giovedì 22 dicembre 2016

Le palle di Natale (il seguito e la conclusione di Due ore di ritardo e Gli amanti pericolosi)








LE PALLE DI NATALE
(il seguito e la conclusione di Due ore di ritardo e Gli amanti pericolosi)





Scappa scappa c’è il barbone
Brutto nero ed accattone
Se ne va e lascia la borsa
Scappa e prendi la rincorsa.

La moneta cadde, e andò a sbattere con un rumore sordo insieme a quelle altre.
Sotto la stoffa lercia di quello che rimaneva di un cappello da pescatore, il senzatetto si era premurato di metterci uno straccio piegato in due, per evitare che l’inconfondibile tintinnio dei soldi potesse solleticare l’orecchio di qualche malintenzionato.  
Seduto su di una serie di toppe sovrapposte fra loro, occupava solo un terzo di quel largo marciapiede e l’alone del suo cappotto lacero era ormai impresso sul ricordo di giallo Torino che avanzava sul muro. La filastrocca cretina gli stava suonando in testa come un antifurto guasto, ma era simpatica, dopotutto. Aveva provato a cantarla su base train blues di dodici misure e anche adattandola a un gipsy jazz e, in tutti due i casi, l’arrangiamento lo aveva divertito.  
Era antipatico non alzarsi di fronte a una signora, lo sapeva, ma sotto quella coppola di lana e dietro quella barba lurida c’era la faccia di un uomo che ormai non si vergognava più di nulla, e da un bel po’.
«Grazie, grazie di cuore, Sara!»
Lei prese dalla borsa il solito paio di pacchi e li porse al senzatetto.
Come ogni giorno, come da alcuni giorni a quella parte, l’uomo raccolse il primo dei due, lo mise nella sacca di juta accovacciata alla sua destra e aprì immediatamente l’altro. Un odore di formaggio fresco, misto a pane di giornata, lo fece intenerire. Ne addentò subito un boccone e sollevò lo sguardo in segno di gratitudine. Sara si chinò, sfiorando il marciapiede con il loden verde militare. Non c’era nessuno lì intorno, ma per prudenza sussurrò.
«Non ti abbuffare, però!» Ebbe in risposta solo un rumore di mandibole. «La prossima volta ti porto anche un po’ di vino, per buttare giù il boccone…»
Annuì, o almeno fu quello che le sembrò di interpretare nello sguardo.
Alle sue spalle la città si stava avventurando incontro all’ennesima lunga notte invernale, con le case in lontananza vestite con uno scialle di luci colorate e una discutibile bigiotteria di pendagli elettrici, sistemati ai balconi secondo l’estro del momento. I Babbo Natale, appesi alle finestre come fossero impiccati, sancivano la definitiva morte del buon gusto e dal traffico si levava una nube grigia e compatta, stesa come un sudario su quelle vite tutte uguali.
Il pezzo di strada fino al cancello lo percorse rasentando il muro.
Incrociò l’avvocato, un uomo tutto ossa e con le spigolosità del viso che sembrava volessero tagliare la pelle. Aveva addosso un disgustoso giaccone blu con pelliccia di cane, delle scarpe trovate in un pessimo negozio e una borsa in pelle marrone con angolari metallici di rinforzo. Una testimonianza di oro era rimasta sulla serratura a combinazione e sulle cerniere della maniglia. Si disse che lei avrebbe potuto fare meglio, solo buttando i resti di un sacco della raccolta differenziata addosso ad un palo in mezzo alla campagna. La voce uscì come da una radio rotta.
«Signorina Sara, buonasera.» Porse la mano ma ebbe in cambio un’occhiataccia. «Ho visto adesso il mio assistito e ci sono buone notizie…»
«Ma davvero! E quali?»
L’avvocato si mise alla ricerca della cartellina all’interno della borsa. Lo fece goffamente e una biro placcata argento cadde rimbalzando sull’asfalto. Cercò di individuare negli occhi di Sara il permesso di raccoglierla ma non lo colse. «Possiamo portare in appello la sentenza della corte d’assise. Mi spiego…»
«Cosa vuoi  portare in appello?»
«La sentenza della corte…»
«Tu vuoi  portare in appello la sentenza di tre ergastoli?»
Gli occhi si strinsero come se si aspettasse un ceffone. «Possiamo sempre chiedere l’infermità mentale…»
La mano fu talmente veloce che si infilò sotto la giacca e andò ad attorcigliare assieme i peli del petto, che crescevano generosi dietro la camicia. «Tu sei infermo di mente, piccolo inutile avvocato fallito! Ti dovrei appendere come palla all’albero del quartiere. Ti piace l’albero del quartiere?» Si girò in direzione della muraglia di palazzoni grigi che decretavano l’inizio della città. Le luminarie si erano accese da poco e spiccavano in altezza sulla colonna rossa dei fari in attesa al semaforo.
«Oh, un gran bell’albero!»
Si fece ancora più seria «Vattene!»
Fece un primo passo indietro.
«Ho detto vattene!»
Quando fu a distanza di sicurezza mise una mano avanti con il palmo spalancato. Era la ricerca di una trattativa che non poteva sicuramente decollare.
«Sei ancora qui?»
Non rispose. Si girò in direzione del parcheggio e attraversò la strada senza aspettare di raggiungere le strisce pedonali. Un’auto lo sfiorò assieme a una bestemmia.
Quando arrivò alla sua Range Rover azionò il telecomando per l’apertura automatica delle portiere.
La fioca luce che le frecce proiettarono in terra, sebbene solo  per un paio di secondi, fu sufficiente per fargli l’anteprima di una delle quattro gomme squarciate
  

La cosa peggiore del carcere era il muro perimetrale che non finiva mai.
Per prudenza le auto dei visitatori dovevano essere parcheggiate lontane e, tutto il tratto di strada da percorrere prima di arrivare alla porta, lo si faceva zigzagando fra buche, feci di cane e lordure di orina che colavano dalle pareti. Il barbone, l’unico di tutta la zona e stranamente tollerato dalle guardie carcerarie, aveva ottenuto con la sua presenza di fare desistere i cani nell’alzar la gamba e gli umani nello sbottonarsi la patta. Era per quel motivo che Sara lo premiava, ad ogni passaggio e con pietanze di volta in volta diverse.
La sala colloqui del carcere era affine in qualche modo ad un ufficio postale degli anni '70: barriera di vetro antiproiettile, parlatorio protetto da una fitta rete di ferro e tante sedie allineate lungo una fila che sembrava non finire mai. La luce forte alterava i tratti dei colloquianti, che spesso stentavano a riconoscersi da una parte e quell’altra del cristallo.
Quel giorno il locale era pieno più del solito, vuoi per la prossimità del Natale, vuoi per il freddo, che intristiva i detenuti al punto tale che sollecitavano più visite possibili. Diego si presentò pettinato di tutto punto e con la barba appena revisionata con mano ferma. La tuta arancione, osservò Sara, gli stava un po’ larga di spalle e cadeva con un’insopportabile grinza proprio all’altezza dell’ombelico. Quando Diego passò dinanzi alla guardia, questa le riservò un mezzo sorriso strappato al protocollo.
Si mise a sedere dall’altra parte della barricata, accomodandosi su uno sgabello tenuto malignamente basso. L’istinto di scambiarsi un saluto toccandosi le mani fu forte, ma il freddo del metallo non fece che aumentare  la frustrazione. A fianco, un ometto tutto nervi e senza un solo capello in testa, conferiva con la figlia di certi sviluppi della sua condanna per rapina. Gesticolava nervosamente e spostava più aria di un ventilatore. Dalla parte opposta, e per fortuna, una seggiola vuota. Diego si lasciò andare verso quella direzione.
«Come va, amore?» Chiese lui, fingendo che la sua condizione di ergastolano non gli stesse pesando affatto.
«Oh una meraviglia, caro! Fra una settimana è Natale e non so con chi lo passerò. A pensarci bene fra due settimane sarà capodanno, e anche lì non saprò chi mi farà compagnia…»
«Mi dispiace, amore…»
«Ma di cosa? Certo, se non ti facevi prendere era meglio, che dici?»
Diego si guardò le spalle. La guardia stava sbadigliando senza essersi messa la mano davanti alla bocca. Se avesse insistito ancora un po’,  pensò lui, gli sarebbero saltati i bottoni della camicia.
«C’è un odore schifosissimo da questa parte…»
Lei sembrò risentita. «Be’, anche dalla parte delle persone libere sembra che non sia la pulizia la prima preoccupazione anzi, la vedi quella signora?» Indicò una donna sotto un cespuglio di capelli indomabili. «Prima di entrare si è fumata una canna, l’ho vista io. Era talmente carica che quando è passata alla porta ha fatto scattare sull’attenti tutti i cani antidroga. Poveri, se avessero saputo che la signora doveva solo farsi uno shampoo, non si sarebbero dati tanta pena…»
Lui riconobbe il detenuto. Stranamente era dentro per spaccio.
«E comunque c’è un odore schifosissimo!»
Lei si avvicinò al vetro. «Ho capito, ma cosa c’entra?»
«Niente, non capisci. È un diversivo. Fino che stai a lamentarti è tutto regolare, le guardie non ti controllano. Qui dentro tutti si lamentano!»
«E allora lamentati del cibo!»
«ssst. No, quello no! Chi si lamenta del cibo viene messo in cattiva luce …»
«E da chi?» Sussurrò lei.
Si guardò intorno. «Il cuoco, pare che abbia più autorità del direttore…»
«Il cuoco?»
«Certo! Qui dentro è un mondo all’incontrario e comanda il cuoco!»
«E che succede se ti fai nemico il cacchio di cuoco?» Domandò lei, e nel farlo si disegnò un sorriso artificiale in faccia. Era sicuramente il primo di quel giorno, della settimana, del mese e probabilmente dell’ultimo anno.
«Non giochi più a pallone…»
Questa volta si lasciò scappare una risata sonora. «Ah, quindi il cuoco è il commissario tecnico del braccio B?»
Liquidò la questione facendo attenzione a non alzare la voce. «Più o meno sì, niente cuoco niente partita. Nemmeno in panchina puoi stare…»
«E tu sei nelle grazie del cuoco, amore?»
Si toccò il petto orgoglioso. «Titolare!»
«Wow! E in che ruolo?»
«Portiere.» Rispose lui, lasciando che la tristezza arrivasse intatta dall’altra parte del parlatorio.
Sara fece uno sforzo. Pur non essendo il calcio la prima delle sue passioni, e sapendo che non erano i classici ventidue uomini in mutande a rincorrersi in un prato la sua ragione di vita, si ricordava che il suo amante aveva giocato a pallone talvolta, di solito distruggendo con gli amici un bel prato di margherite in montagna, ma sempre ed esclusivamente nel ruolo di attaccante.
«Tu sei una pippa come portiere!»
«Lo so! Però è l’unico modo per stare a lungo nel cortile…l’ora d’aria, capisci di cosa parlo?»
«Ma la partita non dura novanta minuti?»
«No, qui un’ora. Mezz’ora per tempo…Inizia alle quattro del pomeriggio e finisce alle cinque. Tutti i giorni di tutti i mesi di tutti gli anni che passano in questa topaia.»
«E tutto questo perché l’ha deciso il cuoco…»
«No! Ma che c’entra il cuoco. Il ministero dell’interno l’ha deciso!»
«E scommetto che voi cambiate campo nell’intervallo?»
Si fece serio «Naturalmente, ecchecazzo!»
Dalla porta del parlatorio sbucò un detenuto. Sui cinquanta, giovanile, tonico e con una faccia decisamente da sberle. Era rilassato e sapeva portare la tuta del carcere con una certa disinvoltura. Entrando salutò Diego con un sorriso, senza levare le mani di tasca. La moglie l’attendeva dall’altra parte, paziente e con un paio di libri da leggere tenuti in grembo.
«Ti sei fatto il fidanzato, Diego?» Domando lei trattenendo a fatica una risata.
«Ma va, è simpaticissimo! Gioca sempre a calcio contro di me e mi fa spesso gol…ha una castagna terribile di destro, e anche di mancino non se la cava male!»
«E la cosa ti fa piacere?»
Lui avvicinò la bocca al vetro, come se non volesse farsi sentire da nessuno. Lei, che vide la guardia scaccolarsi, non temette un richiamo. «Non c’è la rete come nel calcio vero. La porta  è disegnata sul muro e, se la palla passa, spesso ti rimbalza direttamente nelle chiappe…»
«Capisco, e per quale motivo è in gabbia costui?»
«E’ un NO TAV…»
«Urca, e cosa avrebbe mai fatto?»
Mise la mano di fianco alla bocca. «Teneva una pagina di satira con degli amici, una cosa che andava. Un giorno, pare, ha fatto una battutaccia sugli sbirri e tac, processato per direttissima…» La mano di lei si strinse in un pugno.
Dispiaciuta chiese altre notizie. «E come si chiama?» intanto che al suo fianco si stava accomodando la mamma di un camorrista con una borsa piena di santini da appendere in cella.
«Ziggy.»
«Che cavolo di nome è?»
«E’ uno pseudonimo…»
«L’avevo capito sai? Da dove arriva, voglio dire, chi avrebbe ispirato quel nomignolo da barboncino?»
«Arriva da un disco di David Bowie, Ziggy Stardust.»
Un cicalino elettronico interruppe la conversazione. Molte mani tentarono di toccarsi attraverso il grigliato, baci simulati passarono simbolicamente il vetro. I santini del camorrista vennero fatti abilmente passare sotto la paratia.
Sara se ne andò, con un po’ di puzza di galera addosso e nessun progetto per la cena.


Non vedeva Federico da quella volta in tribunale.
Era stato un giorno dai contorni onirici e drammatici nello stesso tempo.
Diego, con la faccia che portava il marchio di tante botte, era alla sbarra degli imputati, accusato della strage sul treno in ritardo. Lei aveva assistito come spettatrice. 
Unico testimone, sopravvissuto a quel momento di libera ispirazione fra i vagoni del convoglio, Federico era stato curato e rimesso a nuovo. Appena in grado di parlare aveva  collaborato nella stesura di un identikit piuttosto preciso e aveva confermato, in un confronto all’americana, che Diego (messo in mezzo a un paio di poliziotti, al barbiere dell’angolo e ad un bibliotecario di mezza età con i segni di un labbro leporino operato male) era stato l’unico e solo responsabile dei delitti sul treno. Il processo era stato celebrato talmente in fretta che i giornalisti non avevano nemmeno avuto tempo di organizzarsi.
L’avvocato difensore, incompetente omuncolo assegnato d’ufficio, si era distinto per la sua incapacità e la micidiale somma di pigrizia e ignavia. La rabbia dei parenti delle vittime, inoltre,  era stata tale e tanta che gli elementi a discolpa non erano stati nemmeno esaminati. I tre colpi di martello del giudice avevano sancito altrettanti ergastoli. Insomma, la serratura era stata chiusa e la chiave buttata via.
Federico usciva da un negozio di scarpe con un paio di ingombranti pacchi sotto le braccia e un alce in neon stilizzato dietro la vetrina che lo faceva sembrare il protagonista di un brutto film americano. Sbuffando vapore acqueo come una vecchia locomotiva, si  apprestava ad attraversare la strada, messo al sicuro da un giubbotto antinfortunistico con due grosse bande fosforescenti incrociate sulla schiena. Dall’altra parte lo aspettava la mamma, canuta, piccola e curva e con i piedi amorevolmente corti. Era l’esatto contrario del suo figliolo, che doveva avere girato tutta la città alla ricerca di qualcosa che abbinasse i suoi gusti con il suo numero quarantasei. La faccia provata dimostrava la tesi.
Sara lo seguì fino a casa sua, attese che la mamma si ritirasse all’interno e si confuse col buio. Il loden verde oliva si rivelò perfetto per la circostanza ed i tacchi dodici si erano adagiati sul selciato, discreti come i gommini di un gatto.
Con le scarpe nuove nei piedi, lucide come una limousine in affitto, lo vide aggirarsi attorno all’auto parcheggiata nel vialetto, alla ricerca di un difetto. Pensò che, in fondo, trovare delle magagne alla carrozzeria di un’utilitaria non esigeva una visita tanto accurata. Lo vide fermarsi all’altezza del portellone, come  se avesse fiutato la sua presenza.
Smise di respirare.
Federico l’aveva risparmiata, animato da un’incomprensibile e perversa forma d’amore. Aveva deciso di dimenticarsi di quella stilettata nel fegato e della sua passeggiata nei corridoi del treno, ridotto come un verme rimescolato dall’aratro. Se ne era dimenticato ancor prima che il pubblico ministero lo interrogasse. Nessuna stilettata, nessuna complice.
Lei era libera grazie a lui e sapeva che lo sarebbe stata sempre.
Solo che una promessa va mantenuta e quella, in particolare, l’aveva fatta con le mani di Diego nelle  sue: l’ultimo indimenticabile contatto prima che le serrature del penitenziario cominciassero a sferragliare.
«Me lo devi ammazzare quello!»
Promise in silenzio che l’avrebbe fatto.
La mamma di Federico stava preparando la cena.
Lo si capiva dai vetri della cucina che si erano rapidamente appannati e che adesso cominciavano a piangere.


Il parlatorio del carcere, quel giorno, odorava di soffritto di cipolle.
Sara non si chiese il perché di quel fenomeno. Si limitò ad attraversare l’atrio e a raggiungere Diego, già seduto sotto un ciuffo geometrico trattato a gel e dietro ad un sorriso intatto, per niente alterato dalle durezze della detenzione. Quattro posti oltre c’era Ziggy, il NO TAV calciatore. Restituiva alla moglie in visita i libri già letti in cambio di un tomo da mille pagine almeno. Si chiese come avrebbero fatto i vigilanti a controllare il contenuto del testo, se fosse imbottito di istruzioni in codice utili a evadere o a fare fuori il capo dei secondini mentre sorseggiava un caffè alla macchinetta.
«Amore.»
«Benvenuta. Sei radiosa oggi! Ho un mucchio di cose da chiederti.»
Lei si sistemò sullo sgabello accomodandosi la gonna. «Sentiamo…»
«Quanti giorni a Natale?»
«Due...»
«E con chi lo passerai?»
«Ma con te, amore. Cosa ne dici di una spiaggia bianca ai confini del mondo? Sole, sale e una foresta in lontananza incendiata dalla luce? Aggiungerei anche delle onde alte e spumose, un promontorio di sabbia a nel mare e tanti, ma tanti piccoli ed incantevoli ristorantini a poco prezzo.»
«È un progetto meraviglioso» pensò lui per un attimo, concentrandosi su un punto oltre al vetro. «L’unica perplessità, la vera l’imitazione, quell’ostacolo difficile da superare, sai qual è?»
«La Digos, l’Interpol, l’FBI o la Signora in giallo?»
«Ma no! Il costume da bagno! Il mio è strappato, per esempio. Ti ricordi quella volta…»
Lei mise una mano sul vetro per censurare il seguito. «Mi ricordo, un po’ dopo che avevamo seppellito quel cadavere sulla spiaggia » puntò il dito alla maniera dello Zio Sam. «Me la ricordo eccome!»
Un velo di nostalgia avvolse il volto di lui come un passamontagna. Dopo un paio di minuti trascorsi nel silenzio, riprese l’elenco delle domande che aveva in mente.
«Trump sta bene?»
«Un tesoro. L’ho messo a dieta sai? Adesso sembra un figurino, un felino da sfilata.  Pare che non abbia più tutte quelle smanie di conquista sull’albero di Natale.»
«E Federico, l’hai ammazzato?»
La guardia di servizio al parlatorio stava portando avanti un’ispezione alle unghie della sua mano sinistra, con l’altra appoggiata alla fondina. Alternava il peso su una gamba e su quell’altra con un certo ritmo regolare. Sara pensò quale musica disco anni '70 avrebbe potuto adattarsi a quei passi. Ziggy, intanto,  sfogliava le prime pagine del libro e recitava l’incipit come fossero i versi di una poesia.
«Non mi hai risposto. L’hai ucciso?»
Lei chinò gli occhi scuri sul bancone e prese ad armeggiare con la borsetta, come una bambina disobbediente sorpresa a rubare i cioccolatini dalla scorta della zia. Nel tempo che passò i suoni dell’ambiente arrivarono esasperati dall’attesa.
«L’hai ucciso?»
Lei se ne andò senza rispondere ed un lampo le attraversò la memoria.
Le sembrò di rivivere quella coltellata, inflitta con una velocità tale che la lama non aveva nemmeno avuto il tempo di bagnarsi.



Questa volta il  barbone all’esterno la ricevette in piedi.
Dalla parte opposta del muro si stava svolgendo la partita a calcio, quella che si disputava con le formazioni dettate dell’umore del cuoco. A giudicare dalla potenza delle pallonate che si sentivano rimbalzare dall’altra parte, Ziggy doveva avere scatenato il suo destro e Diego, probabilmente, non riusciva a parare nemmeno un tiro.
Puzzava meno del  solito quella sera, aveva accorciato la barba e rivoltato la lurida coppola d’ordinanza. Lasciò in terra la sua borsa, appoggiata contro il muro. Sara s'immaginò la porta  da calcio dalla parte opposta, dipinta con la vernice bianca sull’intonaco macchiato del cortile e il suo amore, piazzato a braccia aperte per difendere il risultato. A giudicare dalle grida e dalla polvere che si sollevava oltre ai cinque metri di altezza della recinzione,  la contesa in campo doveva essere molto sentita.
«Cosa mi ha portato questa sera, signora Sara?»
Frugò nella borsa.
Ne uscirono i soliti due pacchi, il primo da mangiare per placare i morsi della fame, l’altro da riporre nella borsa lercia alla base del muro. Questa volta una foglia di insalata faceva da letto per una fetta di mozzarella, accompagnata da un pomodoro di serra, rosso come il sangue. Lo addentò prima ancora di ricevere il vino che era stata promesso. Lei rimase ferma con la bottiglietta in mano, paziente e in attesa che il primo boccone fosse masticato. Senza badare all’etichetta il senzatetto le rivolse un sorriso pieno di briciole. La città, dall’altra parte del grosso prato, si stava rassegnando alla notte e l’albero natalizio del quartiere spiccava come un miraggio. Era ancora spento.
La partita a calcio si stava evolvendo in rissa. Voci agitate scavalcavano i punteruoli in metallo e davano l’idea che l’arbitro avesse preso una decisione sbagliata.  Il pallone, per protesta, venne scagliato in alto, e per un attimo fu intravisto a descrivere una parabola sullo sfondo delle finestre a sbarre.
«Allora, amico, io devo proprio andare.» Disse lei, adocchiando nervosamente l’orologio da polso. La lancetta dei secondi sembrava impazzita quel giorno, come se fosse rincorsa da qualcosa che voleva inghiottirsela. Nascose il quadrante sotto il polsino e si sistemò la borsetta a tracolla. «Tu cosa fai, vorrai mica  passare il Natale sotto questo muro?»
Gol! L’urlo liberatorio si levò alto dal cortile dell’ora d’aria.
I detenuti della squadra con la pettorina gialla rincorsero per il campo l’autore della rete, un uomo di trentacinque primavere con altrettanti anni di galera da scontare. Ziggy e i suoi, quelli con la casacca azzurra, non l’avevano presa per niente bene. La palla era già sistemata nel cerchio immaginario del centrocampo e, con le mani ai fianchi ed un po’ di ansia nel petto,  aspettavano che i festeggiamenti fossero terminati.
Il senzatetto si frugò nelle tasche. Ne uscirono una ventina di banconote da cento oltre ad un bellissimo orologio d’oro da uomo, marca Cartier «Sì, credo che passerò il Natale al caldo per quest’anno. Finisco i panino e me ne vado. Cosa dire Sara, buon Natale anche a lei, allora…»
Lei non rispose, guardò con nostalgia il muro sormontato da tutte quelle lame affilate e cominciò ad allontanarsi incontro alla città.
Era sempre così quando doveva lasciare Diego da solo, chiuso dentro a quel recinto immondo assieme a tutti quei pericolosi assassini. Ogni volta, allontanandosi, percepiva una corda immaginaria, messa in tensione dal suo corpo e legata al suo amore dall’estremità opposta. Tirava fino allo sfibramento, poi lentamente cedeva all’ineluttabile destino cui erano legati, spezzandosi.
Si fermò, spalle rivolte al muro e sensi all’erta. Sentiva  ancora i giocatori che si rincorrevano sul terreno, senza risparmiarsi reciproci insulti, spallate o calci nelle caviglie.
Chiuse gli occhi.
Immaginò Diego in porta, con i piedi ben piantati in terra e pronto a quello scatto imperioso per deviare un pallone indirizzato all’incrocio. Ora il suo amico Ziggy, avversario in quella circostanza per volere del cuoco despota, recuperava un pallone al limite dell’area e partiva in contropiede dopo avere messo a sedere il suo avversario diretto. Il secondo uomo venne saltato con un dribbling secco e mandato raccogliere le margherite nel campo per destinazione. Aveva ancora un difensore di fronte a lui, spaurito, indeciso e alla ricerca della collaborazione dei compagni che non c’era. Erano tutti indietro, tutti sorpresi da quella ripartenza repentina. Nella rappresentazione beffarda di un ralenty, vedevano Ziggy andarsene incontro alla porta senza che nessuno potesse opporsi. Solo Diego, che si spostava da un lato a quell’altro alla disperata ricerca di una soluzione difensiva.
Sara rimase con gli occhi chiusi e percepì il senzatetto passarle accanto.
Sembrava puzzare meno del solito e cantava quella canzoncina che lei le aveva insegnato tanto tempo prima:

Scappa scappa c’è il barbone
Brutto nero ed accattone
Se ne va e lascia la borsa
Scappa e prendi la rincorsa.

Questa volta era cantata scimmiottando la musica di un vecchio carillon, una cosa che aveva affinità con qualche film dell’orrore di altri tempi. Lei la ascoltò in pace con se stessa, godendosi la ripetizione delle note fino a sentirle scomparire, confuse nel ronzio del traffico.
Quando aprì gli occhi, il barbone non c'era più.
Si girò verso il muro.
La borsa, logora e lercia più del solito, era appoggiata  alla base.
Dalla parte opposta della barriera, intanto, si stava compiendo il destino della partita.
Ziggy era ormai a tu per tu con Diego, troppo lontano per essere intercettato, abbastanza vicino da potere disporre a proprio piacimento di quella porta spalancata.
Il tiro partì come un missile, potente, preciso e distruttivo.
Quando colpì la parete alle spalle del portiere questa si disintegrò con un boato, crollando.
L’esplosivo, sistemato nella sacca del senzatetto, aveva fatto il suo lavoro.
I detenuti rimasero paralizzati dallo spavento, come se quel gol fosse costato loro la fine di una carriera sportiva, l’agognata coppa del mondo o altri cinquant’anni da trascorrere sotto un cielo a scacchi. Il cuoco, incredulo dalla dimostrazione di tanta potenza, si lasciò crollare sulla panchina con le mani fra i capelli. Era disperato, perché quel giorno aveva puntato sui gialli la metà della sua tredicesima.
Il miracolo si era compiuto. Alle finestre mille mani impugnavano le sbarre, nei corridoi si erano tutti fermati nella contemplazione di un religioso silenzio, nel refettorio l’aiuto cuoco attraversava la sala impugnando il foglio della scommessa con il suo capo. Uscì lasciando basiti i suoi colleghi e sfondando praticamente la porta con una spallata.
I secondini, confusi dal fumo e da quel boato che ancora rimbombava nelle orecchie, si organizzarono in una disordinata risposta, accerchiando i giocatori in campo rimasti a contemplare il buco nel muro come statue di sale. Inebetiti, ridevano e in quello stato furono riaccompagnati in cella.
Quando la polvere si depositò, quando la confusione fu domata e tutti i detenuti furono accompagnati alle rispettive celle, sia Diego che Ziggy mancavano all’appello.



«Quindi l’hai ucciso Federico?»
Sara, a braccetto con Diego, stava contemplando l’albero di Natale del quartiere. Era sicuramente il più alto in città, in provincia e probabilmente in tutta la regione. Alternava palle decorate con luminarie: campanelle, stelle e forme geometriche, che mutavano dal cubo al prisma, dal cono al parallelepipedo, sempre variando in uno spettacolo di colori accesi e variabilmente pulsanti.
Si disse che era meraviglioso, si disse che era facile non esistere più, semplicemente indossando delle parrucche e radendosi la barba a favore di un paio di baffi posticci del tipo “nostalgia dell’ottocento”.
La spiaggia bianca ai confini del mondo, il sole, il sale, la foresta in lontananza incendiata dalla luce, le onde alte e spumose, il promontorio di sabbia a perdita d’occhio nel mare e tanti, ma tanti piccoli e incantevoli ristorantini a poco prezzo, erano lì, in quel paio di biglietti d’aereo sistemati nella tasca del cappotto.
Era tutto così semplice, sarebbe solo bastato esibire il passaporto falso all’aeroporto.
Diego era abituato a non sentirsi rispondere. Non se la prese nemmeno per quella volta.
Obbedì allo strattone e la seguì, incontro al taxi che aveva appena parcheggiato a bordo strada.
L’autista scese e si mise in quattro per sistemare i bagagli nel baule ed il portantino sul sedile. All’interno Trump, contratto in una palla di peli ronfante.
Sara riservò un’ultima occhiata all’albero di natale più spettacolare di tutta la regione e pensò che era un peccato averlo rovinato.

Quell’inutile avvocato, impiccato per i piedi ad uno dei rami più alti, avrebbe presto rovinato la festa a bambini e genitori, e non aveva nemmeno più il suo prestigioso orologio Cartier al polso.


Roberto Capocristi
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