giovedì 10 dicembre 2020

Io e Paolo Rossi. Ricordi di un'estate, ma cinque anni prima di quell'estate che avete in mente voi...




 

Era l'estate del '77, non avevo ancora undici anni e mia madre mi catechizzava affinché mi tenessi lontano da tutto quello che riguardava la passione per il calcio, comprese le risse da bar e naturalmente gli stadi. Probabilmente aveva ragione e ci aveva visto lungo ma la voglia di prendere a calci il pallone, alla fine, si era manifestata lo stesso, con la medesima puntualità con cui qualche anno dopo sarebbero arrivati i brufoli e poi, come diceva Battiato, quegli stupidi innamoramenti senza senso. 
Si era capito subito che io e i miei quaranta chili di pelle e ossa non saremmo mai finiti sull'albo d'oro dei cannonieri e nemmeno avremmo fatto trasferte oltre quei cinquantatré chilometri che dividevano il mio paese dal capoluogo. Però a pallone si giocava eccome, e quando non c'era modo di mettere insieme un paio di squadre con almeno quattro elementi per parte, tipo Brasile-Italia, Brasile Francia o Brasile Real Madrid, ci si accontentava di sudare in pochi quelle magliette fresche di bucato, di decretare la fine dei jeans nuovi e di condannare a morte certa le scarpette da tennis. Fra le messe in scena più ricorrenti - perché si trattava di vere e proprie interpretazioni da Actor Studio - c'era quella dove si assumeva l'identità di un certo, preciso campione di calcio, idolo delle folle e inarrivabile figurina da scambiare a scuola dopo estenuanti trattative e si prometteva - dichiarandolo in anticipo come la palla in buca alla partita di bigliardo - di colpire di testa o al volo o in rovesciata, il pallone che qualcuno si sarebbe impegnato a calciare pressappoco dalle tue parti. E se ci riuscivi, se davvero veniva bene quella sforbiciata o se quell'incornata dopo cinque metri di rincorsa centrava l'incrocio della porta senza rete, avevi il diritto di correre attraverso il campetto, esultare alla maniera del campione che avevi dichiarato di essere, saltare fino allo sfinimento e contemporaneamente improvvisare la cronaca, completa di giubili, termini ridondanti e disturbi radio. Se eri bravo, ma bravo per davvero, riuscivi anche a imitare la folla urlante che accompagnava la gioia del commentatore.
Erano rare ma capitavano quelle occasioni in cui si rimaneva in due, io e l'amico. L'amico, ricordo, aveva messo il pallone sul fazzoletto di erba ingiallita da dove di solito partivano i traversoni, si era guardato intorno e aveva sgranchito le gambe e cercato la concentrazione giusta dopo avere saggiato le correnti d'aria. Prima di calciare, però, prima di rischiare la mia scarsa stima per la poca precisione del passaggio o peggio, prima di correre il rischio di centrare il cespuglio di rovi e porre prematuramente fine alla carriera del pallone di gomma, mi aveva guardato preoccupato. Era un tipo preciso, lui, e vi giuro, ancora adesso rompe il culo ai passeri. In quel gioco non si poteva improvvisare, il pressapochismo era bandito e la scarsa serietà, ne eravamo certi, avrebbe portato sfortuna almeno fino a ferragosto.
- E allora?
- E allora cosa? avevo domandato. 
- E allora chi fai?
Aveva ragione da vendere. Mi ero giocato Causio, Rivera e Chiarugi. Boninsegna aveva colpito il palo al principio del pomeriggio e Chinaglia niente, non mi era mai piaciuto. Avevo un debole per Roberto Dinamite, il Brasiliano che faceva partire missili  e siluri ma non mi sentivo all'altezza, non con le gambette da passerotto  e quella maglietta che mi arrivava alle ginocchia.
- Benetti, avevo risposto.
Non che ci capissi di calcio. Mi interessavo e sentivo quei pruriti e sapevo che presto me ne sarei innamorato definitivamente ma per il momento, per quell'estate, mi accontentavo di ascoltare i discorsi degli amici, di seguire la domenica, annoiandomi un po', il secondo tempo della partita che era il pane per nutrirsi di calcio per tutta la settimana. E poi rimanevano le biglie e i titoli di giornale letti a sbafo mentre si moriva di noia nei pomeriggi azzurri e lunghi. Ma Benetti mi era rimasto impresso, per quella faccia da vichingo di pessimo umore, per la pelle butterata come se uno sciame di meteoriti l'avesse bombardato senza fargli male. Per le spalle larghe e per quel sorriso da squalo che si vedeva sì e no una volta l'anno. L'obiezione dell'amico era stata pronta:
- Ma Benetti è un centrocampista. Se proprio devi, fai Zaccarelli.
Ma il mio cuoricino da tifoso, quello che presto sarebbe diventato un cuore adulto e pieno di passione, batteva per quell'altra sponda, quella dei cattivi/ladri e  dei tifosi tutti analfabeti e ciucciapiselli della famiglia Agnelli e...
- No. Zaccarelli non lo faccio!
- E allora - mi aveva suggerito e già sapeva che non si sarebbe stupito di tutta la mia ignoranza. - E allora fai Paolo Rossi...
Preso alla sprovvista e temendo uno scherzo, gli avevo chiesto chi fosse costui, con un nome tanto banale da essere poco originale pure per una striscia di Bruno Bozzetto. Paolo Rossi, un nome così diffuso, dozzinale, prevedibile. Rossi, lo ricordavo bene perché la maestra ci aveva fatto una lezione, era il cognome più comune insieme a Bianchi e poi Verdi perché le cose stavano così, erano sempre state così. Il nostro paese era diviso in contrapposte fazioni dalla notte dei tempi e allora quel Paolo Rossi cosa doveva avere di tanto speciale? Il mio amico, che come vi ho già detto era un tipo assai preciso e vi garantisco che anche adesso...mi aveva ragguagliato. Poche ma utilissime informazioni.
- E' un opportunista... era stata la risposta.
- Come...come Cruijff? 
- Ma no! Cruijff è uno tecnico, con i piedi d'oro. Uno che ti porta a spasso per mezz'ora e poi, quando ti penzola la lingua fin sotto il mento, scarta ancora il portiere e la butta dentro. Come Claudio Sala, il poeta del gol.
La mia sentenza era stata emessa senza nemmeno prendere in esame le prove - E allora Paolo Rossi è una pippa!
Era deluso. Troppo poco calcio masticato e ancora quelle lacune tattiche che avrei dovuto colmare quanto prima. - E allora fai Bettega - Mi aveva detto sollevando le spalle rassegnato e  ora non ricordo più. Non ricordo se avessi trovato un colpo di testa solo vagamente simile a quelli di cabeza blanca o se, semplicemente, avessi mandato il pallone a sgonfiarsi in mezzo ai rovi. Quello che ricordo, invece, è che da lì in avanti mi ero interessato di quel Paolo Rossi: biografia, statistiche, caratteristiche tecniche e poi di tutto il resto. Avevo seguito le coppe internazionali e le amichevoli. Sport Sera era diventata la mia trasmissione preferita e poi la Domenica Sportiva, ma solo se il giorno dopo non mi aspettava il compito in classe. L'estate seguente, giusto in tempo per i mondiali, ero ormai un tifoso indiavolato, un delinquente compiuto e pericoloso, portato via a braccia dai bar in riviera dove si vedevano le prime partite a colori. Mio padre, imbarazzato, si scusava con gli avventori per il mio carattere per così dire, esuberante e mi accompagnava in un secondo bar per assistere alla ripresa. Lui non lo sa mica ma Argentina - Italia, quella del mondiale dei colonnelli, andata in Tv nel cuore della notte e dove Bettega aveva colpito i pali fino al punto di prenderli a testate per la disperazione, l'avevo origliata dalla mia cameretta.
Ecco, Paolo Rossi era entrato così nella mia vita e insieme a lui quella meraviglia di gioco che è il calcio.
Oggi Paolo Rossi ne è uscito e non so se voi, non so se fra quelli della mia età, fra quelli che hanno vissuto le estati con la paura che il pallone finisse nei cespugli, fra quelli che si sono sbucciati le ginocchia sull'asfalto e che quando il tiro era alto -e la porta era fatta con le giacche- ci si intendeva con un'occhiata fra una squadra e quell'altra, ci sia qualcuno che sente il vuoto che sento io.