sera era scesa, preceduta da un venticello leggero e da uno stormo di uccelli  che si era levato in volo come sospinto dal rumore di un ramo spezzato. 

Aveva tenuto gli occhi spalancati nel buio. 
Non avevano fatto male e nemmeno lacrimato, e le palpebre erano rimaste ferme come quelle di una statua di cera. La luna, vestita di un insolito azzurro, aveva riempito il cielo della sua presenza proiettando in terra le ombre abnormi delle chiome degli alberi. Gli animali della notte si erano dati da fare; occhi brillanti e curiosi, stomaci da riempire e ignare prede da cogliere di sorpresa. 
Il lupo si era presentato all’improvviso, giocando di prestigio con gli occhi di un barbagianni famelico che avevano preceduto i suoi.
A quel punto la mano aveva carezzato la canna e il calcio del fucile, memore di mille speranze, paure e delusioni, si era appoggiato silenzioso sulla spalla.
Il centro del mirino collideva con lo spazio fra gli occhi ed il dito si era contratto sul grilletto.
Quando il colpo era partito, la suggestione di quell’immagine, due carboncini accesi e pieni di cattiveria, era stata l’ultima cosa rimasta di quel lupo perché lui, carne, ossa e pelo, si era allontanato ancor prima che il fucile fosse imbracciato. 
Per  il rumore dello sparo, il barbagianni aveva chiuso le palpebre. Una volta riaperte, si poteva leggere in quello sguardo un sincero e profondo sentimento di compassione.

Il vento ha i suoi schemi. 
Si ripete secondo una cadenza precisa, matematica, che Piero aveva imparato a comprendere. Aveva imparato a scrutare le foglie nelle interminabili giornate alla caccia del lupo. 
Quel pomeriggio, sotto un sole nevrastenico preso a ceffoni da mille nuvole veloci e insofferenti,  avevano presentato la schiena o la fronte a intervalli regolari, nel rispetto di un algoritmo che la natura portava inciso nell’aria.
Alla dodicesima ripetizione del ciclo, aveva capito che quell’arbusto stava disobbedendo alle leggi dell’universo, e allora aveva fatto un bel respiro e preso la mira nel centro esatto della massa verde. 
Le sue frustrazioni, le epoche di triste rassegnazione, i pianti e i rimorsi ingoiati insieme ad un bicchiere di spine, si erano dileguati con la forza disumana che aveva scaraventato la palla attraverso quei dieci metri di spazio. In quell’istante, nel tempo in cui i gas avevano sospinto il piombo sacrificato nella canna, nel momento in cui l’aria si era fatta da parte per lasciare passare un tizzone rovente, prepotente e pesante, l’universo intero era stato assoggettato alle sue regole e tutto era rientrato nei ranghi
Allo sparo era seguito un grido, straziante. 
Era stato tanto forte da riecheggiare fra le pareti glabre e le cime ancora innevate. Si era fermato il tempo, la natura aveva taciuto ed il brontolio del torrente si era tramutato in un risucchio. 
Di seguito un silenzio irreale, lungo abbastanza da fare rabbrividire.
Al primo lamento era seguito un fruscio di rami e qualche fiore che scuoteva i suoi petali in omaggio alla terra. Il fucile, ormai inutile, era andato a raffreddarsi ai suoi piedi e un po’ di humus era penetrato nella canna soffocando il fumo.
Piero, impettito, aveva atteso che il bosco finisse di suggere il sangue della sua vittima. Sapeva che sarebbe andato a prendere il corpo del lupo già freddo e, pervaso da un senso di calma che aveva affinità stretta col meritato riposo del guerriero, aveva goduto della fresca carezza dell’aria sulla schiena sudata. 
Non aveva fretta perché aspettava da anni. 
Ne erano passati a decine, si erano accavallati due secoli e il mondo si era trasformato in qualcosa di profondamente diverso. Da allora la sua misera sporta non era mai stata rabboccata e la borraccia era seccata dentro come in preda all’arsura di un deserto. Si era guardato le mani, le giovani mani di un giovane uomo, poco più di un ragazzo. Del suo volto non aveva che un ricordo, fotografato contratto in una smorfia di disperazione che il tempo non aveva saputo cancellare.
Quando il suo vecchio amico era sbucato dal cespuglio, aveva dei rametti impigliati nei folti capelli e la manica della camicia tenuta in ostaggio dai capricci di un rovo. Il volto sereno e le labbra sottili atteggiate in un timido sorriso davano la dimensione della sua bellezza. Le gote colorite parlavano di aria aperta, sole e scampagnate. Un fazzoletto sbucava dal taschino e nei piedi ancora quelle scarpe da cacciatore, quelle alte robuste e bene allacciate che lui stesso aveva tirato a lucido quella domenica mattina, ancor prima che fosse nato il sole. 
Piero aveva fatto fatica ad accettare che un fantasma fosse uscito da un cespuglio con la stessa naturalezza di una lucertolina incoraggiata dal sole e sì, con difficoltà si era arreso all’evidenza, rassegnandosi a vedere il lupo vivo, seduto alla base di un albero, con le zampe anteriori perfettamente accoppiate e la coda sciolta intorno alla coscia. 
Quando l’amico aveva parlato, mille ricordi si erano accesi in sequenza e avevano elaborato momenti indimenticabili, emozioni e odori della sua giovinezza. Anche l’amico, come lui, era rimasto giovane, sano, con la camicia che cadeva come su un manichino e i pantaloni che mostravano una riga sfacciata fatta col ferro da stiro lasciato riscaldare sulla stufa. 
Anche l’amico, come lui, era morto.
Quando gli era venuto incontro allargando le braccia, Piero aveva scrutato il suo torace con insistenza. Niente di quella ferita esisteva più, e nemmeno la camicia, la stessa di quel giorno, presentava lo squarcio che aveva aperto la strada al sangue.
«Il lupo non ne ha colpa, Piero. Ha giocato con te tutti questi anni e ha avuto la pazienza di aspettare che fossi pronto.» Aveva detto l’amico, mentre Piero cercava di arginare un fiume di lacrime in pericolosa piena. Il tentativo di parlare era stato abortito,  con le parole inceppate come un vecchio  fucile pieno di ruggine. Le prime, faticose sillabe, non erano state che un’evoluzione del singhiozzo.
«Mi…mi…mi dispiace, io non volevo.»
«Lo so…»
«Io…ero sicuro. Io avevo sparato nel cespuglio per colpire il lupo e invece…» Lo aveva abbracciato. La consistenza del suo corpo, gli odori e la morbidezza dei panni era quella che si annidava nei ricordi più lontani. C’era tutta la giovinezza in quei ricordi, e la gioia che non riusciva mai a smettere. C’era il cuore gonfio di ebrezza per la guerra appena finita e la voglia di vivere di amore e di amori, uno dopo l’altro, vissuti nelle balere con i dischi che giravano sugli ultimi grammofoni, e quella fila di lampadine colorate, rade, fioche e appese al pergolato con le pinzette da bucato. 
«E invece c’eri tu dietro quelle foglie. Mi dispiace, davvero. Non sai quanto mi dispiace!»
«Oh, lo so, invece, ma adesso è ora di dimenticare, di andare avanti.»
Il lupo, intanto, si era alzato e si stava strusciando contro le gambe dei due, di nuovo insieme dopo tutti quegli anni. L’amico aveva la fermezza di un vecchio saggio, anche se lo splendore della gioventù illuminava ancora il suo volto. La nebbia nel fondovalle, intanto, si era diradata e i prati brillavano di un verde irreale, appena disturbati dal nastro grigio della strada. Le case del villaggio si stagliavano nette sullo sfondo del cielo e dalle strade un vociare appena percettibile arrivava fin lassù. 
«Quindi non ce l’hai con me, mi hai perdonato?»
«Non ho mai avuto rancore e te lo avrei detto subito, soltanto  che, testone come sei, non me lo hai mai permesso!»
«Io avevo sparato al lupo. Si era nascosto nel cespuglio e io…Io avevo sparato al lupo…» Ripeteva come un disco rotto, alternando una parola con un singhiozzo. La voce tremula, intanto, sembrava estinguersi come la coda sfumata di una canzone. 
«E invece avevamo sbagliato tutto. Noi, perché ci credevamo grandi e forti sparando agli animali, tu, Piero, perché hai pensato che il mondo fosse solo un banale processo di azioni e conseguenze. Invece il lupo non era nel cespuglio e io sono morto al posto suo. E’ lui, guardalo, ha vissuto la sua esistenza sapendo che un uomo era stato colpito al posto suo. In qualche modo ti è riconoscente…» 
Era lì, ai loro piedi, con la bocca piegata in qualcosa che ricordava un sorriso e le orecchie diritte, come se capisse ogni singola parola. Improvvisamente aveva leccato a Piero il palmo della mano e lui gli aveva stretto il muso come se fosse il cane di casa in cerca di coccole ai piedi del camino. In quel momento un guaito leggero si era reso appena udibile.
«E lui, mi avrà perdonato?»
L’amico aveva riso. Con i pantaloni di fustagno che sembravano appena usciti dalla lavanderia e quella camicia che sapeva di bucato, sembrava reduce dalla messa della domenica mattina, sul sagrato della chiesa e col giornale appena comprato piegato sotto al braccio. Nei capelli c’era ancora la brillantina che luccicava. «Lo spero bene altrimenti, caro Piero, non sapremo proprio che strada seguire per tornare a casa, perché ti aspettano a casa, sai?»
«Da…davvero?»
«Certo! Sono tutti impazienti. Tua moglie poi…Sebbene il tempo lassù lo si percepisca profondamente diverso da quello nel mondo dei vivi, qualche volta è vero, ci annoiamo un po’ anche noi…»
Aveva tremato. «Ah, tuo figlio è in forma. E’ laggiù…» Il dito era andato a indicare il villaggio. «Si dice tutto il bene possibile di lui e fidati, ha ancora un gran daffare prima che lo chiamino. Quindi che dici, andiamo?»
Piero era rimasto perplesso. Il suo purgatorio,  quel bosco immenso e ripetitivo che lui pensava di avere imparato a conoscere ma che invece ogni volta gli aveva riservato delle sorprese, stava per essere lasciato al suo lento e inesorabile ripetersi. Lo doveva abbandonare e lo doveva fare subito. Il lupo si era già incamminato e lo stava guardando impaziente qualche passo avanti.
«Io ti ho ucciso…»
«E io ti ho perdonato. Tutti ti hanno perdonato...»
«Davvero? Dici davvero?»
Quel sorriso era valso più di mille parole. 
Un fruscio di foglie aveva sancito l’inizio del cammino. 
Il lupo li aveva preceduti annusando le radici sporgenti, i sassi della mulattiera e ogni altro angolo del sentiero. C’erano dei rami di felce che sbucavano dai lati e qualche volta si era reso necessario scansarli. Dei conigli selvatici, accovacciati al riparo dietro i ciuffi d’erba, avevano assistito al loro passaggio, per nulla preoccupati di quel lupo ad un passo dai loro musi. 
Erano saliti con un’andatura lenta ma costante verso la parte alta del bosco, quella che Piero non aveva mai avuto il coraggio di esplorare.
In poco erano spariti, accolti in un mare di verde. Piero, il suo amico e il lupo.
Il bosco respirava come un bambino assorto nei suoi sogni.
Prima di partire insieme, avevano seppellito il fucile sotto un metro di umida terra.

© Diritti riservati 

domenica 21 febbraio 2021

Quando un killer perde la memoria - La scelta






La penombra confonde le forme e altera le distanze fra gli oggetti. 
In sostanza si diverte a ingannare la realtà. 
Quella volta, tuttavia, qualcosa si aggiunse e contribuì a rendere il quadro della situazione molto meno leggibile.
Dovette pensarci un attimo, fino a quando la nausea si fece riconoscere per prima, seguita da un forte  dolore alla testa. Tentoni individuò l’interruttore e accese la luce su una camera sconosciuta. Si mise a sedere sul letto e si guardò intorno, mettendo a fuoco i particolari con gran fatica. Il bruciore agli occhi e di un recondito rifiuto di quella situazione lo appesantivano come uno zaino di sassi.
La camera non era grande. Aveva un piccolo scrittoio, un armadio a due ante impiallacciato faggio e un televisore da sedici pollici, fissato al muro con un supporto nero. I cavi dell’antenna e del satellite pendevano sul retro, tagliati lunghi da un impiantista sbadato e il telecomando sporgeva dalla poltroncina, ai piedi della quale era posato un piccolo bagaglio. La porta del bagno, socchiusa, mostrava delle piastrelle azzurre sullo sfondo, appena illuminate dalla luce della specchiera rimasta accesa.
Si alzò, rimandando per il momento la soluzione del problema principale, ovvero:  dove sono e soprattutto, chi sono?
Lo specchio del bagno non fu di aiuto.
Sebbene quel volto riflesso fosse indubbiamente il suo, tutto il resto che lo riguardava non aveva più dimora nella sua mente. Sulle prime un attacco di panico tentò di esordire, subito ricacciato da un esercizio di training autogeno che, ovviamente, non si ricordava dove avesse imparato. 
Portava una maglietta della salute in lycra, delle mutande nere aderenti e un calzino solo, che nel sonno gli aveva inciso  un marchio nella pelle.
Nella piccola borsa ai piedi della poltrona non c'era nulla che potesse aiutarlo a riguadagnare la memoria perduta. Solo un portafoglio senza documenti o carte di credito ma con cinquemila euro in contanti al suo interno, suddivisi in pezzi da cinquanta e da cento.
La testa continuava a dolere.
Dietro l’orecchio un punto infiammato, forse un livido che non riusciva a vedere e quell’alito da sbornia che saliva fino al naso.
Ancora la stessa domanda di prima: chi sono, cosa devo fare e dove mi trovo? Non aveva idea sulle risposte.
C’era una finestra in quella stanza, del tipo a ghigliottina. L’aprì e cacciò fuori la testa nel rumore di un traffico che arrivava a quel decimo piano come se le auto gli stessero passando sui piedi. Di sotto una rotonda stradale, con delle palme e un giardino nel centro, arricchito da una fontana con la vasca in cemento e da una serie di panchine, disposte in circolo intorno a un monumento. Dall’altra parte della strada dei palazzi eleganti, con almeno sei piani e con le facciate che si alternavano nei colori, dal bianco prevalente a tenui pastelli tendenti al rosa o all’ocra. Più in lontananza un secondo albergo, con file ininterrotte di balconi in vetro e  tende parasole a tutte le finestre.
Qualunque posto fosse, lui non lo conosceva affatto.
All’interno, il condizionatore stava suonando il requiem, messo sotto tiro da un direttore esigente. 
Chiuse la finestra che escluse l’afa dalla realtà del momento.
Si mise seduto sulla poltrona, concentrandosi inutilmente per risolvere la sua amnesia.
Dieci minuti dopo, la confusione era aumentata e nulla della memoria  era tornato a funzionare.
Si vestì, con i pantaloni di cotone e la camicia che aveva trovato accuratamente riposti sulla spalliera della poltrona. Mise i mocassini e uscì nel corridoio, portandosi appresso le chiavi della camera 1022. Camminò sulla moquette, fino alla 1001, assai dopo l’ascensore e appena prima delle scale di servizio: nessuno.
Di ritorno incrociò una donna, che tirò dritto abbassando le testa e tenendo in grembo un astuccio di finta pelle.
Il senso di smarrimento si accentuò. 
Nuovamente in camera, accese il televisore. Era sintonizzato su un canale di sport, dove il gruppo della maglia rossa procedeva spedito a cinquanta chilometri dall’arrivo. I conduttori parlavano di strategie, profili altimetrici e gambe da preservare per le tappe di montagna.
Ancora nessun ricordo, nessun indizio sulla propria identità.
Quando ormai il numero di telefono del soccorso medico era stato individuato fra le decine messe a disposizione da una tabella applicata all’interno della porta, l’occhio cadde su un cassetto dello scrittoio non perfettamente chiuso. 
Spinto dall’istinto si avvicinò. 
All’interno il primo frammento di un mosaico da ricostruire.






Aprì il  cassetto con cautela.
Apparve il secondo calzino, quello che non aveva avuto modo di disegnare il profilo dell’elastico sulla pelle. Era appoggiato su una piccola valigia in plastica dura che giaceva al centro dello spazio, insieme alla penna dell’albergo e a un pacco di fazzoletti di carta, probabilmente dimenticati da un precedente cliente.
Per qualche ragione, il calzino era stato tolto dal suo piede e posizionato in quel posto preciso. Chiunque avesse messo in atto quell’accorgimento lo aveva fatto per fargli trovare quella strana valigia. I ragionamenti fluivano rapidi ma la memoria latitava ancora in qualche remota regione del suo cervello. Per non cadere in una spirale distruttiva di pazzia, dovette fare ricorso a una dose supplementare di pazienza e concentrazione, .
Mise la valigetta sullo scrittoio e l’aprì. 
Al suo interno c’era una pistola: una calibro nove, nera come la notte, senza silenziatore e con il caricatore già inserito nell’impugnatura. La estrasse e la strinse nella mano destra, sentendola come una cosa familiare, come una cosa sua. Con un gesto istintivo sganciò la cartuccera, che prese al volo con la mano libera. Non conosceva il suo nome, dove si trovasse e cosa stesse facendo in quella città sconosciuta. Di sicuro aveva dimestichezza con le armi, e se lo era appena dimostrato.
Prima di perdersi nuovamente nella ricerca vana della sua identità, un particolare colse la sua attenzione. Nella valigetta, rimasta aperta sul piano della piccola scrivania, un bigliettino giallo, ripiegato su se stesso, faceva capolino dietro l’imbottitura. Nella speranza di trovare un indizio utile per ricostruire la memoria perduta lo prese e nervosamente lo aprì.  Era stato compilato con una matita e riportava tre informazioni, una sopra l’altra. 
La prima era una data: 10-09-2015, la seconda un nome, la terza un indirizzo.

L’ascensore scese velocemente fino al piano terreno e le porte scorrevoli si spalancarono sulla reception dell’albergo. 
Fu accolto da un trambusto di voci, clienti frettolosi e facchini indaffarati. Il banco con il portiere di turno era dalla parte opposta della sala dove una bruna con gli occhi verdi mostrava le sue forme di giovane donna, valorizzate da un vestito grigio elegante e da un’abbronzatura di giornata.
Attraversò l’ambiente senza che nessuno lo salutasse e andò incontro alla ragazza, pronta a riceverlo con un sorriso  irresistibile. Prima ancora che potesse salutarla, la bruna gli sporse un documento di identità. Lo ritirò senza commentare ed elargendo un sorriso a sua volta.
«Buongiorno signor Serratos, la mia collega del turno di notte è molto dispiaciuta  per non essere riuscita a...a restituirle subito il documento. Per lei, questa sera, la cena è offerta dalla casa, con le scuse della direzione.» Disse, indicando con la mano la porta della sala ristorante che brulicava di clienti, tutti alla seconda portata.
Ringraziò, prese la carta di identità e vide la foto, che corrispondeva alla sua faccia, solo con i capelli un po’ più lunghi. Finse di indirizzarsi al ristorante ma svoltò in direzione dei bagni. Lo fece con una certa dimestichezza, come se eludere le attenzioni della gente fosse parte del suo mestiere abituale.
In bagno non c’era nessuno. Sul documento compariva il suo nome ma la cosa non gli diceva niente. Dal momento che la memoria non voleva accennare a riaccendersi, si diresse ai terminali messi a disposizione dei clienti. Erano un paio, sistemati all’interno di due piccole cabine aperte sul davanti. Ricordavano le vecchie postazioni dei telefoni pubblici.
Fece partire il browser e digitò immediatamente il nome che compariva sul documento: Miguel  Serratos.
In breve apparvero una mezza dozzina di righe, due delle quali riguardavano delle pagine Facebook, la prima di un giovane con cresta, tatuaggi e piercing ovunque, la seconda di un simpatico pensionato di Gandia col pollice verde, a giudicare dalle foto meravigliose del giardino di casa. Cliccò anche sulla pagina di una ferramenta di Burgos, sulla notizia di un incidente stradale il Galizia, dove il suo omonimo aveva trovato la morte e sul sito di un dentista colombiano, che con lui non aveva nulla a che fare. Seguivano altri Serratos senza Miguel, poi altri Miguel senza Serratos.
In preda allo sconforto si diede una botta sulla tempia con il palmo della mano, come se quel gesto potesse spaventare i neuroni e costringerli a riorganizzare i suoi ricordi andati in acqua, quindi digitò l’altro nome misterioso, quello che aveva trovato scritto sul biglietto insieme all’indirizzo.
Maria Manuela Jimenez Martinez…clic. 
Attese un paio di secondi ed ecco comparire un profilo di Facebook. 
Si trattava di una giovane donna, apparentemente dell’età di ventotto o trent’anni. 
Era bella, bionda e generosa nelle forme. Portava i capelli lunghi e il tatuaggio di un piccolo scorpione sulla spalla sinistra. Chiara di carnagione, con gli occhi di un ricercatissimo verde, mostrava delle labbra carnose e due sopracciglia perfette, che si alzavano sui lati come le ali di un’aquila. Degli orecchini minuscoli si notavano appena dietro le chiome perfettamente pettinate, che incorniciavano l’ovale del viso come se un'abile mano l'avesse pitturate. S'immaginò profumasse di crema solare.
Non contento aprì la pagina delle info. La ragazza non ci teneva a difendere la sua privacy. Aveva dichiarato di abitare ad Alicante, esattamente come era scritto sul  bigliettino giallo.
Chiuse il browser  e ritornò in camera sua.
Dalla finestra il medesimo spettacolo di prima, con il solito traffico, il solito caldo opprimente e un'unica certezza: Miguel Serratos, chiunque fosse, era un nome che non lo riguardava, era un nome falso.





L’itinerario da seguire  era stato studiato a tavolino, non erano ammessi dubbi o ripensamenti.
La meta era un grattacielo in Avenida Cajal, che cominciava a dare segno della sua imponenza molto prima di presentarsi al suo cospetto.
Camminava di buon passo sul lungomare, con le spiagge immense a un paio di file di palme da lui. Per quel giorno non era previsto il bagno di sole, né la passeggiata sulla sabbia bianca con l’acqua del Mediterraneo a lambire le caviglie nude. Quel giorno si doveva portare il peso di enormi interrogativi assieme a quello della pistola nascosta nella tasca interna della giacca. 
Chi era Maria Manuela Jimenez Martinez? 
Cosa aveva fatto di male per meritarsi la sua visita? 
Ma soprattutto: lui la doveva salvare o la doveva uccidere?
La risposta a questi  interrogativi non era scritta nel biglietto che qualcuno aveva recapitato all’albergo in mattinata, sporto in busta chiusa dalla portinaia con troppo fondotinta e accompagnato da un sorriso di circostanza.
Mancavano solo due isolati prima del palazzo bianco che doveva raggiungere, e non aveva risposte. Non le aveva nemmeno per quanto riguardava la sua identità. Sul biglietto era segnata un’ora, con la prescrizione tassativa di non tardare, nemmeno di un secondo. Diceva anche di salire al ventiduesimo piano, presentandosi prima al portinaio col nome di Miguel Serratos, quello suo, quello falso. Una volta arrivato, avrebbe dovuto aspettare la ragazza e colpire. 
Ma colpire chi?
Miguel, o chi diavolo fosse lui, non aveva indirizzi a cui rivolgersi per chiedere delucidazioni, o perlomeno per rifiutare un incarico  del quale erano troppo poco chiari gli estremi contrattuali. Inutile dire che, in calce al documento, non era riportato il solito  numero verde dell’assistenza.
Intanto, come nei peggiori degli incubi, il palazzo si era materializzato davanti a lui senza che nessun ostacolo si fosse frapposto fra il suo cammino e il suo appuntamento.
Attraversò la strada sulle strisce, attendendo che la combinazione di velocità, intensità e buona educazione gli permettesse di farlo. In breve fu sulla porta, dove quattro larghi scalini di marmo bianco invitavano a calpestare una moquette color zucchino che sembrava invogliare la fuga, più che accogliere il visitatore.
Sotto la dettatura di un impulso, tentò ancora di ricordarsi chi fosse, ma fu l’ennesimo sforzo vano.
Il primo gradino fu superato.
Cercò negli arredi e negli elementi architettonici uno spunto, qualcosa che potesse aiutarlo a riguadagnare la memoria, magari insieme ad un odore familiare o a un viso amico.
Il secondo gradino era già alle sue spalle.
Quando anche il terzo passo venne compiuto, e la porta automatica in vetro si spalancò di fronte a lui con un soffio leggero, la pistola pesava sul fianco come un cilicio e un uomo in divisa gli venne incontro piantandogli gli occhi addosso.
«Desidera?»
La sua voce venne fuori impostata, come l’attore di uno spot televisivo. «Serratos. Miguel Serratos. Sono qui per fare visita alla signorina Jimenez Martinez.»
Il portinaio, un uomo di mezza età con due baffoni da nostalgico degli anni '70 e un profumo da dopobarba del supermercato, indugiò qualche istante e poi fece cenno di seguirlo. Lo accompagnò a uno dei tre ascensori, quello sotto la targa con la scritta T-22, pigiò il pulsante giusto  e lo invitò a salire:
«Ventiduesimo piano, appartamento cinque…» sentenziò, prima di congedarsi con un sorriso privo di qualsiasi entusiasmo.
Solo, nel centro della cabina, chiuse gli occhi e chinò la testa. Non aveva le cuffie alle orecchie, l’unico accessorio che mancava per farlo sembrare il concorrente disperato di un telequiz alla vana ricerca di quella risposta da cinquecentomila euro, quella risposta che si era incastrata fra le cellule del suo cervello e che non voleva uscire come una lisca di pesce bloccata in gola. 
Il tempo era scaduto.
Nessun ricordo ripescato, solo un'improbabile tappezzeria a quadri che si era manifestata all’apertura delle porte e una freccia inequivocabile che indicava una direzione, la destra, per un appartamento, il numero cinque.
Consultò l’orologio al polso, segnava le 17,22.
Otto minuti ancora per cercare di ricostruire la sua vita, per cercare di non commettere uno sbaglio.
Si sforzò di immaginare cosa avrebbe fatto, quando la bionda con il piccolo scorpione tatuato sulla spalla si fosse presentata di fronte a lui. L’avrebbe freddata con un unico colpo sparato in mezzo agli occhi? Avrebbe cercato nel suo sguardo quelle risposte che lui non si era saputo dare? Avrebbe girato le spalle e sarebbe andato incontro al suo destino, qualunque fosse stato?
17 e 23. Sette minuti ancora e nessuna certezza.
Doveva forse uccidere una spia pronta a trafugare segreti militari importantissimi, oppure stava per eliminare una pericolosa terrorista in procinto di innescare il telecomando di un’arma biologica?
Forse lui era solo un killer senza pretese, al soldo di un marito geloso o di una collega umiliata, oppure era l’angelo custode di Maria Manuela Jimenez Martinez, una povera donna che, senza il suo intervento, sarebbe caduta sotto i colpi di un assassino portando con lei le prove cardine di un processo importantissimo? Senza certezze, portò la mano sudata all’interno della giacca e avvertì sotto i polpastrelli la superficie ruvida dell’impugnatura. L'arma era con lui. Era tutto vero. La sua scomoda compagna di avventura non era scivolata via, scendendo lungo la gamba dei pantaloni per finire sul marciapiede, dimenticata e scalciata dai passanti distratti.
17 e 25. 
Una manciata di secondi e poi avrebbe scelto.

Guardava fuori dalla finestra al fondo del corridoio, uno di quei serramenti tutta luce con il telaio incorporato nella muratura. Praticamente un vetro. 
Era diviso da un panorama meraviglioso che inquadrava la città abbagliata dal sole, la prospettiva dei grattacieli che seguivano la curva del golfo e il castello di Santa Barbara sul rilievo roccioso del monte Benacantil. La spuma bianca delle onde, vista da lassù, era un irrinunciabile invito per un bagno nelle acque tiepide, rilassato, senza pensieri e con il corpo abbandonato ai flutti. Avrebbe voluto aprire quella finestra e avere le ali, per volare via e atterrare su un tetto qualunque a godersi il vento caldo del pomeriggio. Purtroppo per lui la finestra non si poteva aprire, le ali non gli erano spuntate ed erano le 17 e 28.
Fissare la sua immagine semitrasparente nel vetro non lo aveva aiutato a capire. Niente del suo passato era emerso. Lui continuava ad essere Miguel Serratos, un uomo con un nome preso in prestito, senza una storia, senza una speranza.
Si rassegnò all’evidenza e cominciò ad avvicinarsi alla porta dell’appartamento cinque, valutando contemporaneamente se al piano ci fosse qualcun altro. Nessuno, a parte il ronzio ipnotico del condizionatore e le vibrazioni sommesse degli ascensori che passavano indefessi attraverso i piani.
Sulla porta c’era il nome della persona con cui aveva appuntamento. Era scritto per esteso, con i cognomi dei due genitori e i suoi due nomi di battesimo. All’interno si avvertivano dei passi concitati. Probabilmente stava per uscire e si muoveva attraverso le stanze alla ricerca di qualcosa lasciato indietro: la borsetta, il cellulare o la pistola con tredici colpi nel caricatore.
17 e 29.
Fece qualche passo indietro. Maria Manuela stava per uscire.
Improvvisamente un ricordo gli trapassò la testa, come un lampo inatteso prima di un temporale.
Per istinto si portò le mani alla tempia, nel tentativo di bloccare l’informazione, elaborarla, ricavare qualcosa di prezioso. Fra le sue mani rimase la sola metaforica coda di quella lucertola che aveva attraversato velocemente la strada di fronte a lui, accecato da un sole troppo forte per i suoi occhi appena usciti dal buio.
Passarono i secondi e il volto di una donna si ricompose sullo sfondo di un paesaggio rurale. Si trattava della sua compagna o di sua madre? Gli occhi di lei erano carichi d’amore e serenità. I vestiti appartenevano a un’epoca che non era la sua. Forse la mente aveva ricominciato a ricomporre la sua esistenza partendo dall’infanzia?
Un secondo lampo, questa volta meno inatteso ma altrettanto sorprendente. Una piccola città adagiata fra le montagne brulle. Sullo sfondo la sagoma di un toro e un nastro di asfalto che l’attraversava sul fianco. 
Mancavano pochi secondi all’ora prestabilita e una serie di immagini si susseguirono come i fotogrammi di un film: uomini, donne, bambini, animali. 
Una scuola nella pioggia autunnale, un paese lontano, irriconoscibile, un’auto che percorreva la strada deserta, con un paio di piedi nudi sul cruscotto e una misteriosa musica di sottofondo. No, non era affatto misteriosa! Erano i Mott The Hoople che cantavano Whizz Kid. Quel riff, tanto semplice quanto efficace, non lo si poteva dimenticare facilmente, insieme a tutti quel suoni così leccati e a quella voce rauca: “far far  from home, oh I felt so alone. Could not spin to the speed of the city”.  Una rissa dentro a un bar, un uomo morente nella corsia di un ospedale e un berlina nuova, che brillava sulla pedana in velluto dell'autosalone. 
Prima che Maria Manuela potesse apparire sulla  porta, si concretizzarono altre sensazioni: giovani ragazze che profumavano di lucidalabbra alla pesca,  preservativi difficili da infilare, marijuana,  fumo bianco della discoteca che ricorda il borotalco e succulente torte con la panna. Un pallone da calcio che rotolava nel prato incontro a un portiere con la faccia spaventata. Un tuffo dallo scoglio e un neonato tenuto fra le braccia, con la delicatezza con cui si sarebbe maneggiata una bomba. 
Ancora ricordi, ancora lampi: un professore severo dietro la cattedra, un treno strapieno di giovani attraverso lande sconosciute, una chitarra appoggiata al muro vicino ad un posacenere pieno, un computer che si accendeva lento in mezzo ad un concerto di ventole e scricchiolii. Una motocicletta che scivolava sull’asfalto bagnato. 
Il bombardamento sensoriale non accennava a finire: l’odore di sudore di una palestra pulciosa, con decine di palloni bianchi che rimbalzavano impazziti sulle pareti, le mille luci disordinate di una sagra di paese, una pistola impugnata fra le mani tremanti e un barattolo lontano, difficile da colpire…
Maria Manuela gli apparve all’improvviso, confusa con i ricordi che stavano facendo a spallate nella sua mente. 
Quando vide una pistola puntata contro di lei, Manuela rimase impietrita, con la porta alle sue spalle che si era appena chiusa con uno scatto. In preda al panico più genuino, prese ad armeggiare nervosamente all’interno della borsetta mentre il trucco appena applicato evaporava a causa di quel calore improvviso che aveva assalito il suo volto. 
Lui la guardò, interrogando quegli occhi verdi che trasmettevano solo paura.  Aveva addosso un vestito arancione pallido, attillato e succinto, quanto bastava  per mettere in evidenza il tatuaggio con lo scorpione ed un corpo che per giustizia divina doveva continuare a respirare.
Rassegnata, lasciò cadere in terra la borsa che rovesciò il suo contenuto delle cose di tutti i giorni, compresa una bomboletta di spray urticante che evidentemente si era andata a cacciare nel fondo, proprio nel giorno in cui avrebbe potuto dimostrare tutta la sua utilità.
Le dita del finto Miguel Serratos si strinsero sull’impugnatura dell’arma e sul grilletto sensibile. Nella sua testa venivano riversati tutti i dati che in quei giorni era andato inutilmente a cercare.
Un istinto animale lo costrinse a girarsi verso il corridoio, allarmato più da un odore che da una visione concreta di quello che stava per succedere. La figura di un uomo  spuntò dietro l’angolo. Correva con il braccio teso, all’estremità del quale una grossa pistola indirizzava la canna nella sua direzione.
L’immagine reale dello sconosciuto che lo teneva sotto tiro, si alternò con quelle virtuali che venivano vomitate nei suoi pensieri, come se la sua testa si fosse trasformata in un sistema cibernetico impazzito. Uno stadio pieno all’inverosimile, ruggiva, un bambino correva nel prato con un cane che disegnava evoluzioni pazze attorno a lui. L’altare di una chiesa, la vetta di una montagna con un tappeto di nuvole a perdita d’occhio, una pinacoteca immensa, con migliaia e migliaia di opere esposte.
L’uomo si avvicinò, gridando delle parole che si persero in quell’orgia di sensazioni e Maria Manuela contrasse il volto in una smorfia che anticipava un pianto disperato.
Il primo proiettile lo sfiorò appena, fischiando sopra la testa. 
In quel momento l’aroma di una birra appena aperta precedette la visione di un pesciolino rosso, sorprendentemente morto nella sua boccia di vetro. Quando l’immagine di suo figlio si delineò nei pensieri, il secondo proiettile lo colpì nel centro del petto. 
Cadde in terra, raggiungendo l’arma che aveva già deciso di non usare. Appena vista la rassegnazione che si era dipinta sul volto della povera ragazza aveva fatto la sua scelta.
Appoggiato con la schiena al muro sentiva la vita abbandonarlo, proprio mentre il fiume dei ricordi stava per riempire quel bacino, vuoto solo fino a qualche secondo prima. Sentì ancora le parole di sua madre, che si raccomandava di andare piano in auto. Poi vide la sua compagna, con un bicchiere di liquore in mano e quello sguardo triste, mentre lui partiva per una missione lontana.
L’uomo che lo aveva colpito gli passò accanto e allontanò la sua pistola con un calcio. Lo esaminò da vicino  e convenne che il suo obiettivo era stato neutralizzato. Abbracciò la donna in lacrime e l’accompagnò in casa.
Un attimo prima di morire la sua memoria era tornata completamente.

Era un sicario della criminalità organizzata.
Nel suo paese, un piccolo centro nei pressi di Siviglia,  la compagna e il giovane figlio lo stavano aspettando, ma lui non sarebbe mai tornato.
Avrebbe dovuto uccidere la consorte di un giudice, che nessuno sarebbe mai stato in grado di proteggere. Per fortuna la sua memoria non aveva funzionato. 
Appena arrivato all’albergo era scivolato in bagno. Una piccola, insignificante pozzanghera di acqua e sapone che l'inserviente distratta aveva lasciato evaporare sul pavimento. La botta, il lampo e poi era svenuto dimenticandosi tutto.
L’uomo che lo aveva abbattuto era un certo Miguel Serratos, agente dei servizi segreti.
Lui, invece, si chiamava Juan Alberto Sanchez, di quarantatré anni. 
Aveva scelto di essere una brava persona.



© Diritti riservati