giovedì 10 dicembre 2020

Io e Paolo Rossi. Ricordi di un'estate, ma cinque anni prima di quell'estate che avete in mente voi...




 

Era l'estate del '77, non avevo ancora undici anni e mia madre mi catechizzava affinché mi tenessi lontano da tutto quello che riguardava la passione per il calcio, comprese le risse da bar e naturalmente gli stadi. Probabilmente aveva ragione e ci aveva visto lungo ma la voglia di prendere a calci il pallone, alla fine, si era manifestata lo stesso, con la medesima puntualità con cui qualche anno dopo sarebbero arrivati i brufoli e poi, come diceva Battiato, quegli stupidi innamoramenti senza senso. 
Si era capito subito che io e i miei quaranta chili di pelle e ossa non saremmo mai finiti sull'albo d'oro dei cannonieri e nemmeno avremmo fatto trasferte oltre quei cinquantatré chilometri che dividevano il mio paese dal capoluogo. Però a pallone si giocava eccome, e quando non c'era modo di mettere insieme un paio di squadre con almeno quattro elementi per parte, tipo Brasile-Italia, Brasile Francia o Brasile Real Madrid, ci si accontentava di sudare in pochi quelle magliette fresche di bucato, di decretare la fine dei jeans nuovi e di condannare a morte certa le scarpette da tennis. Fra le messe in scena più ricorrenti - perché si trattava di vere e proprie interpretazioni da Actor Studio - c'era quella dove si assumeva l'identità di un certo, preciso campione di calcio, idolo delle folle e inarrivabile figurina da scambiare a scuola dopo estenuanti trattative e si prometteva - dichiarandolo in anticipo come la palla in buca alla partita di bigliardo - di colpire di testa o al volo o in rovesciata, il pallone che qualcuno si sarebbe impegnato a calciare pressappoco dalle tue parti. E se ci riuscivi, se davvero veniva bene quella sforbiciata o se quell'incornata dopo cinque metri di rincorsa centrava l'incrocio della porta senza rete, avevi il diritto di correre attraverso il campetto, esultare alla maniera del campione che avevi dichiarato di essere, saltare fino allo sfinimento e contemporaneamente improvvisare la cronaca, completa di giubili, termini ridondanti e disturbi radio. Se eri bravo, ma bravo per davvero, riuscivi anche a imitare la folla urlante che accompagnava la gioia del commentatore.
Erano rare ma capitavano quelle occasioni in cui si rimaneva in due, io e l'amico. L'amico, ricordo, aveva messo il pallone sul fazzoletto di erba ingiallita da dove di solito partivano i traversoni, si era guardato intorno e aveva sgranchito le gambe e cercato la concentrazione giusta dopo avere saggiato le correnti d'aria. Prima di calciare, però, prima di rischiare la mia scarsa stima per la poca precisione del passaggio o peggio, prima di correre il rischio di centrare il cespuglio di rovi e porre prematuramente fine alla carriera del pallone di gomma, mi aveva guardato preoccupato. Era un tipo preciso, lui, e vi giuro, ancora adesso rompe il culo ai passeri. In quel gioco non si poteva improvvisare, il pressapochismo era bandito e la scarsa serietà, ne eravamo certi, avrebbe portato sfortuna almeno fino a ferragosto.
- E allora?
- E allora cosa? avevo domandato. 
- E allora chi fai?
Aveva ragione da vendere. Mi ero giocato Causio, Rivera e Chiarugi. Boninsegna aveva colpito il palo al principio del pomeriggio e Chinaglia niente, non mi era mai piaciuto. Avevo un debole per Roberto Dinamite, il Brasiliano che faceva partire missili  e siluri ma non mi sentivo all'altezza, non con le gambette da passerotto  e quella maglietta che mi arrivava alle ginocchia.
- Benetti, avevo risposto.
Non che ci capissi di calcio. Mi interessavo e sentivo quei pruriti e sapevo che presto me ne sarei innamorato definitivamente ma per il momento, per quell'estate, mi accontentavo di ascoltare i discorsi degli amici, di seguire la domenica, annoiandomi un po', il secondo tempo della partita che era il pane per nutrirsi di calcio per tutta la settimana. E poi rimanevano le biglie e i titoli di giornale letti a sbafo mentre si moriva di noia nei pomeriggi azzurri e lunghi. Ma Benetti mi era rimasto impresso, per quella faccia da vichingo di pessimo umore, per la pelle butterata come se uno sciame di meteoriti l'avesse bombardato senza fargli male. Per le spalle larghe e per quel sorriso da squalo che si vedeva sì e no una volta l'anno. L'obiezione dell'amico era stata pronta:
- Ma Benetti è un centrocampista. Se proprio devi, fai Zaccarelli.
Ma il mio cuoricino da tifoso, quello che presto sarebbe diventato un cuore adulto e pieno di passione, batteva per quell'altra sponda, quella dei cattivi/ladri e  dei tifosi tutti analfabeti e ciucciapiselli della famiglia Agnelli e...
- No. Zaccarelli non lo faccio!
- E allora - mi aveva suggerito e già sapeva che non si sarebbe stupito di tutta la mia ignoranza. - E allora fai Paolo Rossi...
Preso alla sprovvista e temendo uno scherzo, gli avevo chiesto chi fosse costui, con un nome tanto banale da essere poco originale pure per una striscia di Bruno Bozzetto. Paolo Rossi, un nome così diffuso, dozzinale, prevedibile. Rossi, lo ricordavo bene perché la maestra ci aveva fatto una lezione, era il cognome più comune insieme a Bianchi e poi Verdi perché le cose stavano così, erano sempre state così. Il nostro paese era diviso in contrapposte fazioni dalla notte dei tempi e allora quel Paolo Rossi cosa doveva avere di tanto speciale? Il mio amico, che come vi ho già detto era un tipo assai preciso e vi garantisco che anche adesso...mi aveva ragguagliato. Poche ma utilissime informazioni.
- E' un opportunista... era stata la risposta.
- Come...come Cruijff? 
- Ma no! Cruijff è uno tecnico, con i piedi d'oro. Uno che ti porta a spasso per mezz'ora e poi, quando ti penzola la lingua fin sotto il mento, scarta ancora il portiere e la butta dentro. Come Claudio Sala, il poeta del gol.
La mia sentenza era stata emessa senza nemmeno prendere in esame le prove - E allora Paolo Rossi è una pippa!
Era deluso. Troppo poco calcio masticato e ancora quelle lacune tattiche che avrei dovuto colmare quanto prima. - E allora fai Bettega - Mi aveva detto sollevando le spalle rassegnato e  ora non ricordo più. Non ricordo se avessi trovato un colpo di testa solo vagamente simile a quelli di cabeza blanca o se, semplicemente, avessi mandato il pallone a sgonfiarsi in mezzo ai rovi. Quello che ricordo, invece, è che da lì in avanti mi ero interessato di quel Paolo Rossi: biografia, statistiche, caratteristiche tecniche e poi di tutto il resto. Avevo seguito le coppe internazionali e le amichevoli. Sport Sera era diventata la mia trasmissione preferita e poi la Domenica Sportiva, ma solo se il giorno dopo non mi aspettava il compito in classe. L'estate seguente, giusto in tempo per i mondiali, ero ormai un tifoso indiavolato, un delinquente compiuto e pericoloso, portato via a braccia dai bar in riviera dove si vedevano le prime partite a colori. Mio padre, imbarazzato, si scusava con gli avventori per il mio carattere per così dire, esuberante e mi accompagnava in un secondo bar per assistere alla ripresa. Lui non lo sa mica ma Argentina - Italia, quella del mondiale dei colonnelli, andata in Tv nel cuore della notte e dove Bettega aveva colpito i pali fino al punto di prenderli a testate per la disperazione, l'avevo origliata dalla mia cameretta.
Ecco, Paolo Rossi era entrato così nella mia vita e insieme a lui quella meraviglia di gioco che è il calcio.
Oggi Paolo Rossi ne è uscito e non so se voi, non so se fra quelli della mia età, fra quelli che hanno vissuto le estati con la paura che il pallone finisse nei cespugli, fra quelli che si sono sbucciati le ginocchia sull'asfalto e che quando il tiro era alto -e la porta era fatta con le giacche- ci si intendeva con un'occhiata fra una squadra e quell'altra, ci sia qualcuno che sente il vuoto che sento io.


domenica 15 novembre 2020

Intervista al Giallo Festival di Bologna




Giallo Festival 2020

Alla versione on-line del Giallo Festival di Bologna, parlo del mio ottavo romanzo, Solo le donne degli altri, primo classificato nella categoria miglior trama e terzo assoluto nell'edizione 2019. 
Intervista a cura di Lorena Lusetti.




 

venerdì 30 ottobre 2020

La canadese rossa, un racconto in salsa dark

 

LA CANADESE ROSSA




Maria vide la canadese rossa solo qualche ora prima che cominciasse a nevicare. Fu una nevicata tardiva, arrivata in coda a un inverno asciutto e freddo, talmente tanto che la campagna intorno a casa sua si era ammalata di un giallo itterizia. Quel giorno, come altri mille, l’aveva passato a studiare, a nutrire il suo giovane cervello sui libri.
Tredici anni appena, con il corpo che tardava a sbocciare e la noia come compagna di vita, Maria non aveva molti motivi per uscire, vuoi perché doveva aspettare l’autobus che passava solo due volte al giorno, vuoi perché, per arrivare alla fermata, era necessario percorrere mezzo chilometro di strada sterrata, coi sassi che proprio non volevano scendere a compromessi con le suole e la paura che il cane dei vicini le arrivasse incontro, con la bava alla bocca e la catena spezzata trascinata appresso. 
Il paese, lontano e abitato da persone senza fantasia, era abbastanza piccolo da non meritare la sosta di un turista o una visita attenta. Era anche così prevedibile e sciatto che la scuola al suo centro, dipinta di una fantasia di colori pastello presi a prestito dalla tristezza, era l’unico edificio dell’abitato che superasse i canonici due piani per avventurarsi verso un terzo mansardato, dedicato a una triste biblioteca disertata un po’ da tutti. Maria, al contrario, prendeva a prestito molti libri, si metteva comoda sulla poltrona davanti al camino e leggeva, leggeva fino a stancarsi.
Nella bella stagione il porticato all’esterno era perfetto allo scopo, con quel dondolo smaltato verde che cigolava come un vecchio carillon e il tavolo con la tela cerata a fiori fissata con gli antivento e il parapetto in legno che sfarfallava di vernice secca al minimo movimento. Custer, il suo vecchio cane meticcio, con la coda spezzata in centro e una macchia bianca sul lato del muso, amava accovacciarsi nell’angolo del balcone. In quel punto i montanti della ringhiera sembravano cartavetrati e non solo, un alone scuro sul pavimento in legno dava la misura di quanto l’animale fosse affezionato a quel pezzo di mondo. 
Uno di quei pomeriggi d’inverno con l’odore della neve nell’aria, la canadese rossa apparve nel prato sulla sommità della collina.
Era piazzata per benino al centro di una corona di alberi, con il lato più breve rivolto al vento e i tiranti ben tesi. La cerniera a lampo che dava sull’ingresso appariva aperta per metà, con i lembi inferiori che svolazzavano appena. Uno dei primi fiocchi della nevicata, che sarebbe durata per due giorni da lì in avanti, si posò sul lato inclinato. Come gli altri milioni che arrivarono al suo seguito, rotolò in terra con un fruscio appena percettibile. Maria rincasò un po’ preoccupata, con Custer al fianco. Il cane saltò agilmente l’asse mancante sul ponticello in legno adagiato sulle sponde del torrente. Lei preferì passare a lato, facendo affidamento a una robusta presa sul mancorrente gelato.
La sera, con la mamma in cucina, il papà appena arrivato e l’umore un po’ peggiorato rispetto alla volta prima, Maria si alienò dalla realtà e si mise a leggere, lasciandosi cullare dalla sedia a dondolo di fronte al fuoco. Il telegiornale brontolava il solito rosario di brutte notizie. Moby Dick, intanto, si stava prendendo gioco del capitano Achab.
Una montagnola di neve. La tenda si presentò esattamente così. Dopo oltre due giorni di nevicata ininterrotta e di vento gelido che ne aveva irrigidito i contorni, non si scorgeva più nulla delle geometrie nette e le piante intorno avevano i rami ormai piegati. Maria, con i doposcì addosso e Custer, con un po’ di artrosi e la neve a solleticargli la pancia, si avvicinarono abbastanza da immaginare che la canadese rossa potesse benissimo essere la tomba di qualcuno. Maria tornò indietro, correndo e facendo attenzione al ponticello malfermo. Arrivò a casa con il bollore nei piedi e le gote colorite di un rosso febbre. Il signore delle mosche, nuovo di zecca, aspettava solo di salire sulla sedia a dondolo con lei per essere iniziato.
Il terzo giorno, sotto il cielo che avvicendava il bianco delle nuvole con timide striature d’azzurro, la tenda si era abbassata sotto il peso della neve come una torta uscita dal forno nel momento sbagliato. Custer in quell’occasione era rimasto a cuccia e il libro raccontava della testa di un maiale, infilzata su una picca in legno e circondata da uno sciame perenne di mosche.
Il quarto giorno piovve.
Maria non osò trovare nuovamente una scusa per allontanarsi da casa, affrontare la guazza gelata fino alla collina e vedere come fosse ridotta la tenda rossa. La immaginò premuta al suolo, con i tiranti accartocciati e la struttura collassata che fuoriusciva dal telo come una frattura scomposta.
La notte che seguì riuscì a dormire solo pochi minuti.
Incubi, coperte opprimenti e il troppo buio che premeva sulle palpebre. La radura fra gli alberi, con la tenda al centro, le apparve in sogno assieme a un rapido alternarsi delle stagioni, con uno stormo di corvi che si avvicendavano al banchetto e una processione di vermi incontro a quel ricordo di rosso.
Passarono l’inverno e poi la primavera. Frodo Baggins riuscì a liberarsi del suo fardello, Berverly Marsh, assieme ai loosers, portò a termine il suo rito iniziatico e Maria compì quattordici anni.
Un mattino d’estate, promossa a pieni voti e con mamma e papà scesi in paese alla ricerca di un’auto nuova, tornò alla radura. Portò con sé Custer, un po’ claudicante per l’aggravarsi dell’artrosi e attaccato a un inedito guinzaglio interpretato come un’irrimediabile offesa. L’erba, alta e fitta, non era riuscita a mascherare del tutto il telo della canadese che il sole aveva cominciato a sbiadire. I tubi ricurvi del telaio si erano rivelati un invito a nozze per le erbacce infestanti. Nel mezzo, un neonato alberello stava andando incontro al sole e si era trascinato appresso un lembo della tenda. L’odore di decomposizione nell’aria era piuttosto netto.
 Il Lord Jim risalì il suo fiume, Guy Montag cercò di appiccare più incendi che poteva e Il Grande Fratello la fissò a lungo dal grosso poster appeso alle pareti.
In agosto, sotto il solleone e con la mansarda arroventata, la biblioteca chiuse per il consueto riposo estivo e Maria finì di dondolarsi al riparo sotto il porticato, quando ormai sul fronte occidentale non accadeva più nulla di nuovo.
Corse verso la collina e vi arrivò con la lingua penzoloni. L’albero, nutrito delle piogge abbondanti in primavera, era cresciuto di almeno un metro e mezzo e vestiva di rosso come un abete natalizio. I tubi, i picchetti e i tiranti ormai arrugginiti, attorcigliavano in aria un’opera d’arte moderna piuttosto macabra. Ritornò indietro correndo ancora più veloce e si accorse che il ponticello aveva ceduto al fiume il secondo dei suoi assi marci. Un moncone di legno era rimasto a far da testimone dei bei tempi andati. 
L’autunno seguente rimasero in biblioteca solo alcuni libri ancora da leggere e la scuola media si liberò di lei per proiettarla verso un mondo nuovo.
Dimenticò la collina, la radura e l’albero smanioso di crescere che si trascinava appresso le spoglie della tenda rossa e chissà cos’altro ancora. Dimenticò al punto di non sognare più nulla che avesse a che fare con quel posto. Nei suoi pensieri un po’ di spazio per quel ragazzo ricciolino della prima B e un’emozione nuova per il seno, che si era finalmente deciso a puntare insistentemente sulla maglietta della salute. Al mattino, dopo colazione, la scelta dell’abbinamento fra i vestiti cominciò a richiedere qualche minuto in più.
La biblioteca dell’istituto, sistemata in un silenzioso seminterrato, aveva così tanti libri che Maria dovette darsi una regola. Scelse un criterio che teneva conto di una cronologia storica e di un ordine alfabetico non rigoroso. Prima delle vacanze si rifornì dell’opera omnia di Flaubert, Guy de Maupassant e Goethe.
Dondolò sotto il porticato assieme a Madame Bovary e imparò i rudimenti dell’Educazione Sentimentale. Accadde sul finire del pomeriggio, con un imperioso temporale che aveva fatto sparire il cielo a est. Conobbe la vita di Jeanne Le Perthuis e il cinico arrivismo di George Duroy, irresistibile playboy di una Parigi che compariva solo più nelle stampe d’epoca.
 Al principio di settembre, senza Custer costretto dall’artrosi al suo angolo di mondo preferito, si ritrovò nuovamente al cospetto dell’albero. Era cresciuto fino a pareggiare i suoi simili che circondavano la radura. Il telo della tenda aveva virato verso un rosa porcellino e calzava perfettamente fra i rami già rigogliosi. I tubi del telaio lo tenevano ben teso, come se una mano abile e paziente avesse stirato il colletto della camicia dopo averlo inamidato per bene. Fra le foglie più in alto e appena fuori dal riparo del telo, si intravedeva una chioma nera, piuttosto spettinata ma ancora folta. Stava adagiata sul tronco principale come se qualcuno si fosse organizzato la pennichella del pomeriggio al riparo dal sole.
Maria non era arrivata a mani vuote.
Aggirò gli alberi, pestò i piedi in terra per allontanare le vipere e infine sedette con la schiena appoggiata al fusto. Le formiche intraprendenti cominciarono a prendere le misure delle sue caviglie nude e lei le ricacciò, seppellendole sotto un leggero strato di terriccio. Il tessuto della tenda svolazzava appena, come quella prima volta al principio della nevicata. I passerotti cantavano e le cicale non si stavano di certo risparmiando. Sentì l’erba dura trafiggere i pantaloni estivi inconsistenti e un accenno di prurito alle gambe.
Resistette.
Spinse con la schiena e il giovane tronco ancora tenero si mise a dondolare. La chioma di capelli neri, producendo un rumore di ossa rotte appena confuso col fruscio delle foglie, si posò sul ramo a fianco.
Lei, con voce emozionata, attaccò la lettura del Giovane Holden.

© Diritti riservati

lunedì 12 ottobre 2020

Grazie al kaiser, la nuova, utilissima rubrica di consigli ovvi per la scrittura...

Ebbene sì, amici. 
Anche io, e finalmente, ho sentito il bisogno di dispensare consigli sulla buona scrittura. Non sarà certo un dispensatore di consigli in più a fare saltare il banco, consumare troppi giga o mandare in tilt il cyberspazio.
Del resto sono sicuro che gli innumerevoli dispensatori di consigli di scrittura on line (pur bravissimi e utilissimi, quelli che per capirci trasformano una pippa illetterata in uno scrittore da urlo con la sola rubrica settimanale) sono illuminanti, è vero ma non possono certo ricordarsi di tutti i consigli. 
E poi la mia rubrica del Kaiser è gratuita e accessibile a chiunque, cosa non sempre ovvia.
E allora beccatevi le mie perle di sapienza tutte in divenire e se le troverete dozzinali e del tutto risapute, grazie al ka...iser, l'ho fatto di proposito.  ;)




GRAZIE AL KA...ISER


Consiglio n. 1




Se scrivete un giallo, non fate comparire una pistola nel finale se non ne avete fatto cenno fino a quel momento.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.


Consiglio n.2 





Il lettore medio, allo stesso modo dello scrittore, ha bisogno della sua "minzione speciale", mediamente ogni paio d'ore e alla pari di qualsiasi bipede dovrà sgranchirsi ogni tanto le gambe e ripristinare la circolazione del grande gluteo. Quindi, se volete scrivere un libro davvero buono e farvi amare dai vostri lettori, ricordatevi che i capitoli non dovranno essere più lunghi di centocinquanta pagine.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.


Consiglio n.3 




Il congiuntivo non è un'opinione.
Nei vostri libri sbagliatelo solo se date voce a un personaggio che sbaglia i congiuntivi.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.


Consiglio n. 4 


Se la protagonista del vostro libro all'inizio si chiama Anna, rimanete concentrati e fate in modo che continui a chiamarsi Anna fino al termine.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.



Consiglio n. 5 


Se non avete mai letto un libro è sconsigliabile scriverne uno o peggio più di uno.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.


Consiglio n. 6 


Se ambientate il vostro libro in un posto preciso, non occupate due terzi delle pagine per descrivere luoghi che tutti conoscono a memoria. Accorgetevi per tempo che non avete idee e buttate giù direttamente una guida turistica.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.


Consiglio n. 7 




Se il vostro romanzo appena finito sembra scritto in cirillico e voi vi giustificate dicendo che è ancora da editare, probabilmente dovreste fare un bagno di umiltà e pensare seriamente di darvi all'ippica.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.



Consiglio n. 8 


Attenzione!
Seminare la punteggiatura a casaccio vi farà probabilmente sembrare più scemi che geniali e i lettori saranno risentiti.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.



Consiglio n. 9 


State accorti. Se il vostro romanzo è uscito questa mattina alle undici e alle tre e venti del pomeriggio vi hanno già scritto 170 recensioni su Amazon, è possibile che passiate come millantatori.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.


Consiglio n. 10 


Se volete che il vostro libro sia notato, fatevi disegnare la copertina  da uno capace.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.


Consiglio n. 11 





Se vi proponete a un editore come esordienti, evitate saghe di sette capitoli o tomi da milleseicento pagine.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.


Consiglio n. 12 






Se vi siete dimenticati com'è fatta quella strada di Londra che volete descrivere nel vostro romanzo, nessun problema, con Google Maps potete rinfrescarvi la memoria.

Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.


Consiglio n. 13 




Se scrivete romanzi, non dimenticate che impegnarsi nelle prime quattro righe di ogni capitolo non vi farà sembrare degli scrittori



Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.




Consiglio n. 14 





Se alla sera avete una grande idea e al mattino dopo l'avete dimenticata, allora non era una grande idea


Grazie al kaiser, amici, e seguitemi per nuovi consigli.




martedì 1 settembre 2020

Non ne sono sicuro. Un racconto che brucia

 



«L’accendiamo?»

Ricordo bene la domanda. Capitò all’improvviso interrompendo le mie argomentazioni.

Non sono mai stato così intelligente dal sentire fluire i ragionamenti in testa come la piena di un fiume in primavera, ma nemmeno uno sprovveduto. In quell’occasione, gli ingranaggi del pro e del contro si bloccarono improvvisamente e quel fastidioso cigolio della mia coscienza si interruppe.

«Non ne sono sicuro.» Risposi, ma fui persuaso dal quel sorriso accattivante, condito dal luccichio di un dente d’oro che faceva capolino alla base della lingua. I soldi erano a portata di mano. Uno scatto luminoso e sarebbero stati miei.

 

Adesso mi sto godendo il panorama.

Il vento, che soffia dalle montagne, si è riscaldato strofinandosi sulle rocce e la pressione gonfia la mia giacca aperta. Sono circondato da una pioggia di foglie secche. Si sono arrese all’inverno incipiente e stanno cercando un posto per andare a marcire. Sullo sfondo di un intreccio di rami una coppia di cerbiatti si rincorre. Il primo salta il cespuglio e il secondo lo imita. La terra sollevata dalle loro zampe si traduce in tanti, scenografici sbuffi di polvere. I miei occhi cascano nell’inganno del mimetismo e avverto soltanto il progressivo estinguersi di una leggera vibrazione di passi, o forse è solo frutto della mia suggestione.

Non ne sono sicuro.

Caterina è cresciuta così in fretta, che faccio fatica a sostituire il ricordo che ho di lei bambina a quel metro e ottanta di curve dolci e pelle di pesca. Al principio dell’inverno è ancora abbronzata ed è bella. Si muove come una ballerina, ogni volta che sorride sembra festa e non parla mai a sproposito. Il pensiero mi riempie di orgoglio.

Sono convinto di essere stato un bravo padre e rivolgo lo sguardo al cielo terso.

L’azzurro intenso balugina un po’ per effetto di una lacrima e in quel momento una coppia di poiane sorvola il bosco, descrivendo una serie di cerchi concentrici sempre più stretti. Devono avere avvistato una piccola preda, probabilmente in difficoltà di fronte a un precipizio sul limitare della pineta.

Caterina gioca a volley. Si presenta in palestra per prima e la lascia quando tutte le altre sono già sotto la doccia. Non esiste una tutina che non le stia veramente bene e quando salta rimane sospesa in aria a lungo, con le scarpe a bande diagonali rosse staccate di un metro buono dal pavimento. In quell’attimo si possono scattare delle foto perfettamente a fuoco. Quando atterra non fa rumore, neanche il solito scricchiolio delle suole che in certe occasioni si trasforma in un concerto.  Porta sulla canottiera aderente in lycra il numero sedici, o il diciassette.

Non ne sono sicuro.

Se c’è una cosa che detesto delle montagne, è che sono un ostacolo anacronistico.

Il progresso non è ancora riuscito a domarle e qualche volta bisogna inchinarsi alla loro imponenza e girare intorno. Si deve sopportare l’ombra che rende l’asfalto viscido, il buio reso improvviso dal folto dei boschi e quel freddo che cozza con l’aria tiepida della pianura. La valle ai miei piedi si stringe, fino a scomparire dietro a un rilievo abitato dalla nebbia. Una strada tortuosa la percorre in un susseguirsi di tornanti e rettilinei, per poi perdersi a sua volta. Sembra che un pittore ubriaco si sia divertito a pulire il grigio del suo pennello cercando nel frattempo un’ispirazione.

Grazia è un tesoro. Non c’è nulla di lei che non mi piaccia e gli anni che passano l’hanno trasformata nella colonna della mia esistenza. Ci eravamo conosciuti ancora ragazzi e adesso, a ogni momento, a ogni battito del mio cuore che si aggiunge alla nostra storia, sento di avere speso bene il tempo. Ama il suo lavoro di un amore corrisposto, riceve gratifiche, è adorata dai colleghi e porta a casa soldi e sorrisi. L’ultima volta che siamo andati al ristorante insieme indossava un abito rosso lungo, sposato perfettamente con la linea armoniosa dei fianchi e candidato ad attirare gli sguardi invidiosi dei commensali sul suo fondoschiena. In abbinamento alla borsetta in finta pelle nera, portava con stile un paio di scarpe col tacco da quindici, o da dodici.

Non ne sono sicuro.

Il concetto di colonna, granito e solidità, si abbina perfettamente all’ambiente che mi circonda. Dalla parete di roccia alle mie spalle, che solo pochi coraggiosi arbusti hanno tentato di conquistare, si affacciano le feritoie muschiose di una fortezza abbandonata. Sul passaggio avaro di spazio che le mura concedono al precipizio, una fila di camosci si organizza per guadagnare il principio del bosco.

Dove la parete sudata comincia a spiccare dalla terra, un sentore lieve di fumo e nebbia si solleva incontro alle pietre squadrate e uno stormo di piccoli uccelli si divide in gruppi appena raggiunto il cielo.

 «L’accendiamo?»

«Sì» Risposi, trangugiando la saliva che mi sembrò un boccone di spine. La mano, fredda e contratta nella paura, si strinse intorno alla mazzetta di banconote che l’uomo dal sorriso accattivante mi aveva allargato sulla scrivania. Prima di ritrarla ebbi tempo di interpretare il lampo di soddisfazione nei suoi occhi e la domanda arrivò assieme a un alito corrotto.

«Quindi ne è sicuro?»

 Il vento caldo non ha ancora dato il suo meglio. Arrivano una prima e poi una seconda, potente folata e il grigio incerto di una colonna di fumo assume delle sfumature di nero sempre più compatte. Dopo poco delle lingue di fuoco si attorcigliano intorno alla base.

Se non sarò a casa per cena, Grazia mi giudicherà male e anche Caterina. Forse questo pomeriggio ha l’allenamento di pallavolo o forse il doposcuola.

Non ne sono sicuro.

Il fuoco non è affatto silenzioso. Nella fantasia e nelle romanticherie degli amanti crepita, ma quando intacca un bosco annichilito da mesi di arsura, grida, e lo fa insieme a migliaia di creature.

Il fumo serpeggia basso, s’infila nelle tane e uccide i piccoli roditori ancora indaffarati a procurarsi le provviste per l’inverno. Il fuoco si insinua sotto le foglie, disintegra gli insetti e corre alla ricerca del suo sfogo. Quando trova l’ossigeno per cibarsi si tramuta in un’esplosione.

 «Bene, allora. I soldi sono suoi. Li prenda…»

E la mano finalmente si ritrasse. Mi accorsi che stropicciare le banconote produce un rumore del tutto simile a quello delle fiamme che sbranano un cespuglio. Dopotutto, c’è un’affinità perversa che lega il denaro a tutte le cose che bruciano.

 

La resina che cuoce produce i suoi vapori e il fuoco se ne nutre.

Sul suo cammino ci sono fiamme alte trenta metri e un cimitero di tronchi roventi alle spalle. Qualche volta una lingua di fuoco si fa avanti e sembra voglia catturarmi.

L’uomo dal sorriso accattivante mise subito le cose in chiaro.

«Dovrà abbandonare la zona, molto prima che l’innesco possa accendersi e farla scoprire…Mi raccomando!»

Spiegazzai le banconote per infilarle in tasca. Quando quella gente ti incarica di una cosa, tu non puoi rifiutare.  Mi alzai e guadagnai la porta senza girarmi.

«Allora, grazie…»

Il cassetto della scrivania si chiuse con un colpo secco. Non mi sfuggì l’impugnatura della pistola posata accanto alla scatola dei soldi e l’uomo dal sorriso accattivante se ne accorse.

«Lei ha famiglia? Che ne so. Una moglie innamorata e una bella figlia capace di darle delle soddisfazioni?»

Mi immaginai di averle.

Pensai a una vita diversa da quella fogna, che credevo essermi lasciato alle spalle soltanto vestendomi di buone maniere. Allargai un sorriso fra i più finti del mio repertorio. «Sì, sono due donne meravigliose!»

 Vado via quando le sirene di allarme gridano come le aquile e la gente accorre per affrontare l’incendio. C’è un andirivieni di mezzi e di uomini che sbraitano istruzioni, corrono e indossano maschere. Uno fra i più giovani è colto da una crisi di panico e rimane paralizzato come in un fermo immagine. Un cinghiale, con il pelo acceso come uno zolfanello, gli sfreccia accanto e per poco non lo travolge.

 «Mi raccomando, allora. Non mi deluda e ricordi. Ci sarà gente come lei che appiccherà il fuoco in altri posti, ed è bene che tutti facciano la loro parte e nello stesso momento…»

L’uomo dal sorriso accattivante si accese un sigaro e scomparve dietro delle volate azzurrognole di fumo. Io lasciai l’ufficio nel suo odore di benzina e mi misi a ripetere come un mantra:

Il fuoco purifica, il fuoco purifica, il fuoco…

 Purifica.

E vedo un grosso cervo maschio corrermi incontro come un treno.

Lo seguono una femmina e tre cuccioli disperati. L’ultimo si attarda, rallenta, accelera e poi cambia direzione. Quando gli altri sono ormai lontani, ingannato dal terreno cedevole si lascia scappare una zampa e finisce col rotolare nella gola di un ruscello.

Le fiamme mi stanno circondando e sono stanco.

Se Grazia e Caterina fossero esistite per davvero, avrei applicato le mie consegne alla lettera e me ne sarei andato via, subito.

Il ragazzo paralizzato dalla paura è stato rincuorato dai suoi compagni e adesso mi sta additando, o forse sta indicando le lame infernali che hanno aggredito un gruppo di conifere alle mie spalle.

Il fuoco ruggisce.

Chi parla di crepitio vive in un mondo di plastica, piccolo e prevedibile come il fornello del suo caminetto.

Se Grazia e Caterina fossero esistite per davvero non avrei fatto il delinquente e la mia vita sarebbe stata diversa, o forse no.

Non ne sono sicuro.

Le corna del cervo maschio si infilano sotto alle mie costole.

Ruvide, le sento attraversare il polmone e finire con lo spingere sulla parete interna della schiena. Il calore che mi circonda è così intenso, che il sangue accumulato nella gola potrebbe mettersi a bollire.

Il giovane cerbiatto sbuca dall’alveo del ruscello e si mette a correre zigzagando verso valle.

 Il ragazzo paralizzato dalla paura sta per allontanarsi assieme alla sua squadra e lo sento gridare senza comprenderne le parole.

Leggo dai labiali un incoraggiamento a mettermi in salvo, oppure la sua è una maledizione, scagliata contro di me e condita da una corona di imprecazioni.

Non lo so, non ne sono sicuro.


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sabato 6 giugno 2020

Schermi. Racconto in poche cartelle



SCHERMI




Se potessi trovarle un difetto. Qualcosa che mi faccia coraggio, qualcosa che l’avvicini al pianeta terra, all’essere umano…
La perfezione del suo viso mi mette in imbarazzo. La pelle levigata, la fronte ampia, gli occhi grandi e distanti, grigi come il cielo al principio del giorno.
La curva del mento sotto le labbra a cuore, appena schiuse sulla fila di denti bianchi, armonizza con il seno sodo e il pendaglio da bigiotteria indica la strada del paradiso. I capelli scuri si sfogano a onde ampie sulle spalle. Sono sicuro che profumino di shampoo.
Se potessi trovarle un difetto.
Ora sbarazzina, ora fatale, allegra, pensosa.
Un paio di grossi occhiali di tartaruga la proietta nel mondo degli intellettuali. Una coppia di bottoni lasciati liberi ed ecco che un poderoso mare di spuma e vento si materializza alle sue spalle, al termine della spiaggia bianca di un’isola lontana. Le luci le sono complici. Uscirebbe bene sotto i fasci caldi delle alogene così come nella livida tristezza di un neon da questura.
Poso il mio cellulare sul tavolino, accanto al bicchiere di birra che ho bevuto in tre sorsi per vincere la paura. Lo schermo smorza i colori e poi si spegne.
Ci dividono sei o sette passi: la rincorsa per un calcio di rigore. Quando muovo il primo, impacciato, pesante, definitivo come una lapide, i pensieri sono gli stessi di chi sta per colpire quel pallone che sposterà più soldi di un milione di operai messi a lavorare alla catena.
Ansia, paura di fallire, di perdere quell’occasione che non si ripeterà più. 
È alta, con uno slancio di gambe che mortifica lo sgabello al banco del bar. La gonna plissettata, che termina qualche centimetro sopra le ginocchia, è di un blu discreto bene abbinato con la camicetta appena più chiara. L’estate è nell’aria e ormai sono abbastanza vicino da sentire il profumo di buono.
«Ciao. Mi chiamo Francesco e tu…Tu devi essere Lisa.»
Le labbra s’increspano per un istante e sì, credo di avere trovato il difetto, quello che mi mette coraggio. Accanto al suo gomito appoggiato al bancone vedo un aperitivo rosso, guarnito con una fetta di arancio infilata sul bordo zuccherato del bicchiere. Il barista, con l’abbronzatura sospetta e le maniche arrotolate sulle braccia forti, coglie l’importanza del momento e si allontana col pretesto di raggiungere l’asciugamano appeso.
«E come conosci il mio nome? Ci siamo già visti da qualche parte?»
La domanda è legittima e il prezzo da pagare è la mollezza delle ginocchia che spero non si traduca nella faccia di chi ha urgenza di correre in bagno. L’approccio è stato da pezzente ma rimedio in fretta.
«Ah, no. Non ci siamo mai incontrati. Sei…sei fra i miei contatti di Instagram e anche di Facebook, ecco, e ti ho riconosciuta». Indico il mio smartphone, con un terzo della base che sporge goffa dal tavolino basso accanto al divanetto. Il barista palestrato strofina l’interno del bicchiere con le dita infilate nello straccio e dispensa un sorriso complice. Lisa indietreggia di un passo per inquadrarmi meglio. Strizza gli occhi, punta il dito e accenna un sorriso storto. Capisco dallo sguardo birichino che mi ha collocato nella casella giusta dei contatti social.
«Francesco Nove Tre?»
Sto per esplodere di orgoglio. Batto sul petto come Tarzan. «Sono io. Novantatré è la mia data di nascita.»
«E dimmi: Francesco è il tuo nome oppure ti sei ispirato a qualche santo?»
«No, ma che santo? Francesco Maria…»
Ride. «Maria come la Vergine?»
Sto perdendo colpi come un motore a fine carriera. Il barista ha portato sul retro i suoi novanta chili di muscoli e al di là del vetro scorrono le foto di un pomeriggio in calando. Giacche aperte su cravatte allentate, spalline scivolose, borsette pesanti e rossetti appena rinnovati. I selfie con i bicchieri colorati sono d’obbligo e non tutte le fotocamere hanno pietà dopo una lunga giornata dietro alla scrivania.
«Come mia nonna…»
«Che si chiamava Maria?»
Sono ovvio, prevedibile. Ricordo lo sciacquone alla fine di una pisciata ma nonostante questo l’incarnazione della bellezza che ho davanti non mi scarta. Forse la diverto, riempio quei cinque minuti prima che quello davvero figo arrivi a prenderla. Forse ha un debole per i perdenti e la commuovo come il tramonto dopo una giornata d’inferno.
«Paghi tu?» La risposta è sottointesa. Il barista con i pettorali perfetti si cala nella parte del cassiere, inforca con stile un paio di occhiali dalla montatura sottile e pesta, sicuro, i tasti del registratore di cassa. «Sono ventitré.»
Mentre pago, Lisa mi si strofina addosso. Il suo alito caldo trasporta un grazie appena sussurrato. La mollezza delle ginocchia vira a uno stormo di feroci farfalle che mi solletica il ventre.
Dietro lo struscio che consuma il marciapiede, un Aston Martin DB11 taglia la parete del palazzo come un diamante. È verde acqua di palude, oppure azzurro lago contaminato di alghe. Dipende da come la guardi.
Seduta al volante c’è Lisa che mi aspetta.

La prima dura poco ma sono bravo a salire le scale e a tuffarmi di nuovo nel brodo caldo della piscina più accogliente del mondo.
Questa volta ho tempo di dedicarmi ai dettagli: al turgore dei capezzoli che incidono il petto, alla pelle di seta che mi drizza i peli sulle braccia come una scossa elettrica, all’andirivieni del ventre, che sale e scende, e sale e scende come una nave con le vele gonfie che ha guadagnato il mare aperto.
La bottiglia di Louis Roederer da duemila euro è pronta a fare saltare il tappo per accompagnare le tartine col caviale di grana grossa. La finestra della camera abbraccia il luccichio sulla superficie del mare che anticipa il calare del sole.
È un sogno, di quelli da sfogliare come un album di fotografie.
Lisa non si risparmia e respira. Respira e pare voglia accumulare tutta l’energia del mondo per esplodere come una bomba nucleare. La cosa certa e che io salterò in aria assieme a lei.
La casa è un edificio moderno, basso, dall’architettura essenziale. É comparsa alla fine di una stradetta in terra bianca che attraversa un bosco di pini arresi ai capricci del vento e mi ha accolto con un monolocale di pavimenti lucidi, high tech e quadri astratti alle pareti. Il tetto con le travi a vista, solo lievemente inclinate, è interrotto dal camino in pietra al centro dello spazio, anticipato da un ampio divano e da un tavolo in vetro pronto per fare festa. La porta sulla parete al fondo è aperta su un bagno sontuoso e sulla camera da letto. Già sapevo che vi avrei passato un momento indimenticabile.
Quando il cuore comincia a rallentare, noto lo schermo appeso alla parete. È un ventisei pollici lcd, montato su un supporto orientabile. Inquadra dall’alto un bambino di forse due anni. Dorme nel suo lettino con un braccio pizzicato sotto il viso e i capelli lunghi e biondi sparsi a ventaglio sul cuscino azzurro. Mentre Lisa ancora cerca il ritmo naturale del suo respiro, il piccolo mostra la serenità degli innocenti. Non faccio in tempo a domandare, quando lei mi anticipa.
«Si chiama Martino. Compirà due anni a settembre. L’ho avuto con Valerio, il mio primo marito…»
Mi chiedo chi sia il secondo marito e anche questa volta mi legge nel pensiero. «Il secondo non esiste. Oddio, arriverà, anche perché l’angioletto ha bisogno di un papà, ma per ora nulla. Diciamo che sono alla ricerca del candidato ideale…»
Il pargolo è stupendo.
Si rincorrono pensieri tossici, distruttivi. Lisa deve avere avuto un marito bello come un dio. Mi aspetto un confronto impietoso, fra muscoli, intelligenza, personalità e virtù meno apparenti. A pensarci bene sono anche un discreto morto di fame e il portafoglio sanguina ancora dopo che ho pagato l’aperitivo e invece, a quanto pare, Lisa ha un tenore di vita che non mi appartiene. Sento ancora le vibrazioni della Aston Martin che si propagano nel fondoschiena. Do fiato alla bocca senza riflettere troppo.
«Potrei essere io?»
Lo sguardo è di quelli che ti aspira tutto il sangue e lo sistema in ghiaccio in fondo al freezer. Mi sento come il pesce nell’acquario, come l’insetto catturato dal bambino senza cuore e lasciato consumare di fatica sul fondo del barattolo. «Cosa?»
«Il candidato ideale…»
Lisa rannicchia le ginocchia. Mi sfiorano le gambe nude e sento che la manovella ricomincia a girare. Ricevo il bacio e mi giro per vedere il bambino in Tv. Come la mamma, ha cambiato posizione. Ora dorme supino, con la bocca che sembra divorare il cuscino.
«Potresti, perché no! Il primo colloquio, direi, è andato bene e il secondo…»
Riesco ancora a parlare prima di essere soffocato da un bacio. Finisce dopo un’eternità mentre la mano di lei ingrana la marcia. «Colloquio? Non mi sembra che abbiamo parlato…»
Sospira. «Era la prova pratica. Dopo mangiato partiamo con le interrogazioni. Ti va bene il programma?»
Mi piace il programma e mi piace come bacia. Piace alla mia parte animalesca che comincia a scalpitare come un cavallo nel temporale.

Il cellulare di Lisa vibra sulla superficie in marmo del tavolino e tutti i contatti vanno in corto. Smetto quello che ho cominciato e smonto da cavallo. Lei, colta da un’improvvisa pudicizia, si tira il lenzuolo al mento e risponde.
È una chiamata video.
Lo schermo incornicia un volto da maschio alfa: mascella importante, barba sale e pepe trascurata con sapienza, occhi neri e severi come quelli di un comandante. Lisa si scusa con un po’ d’imbarazzo.
«È Valerio, il mio ex marito.»
Mi chiedo quanto tempo impieghi per spettinarsi così bene e perché la clavicola inquadrata al fondo del display ricordi il ferro battuto dei cancelli. La voce da doppiatore di divi è all’altezza delle aspettative.
«Ho disturbato? Hai ospiti?»
La risposta è lapidaria. «No, sbarra sì. A cosa devo la tua apparizione?»
«Domani sarà vento. Forte. Con Gigi e la Sabri si era deciso di andare a vela. Se gira giusto, anche la Micky e Beppe sono dei nostri. Te?»
Spero che Lisa mi consulti ma tutto sommato è meglio che non lo faccia. Come marinaio non valgo nulla e credo che cadrei a mare alla prima virata. A dirla tutta mi fa paura qualsiasi liquido che si agiti poco più dei gargarismi con il sale o dell’aspirina che rotola in mezzo bicchiere d’acqua. Avrei risposto di no davanti al dio greco per disintegrarmi subito dopo dietro quel sorriso da macho.
«Bravo te. E che ci faccio con Martino?»
Questa vota la voce del maschio alfa non maschera la commozione. «Il pupo come sta. Se la cava?»
«Corre come un treno, gioca, mangia e caga ma direi che è ancora presto per lasciarlo solo con qualcosa da scaldarsi al microonde e un porno da guardare sul web…»
Effettivamente il bimbo è speciale. Sbadiglia e si strofina gli occhi, ancora assonnati nel bel mezzo di quella faccia seria. Non mi stupirei se stesse pensando a una riunione d’affari. Lisa, invece, parla con lo schermo con lo stesso trasporto che avrebbe dinanzi a una persona in carne e ossa. Valerio non desiste:
«Non lo lasci solo. Chiami la baby sitter e la metti sotto a cambiare pannolini…»
Quando finalmente Lisa si gira alla ricerca del mio consenso, ho abbandonato il materasso e attraversato a piedi nudi la grande camera. Guardo fuori coprendomi le grazie con la mano e mentre un alone di condensa si forma attorno al naso schiacciato sul vetro . Non c’è modo di uscire sulla terrazza in pianelle blu che si affaccia sulle onde. Il cristallo, che occupa l’intera parete, è ammorsato nei muri e nel pavimento come una diga nel granito. Il mare si sta contaminando con qualche goccia di nero e il cielo comincia ad appesantirsi. Lisa mette in attesa l’ex marito. Con il lenzuolo addosso, sculetta fino al computer in standby sulla scrivania e chiama la baby sitter.
Risponde dopo una serie di cicalii che ricordano un piccione in amore. 

È asciutta come un ramo in inverno e invasa dall’azzurro degli occhi formato extraterrestre. I capelli appaiono scuri per effetto del bagnato ma sono biondi e incollati al volto. Non vedo l’asciugamano intorno al collo ma è certo che sia appena uscita dalla doccia. Il piercing al naso balugina nell’inquadratura della web cam come se catturasse la luce ritmica di un lampeggiante. Scopro dopo un attimo che si chiama Claudia. 
Lisa si siede sul bordo della sedia, blocca il lenzuolo sul petto con la mano e chiede alla baby sitter se abbia tempo e modo di prendersi in carico il piccolo Martino quando lei, l’ex marito Valerio e la serie di amici sportivi e pronti ai tutto si sollazzeranno fra i marosi salati nel sole che scotta. Intanto il bambino ha ingaggiato una lotta con le lenzuola e pare si arrampichi in parete nelle Dolomiti del Cadore. 

La trattativa dura poco.«Ma certo, Lisa, lo terrò con me tutto il tempo necessario» dice, e Lisa la ripaga con quel sorriso che ho imparato a conoscere.
Decido di rivestirmi.
La finestra sul terrazzo è ostile, sigillata come una bara e le mie nudità mi mettono in imbarazzo. Valerio, l’ex marito, è sempre inquadrato nello schermo del cellulare. Si trastulla la barba, fa smorfie e spinge le labbra con la lingua fino a quando la punta non fa capolino. Passo, evitando di finire nell’inquadratura e vado oltre. Ci sono cose dopo il sesso che vanno fatte subito, tipo fumare e cambiare l’acqua al pesce. Ricordo di avere lasciato le sigarette sull’Aston Martin.
La conversazione fra le due si è fatta fitta.
Si parla del tempo, del mare, del catamarano tredici metri che dondola placido nelle acque del porticciolo, delle rispettive avventure amorose. Claudia accenna a un tipo che le ricorda il dio del mare, Lisa ride ma tarda a raccontarle di me. Il piccolo Martino, a video, ha litigato con le lenzuola al punto che lo avvolgono come un sudario.
La sala bagno non delude, solo un po’, per così dire, solenne. Sopra il lavandino doppio, la specchiera è ricavata all’interno di una profonda nicchia. Nessun mobiletto o tappeto. Il box doccia con il piatto di legno è del tutto trasparente, l’ampia vasca con idromassaggio troneggia al centro del pavimento in severo marmo grigio con le striature bianco ossa. Lo stesso rivestimento è utilizzato per le pareti.
Mentre Lisa e Claudia se la ridono nella loro videoconferenza, svuoto la vescica, apro l’acqua della doccia e mi tuffo dentro un muro di vapore.

Che mi coccola, mi rigenera.
Scioglie le tensioni e purifica la pelle. Sono all’interno di un universo parallelo, mi sembra di viaggiare su un disco volante.
Il docciaschiuma blu mare profuma di salsedine. Cola sul petto, sulle gambe e forma una patina azzurrognola che solletica i piedi,
Mi concedo un secondo giro e intuisco fra l’andirivieni del vapore che Lisa sta riempiendo la vasca dell’idromassaggio.
Ha raccolto i capelli in un chignon, la frangia è divisa in modo impari: abbondante sulla sua sinistra fino a coprire l’occhio, ridotta a un ciuffo di capelli meno consistente dalla parte opposta del viso. Immersa nell’acqua che ribolle e schizza sul viso, è seria quanto basta per preoccuparmi.
«Tutto bene, Lisa? Ti sei messa d’accordo con Claudia?»
Non risponde. Sprofonda sotto le bolle. Temo di averla offesa. Ho indossato l’accappatoio da uomo che era appeso accanto al suo microfibra e forse ho ecceduto in confidenza. Riemerge dopo quasi un minuto.
È affannata.
L’acqua le cola dalle narici e il chignon si è disfatto in una serie di trecce disomogenee appiccicate alle spalle e sui seni. Senza farmelo chiedere, levo l’accappatoio e lo rimetto al suo posto. Nudo come un verme non sono autorevole ma ci provo comunque:
«Lisa, è stato bellissimo. Ora…ora torno di là, mi rivesto e poi vado. Allora, in bocca al lupo per la gita col catamarano…»
Lei sputa l’acqua che aveva inghiottito. Ha gli occhi arrossati come dopo un lungo bagno in mare.
«Ma no! Ci sono lo champagne e le tartine di caviale. Non te ne vai senza prima avere bevuto qualcosa. Ti pare?»
«Sarebbe un peccato dire di no al Louis Roederer…»
Indugia. Con un colpo di tosse espelle ancora acqua, dal naso e dalla bocca. Il sorriso è appena accennato, andrebbe interpretato fra le righe di quel volto bellissimo. «Lo beviamo qui. Vai a prenderlo…»
E torno in camera. La pelle calda per il vapore si scontra con l’aria mite dell’ambiente. Ancora il mare che lentamente affonda nel buio, il letto disfatto, le lenzuola abbandonate in terra sulla strada del bagno. Il volto di Claudia, l’amica baby sitter di Lisa, è rimasto impresso nello schermo del computer. Sono colpito dalla fissità dello sguardo, dalla pelle diafana, dal tracciato azzurro delle vene che s’intravede sotto le sacche edematose alla base degli occhi. L’aria mite della stanza vira al gelo.
Mi avvicino.
Claudia sembra morta ma mi sorprende vomitando un getto d’acqua misto a materia scura e molliccia.
Alghe.
Il secondo conato è ancora peggiore e imbratta la videocamera. Il suono profondo e gutturale si apparenta con un lamento infernale.
Sono nudo, il sesso ridotto al nulla, le gambe tremule. La paura.
Valerio, inquadrato nel cellulare ancora acceso di Lisa, è morto. Ha i capelli appiccicati al cranio, le palpebre socchiuse sopra le pupille fisse, le labbra gonfie e violacee. Mi avvicino quanto basta per comprendere che lo sfondo nero dietro alla sua testa è un sacco per i cadaveri e quasi svengo quando, con un solo gesto netto, deciso come la lama di una ghigliottina, una mano anonima tira la cerniera lampo chiudendo il sipario sulla scena.
Lo schermo sedici pollici appeso al muro pare il vetro di un acquario. Ci sono bolle grandi e piccole attaccate alla superficie, bolle che risalgono e una nuvola di sporco che galleggia informe nel centro della scena.
Acqua.
Vorrei urlare ma il grido s’incastra fra le tonsille e quello che ottengo è una tosse convulsa e sento freddo. Il buio dietro la finestra ha conquistato il mare e un cielo povero di stelle pesa come il coperchio di un tombino.
Voglio tornare da Lisa, avvertirla di quello che accade ma ho i piedi praticamente incollati al pavimento.
Quando vedo il corpo esanime del bambino che galleggia nello schermo con le braccia spalancate, cado in ginocchio come se mi avessero fucilato.
Non so come, ma torno in bagno.
La vasca dell’idromassaggio ribolle come un vulcano e la mano di Lisa ha spezzato le unghie nel tentativo di uscire. Ora è immobile, rivolta verso terra con il polso piegato sul bordo.

Il mio telefono funziona ancora.
Non sento più freddo, né dolore.
Nudo, senza la forza e il costrutto di rimettere insieme i pezzi della mia anima, mi collego al social network e la vedo lì, meravigliosa. Ora con gli occhiali da intellettuale, ora con la sabbia della spiaggia maliziosamente appiccicata ai glutei sodi. Ora vestita a festa per il battesimo del piccolo Martino. Nella foto di gruppo compaiono tutti: Lisa, Valerio, il piccolo, Claudia e tutti gli altri amici.
Capisco solo dopo che sono affogati in mare, morti, travolti un anno prima da un’onda anomala improvvisa. Per i social network, invece, e per la mia infinita ingenuità, Lisa continuava a esistere.
Con il tempo ho trovato l’animo di rivestirmi ma gli schermi non hanno finito di torturarmi. Le scene si perpetuano, le morti si ripetono.
È impossibile uscire dalla casa.
Se mi affaccio alla finestra sul mare, dove si avvicendano i giorni e le notti, se mi avvicino alle altre finestre sparse per la casa, vedo gli occhi curiosi che convergono verso la mia disperazione e i pollici enormi che scorrono sull’esterno del vetro e scrollano, scrollano.
Scrollano.
Sono morto ma non cancellato.
Continuo a esistere, sigillato dentro un social network come un pesciolino fra le pareti della sua boccia di vetro.


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