mercoledì 17 febbraio 2021

Scrivere romanzi di genere senza abusare degli stereotipi...







La letteratura di genere, così come il cinema, si può definire tale perché attinge a certi stereotipi che la rendono riconoscibile e per quello, piace. 
Un romanzo giallo sarà inevitabilmente imperniato su un delitto e sulle indagini che ne seguono, un thriller su un evento o una serie di eventi che indurranno la repentina trasformazione di un personaggio, di un gruppo molto vasto di personaggi o di un'intera società, che vedranno l'iniziale indole pacifica e accomodante diventare qualcosa di difficilmente gestibile e prevedibile.
Il limite del prodotto di genere è fin troppo ovvio: l'eccessivo sfruttamento del cliché, l'esaurimento della sua forza, il crollo della sua efficacia. 
Se io, per esempio,  ritengo che la storia de Il buono, il brutto e il cattivo rasenti la perfezione formale e sostanziale, che rappresenti il baricentro fra l'epico, lo splatter e il pulp, che il celebre triello sia la voce enciclopedica perfetta alla ricerca della parola "sparatoria", devo però capire che riempire le tre ore di film di trielli e sparatorie in tutte le salse e ambientazioni, alla maniera di un brutto videogioco, sia la strada più breve per produrre spazzatura, e questo a Hollywood succede sempre più spesso.
La stessa cosa vale per la narrativa. 
Se Raymond Chandler e Mickey Spillane, che anni fa avevano inventato la figura dell'investigatore con il cuore di pietra, il brutto carattere, l'ascendente sulle donne e il grilletto facile, erano stati geniali e avanti con i tempi, oggi, indurire il cuore del personaggio fino a renderlo disumano, calcare i tratti del carattere al punto di rasentare il ridicolo, metterlo in competizione con Rocco Siffredi e farlo sparare su tutto ciò che si muove, non migliora il risultato ma lo azzera. Non stiamo parlando di cavalli vapore, di pixel o di giga di memoria ma di personaggi letterari.
Non sto scherzando.
Leggo molto e capita di imbattermi in autori, anche famosi, che credono di avere in tasca la soluzione contro la noia e applicano il principio del replicare cose già fatte e dell'esagerare fino ad apparire grotteschi. 




E poi ci sono gli investigatori a spese del contribuente: commissari, ispettori, sottufficiali con il piglio del vincente, semplici agenti e impiegati generici con la capacità deduttiva di Sherlock Holmes, la mira da cecchino e la memoria eidetica. Qualcosa di simile lo aveva scritto Giorgio Scerbanenco, intuendo che la cosa sarebbe piaciuta, ma erano gli anni '40. 
Nel frattempo la materia si è evoluta nella direzione dei tutori della legge sempre più bizzarri: viziati, malati, collerici, fedifraghi, ortodossi, peccaminosi, ambigui. 
Impossibili.  
Tutti hanno un passato di sofferenza, abusi e soprusi. Molti sono semplicemente disturbanti.
Mi chiedo se personaggi normali o appena caratterizzati da qualche tratto che non sia caricaturale possano andare bene oppure no. Vanno bene, altro che, solo che troppi scrittori non portano alcun rispetto nei confronti del loro pubblico e sono convinti che fare uso di un cliché trito e ritrito e poi esasperarlo, sia una naturale conseguenza dell'evoluzione darwiniana. Don Winslow, per esempio, ha scritto  romanzi superlativi e la sua trilogia del narcotraffico è abitata da banditi normali, poliziotti normali, prostitute normali e giudici normali. Magari i banditi sono efferati, e ci mancherebbe altro, gli sbirri schiumano rabbia e si fanno lasciare dalle mogli, i giudici sono corrotti e le femmine non sono tutta casa e famiglia e pure i preti hanno qualcosa da nascondere ma ogni dettaglio è assolutamente credibile e soprattutto non induce la risata.




A mio parere, la vera evoluzione è quella di rielaborare il genere attribuendo a ogni situazione un valore ponderale diverso. 
Posso parlare di un serial killer apparentemente onnipotente senza che la storia sia filtrata dai soli occhi degli inquirenti e osservata esclusivamente dalle polverose stanze di un commissariato? Chi me lo impedisce?
Posso immaginare un complotto internazionale e vedere l'effetto che fa sulla pelle delle vittime e non degli agenti segreti? Perché no?
Posso ambientare una scabrosa vicenda in provincia facendo a meno dei soliti stereotipi sui bifolchi facili a regolare i conti con la motosega? Che ne dite?
Posso immaginare la disperazione di un uomo senza che ad assisterlo nei suoi patimenti ci sia un maresciallo?
Posso liberarmi della solita ragazza trovata smemorata nel bosco, ferita nel bosco, moribonda nel bosco, sepolta nel bosco o dimenticata nel fondo di un pozzo?
Posso usare il pretesto della struttura solida di un bel thriller per arricchire la storia con denunce sociali, riflessioni, humor, cenni culturali, storie d'amore e di vita? Posso fare saggio uso dei retroscena e divertirmi a scrivere personaggi interessanti  che esulino da tutto quanto atteso in un libro di genere? 
È assolutamente possibile, rinunciando all'ennesimo clone dell'ennesimo clone, dell'ennesimo clone. I cloni sono come la psicosi della notizia, crescono di passaggio in passaggio fino a diventare inverosimili e talvolta mostruosi.
I cloni hanno abbassato la qualità dei romanzi e convinto tanti editori che un libro uguale a mille altri sia l'unica cosa che serve per sbarcare il lunario.
Quindi la letteratura di genere è bellissima ma va maneggiata con cura, amore e fantasia e a cercare bene, si trova. 

Come ha detto Haruki Murakami, se leggi soltanto quello che leggono tutti, puoi solo pensare quello che pensano gli altri.


 

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