mercoledì 9 novembre 2022

Il sostituto

 





In trazione con la gamba rotta.
Quando me lo dissero rimasi di stucco, e fui ancora più sorpreso di sapere che l'esimio collega, dottor Artemio Galandri specialista in endocrinologia e malattie del ricambio, si era avventurato con la moto da trial su un sentiero troppo scosceso per la sua tecnica di guida approssimativa, era caduto e aveva evitato che la sua Ossa TR300 gli rovinasse addosso. La cosa che non era riuscito a evitare, invece, era che il ceppo di un albero reciso si mettesse in mezzo, interrompendo bruscamente la sua rotolata verso valle e proprio un attimo prima che un morbido prato potesse attenuare le sue disavventure. Mi telefonò lui personalmente, appena dopo l’intervento che gli aveva dato una risistemata alla milza e con un occhio rosso vivo come quello di Terminator:
«Mi terresti aperto l’ambulatorio? Per i mutuati. Puoi scegliere tu l’orario. Io ne avrò per almeno tre me…» si interruppe, probabilmente in preda a una fitta di dolore, o messo a tacere dal rimprovero dell’infermiera.
Non mi sembrava possibile! Io, giovane medico della mutua alle primissime armi, uno studio in periferia e un numero di pazienti che si contavano sulla punta delle dita, potevo solo essere lusingato dalla maestosa opportunità che mi veniva offerta dal collega anziano. Anziano e imprevedibile, perché tutto avrei pensato di lui, meno che alla sua età cavalcasse potenti motociclette alla ricerca di quel brivido speciale.
Scapolo, pieno di ambizioni e speranzoso di accattivarmi la stima di qualche suo mutuato in prospettiva futura, accettai l’incombenza, promettendogli che avrei dedicato tre ore di ogni pomeriggio per assistere ai suoi pazienti. Mi feci spiegare come era organizzato il suo ambulatorio e attesi che la moglie mi portasse le chiavi. Lo fece la sera stessa raggiungendomi a casa, e assieme al mazzo, fornì anche un memorandum di prescrizioni utili al buon funzionamento del lavoro, prescrizioni che comprendevano, fra le altre cose, la routine necessaria per dotare l’ambiente della protezione antifurto e di una serie di accorgimenti per il buon funzionamento della videosorveglianza. Scoprii che, attraverso una telecamera interna, il collega teneva sotto controllo l’afflusso dei pazienti nella sala d’attesa, sapendosi regolare sulla durata e solennità di ogni singola visita.

Il primo pomeriggio mi recai all’ambulatorio con una ventina di minuti di anticipo rispetto all’orario delle 14.30, quello storicamente fissato per l’apertura. Con sorpresa vidi che la solita coda all’esterno si era ridotta a uno sparuto gruppetto di anziani, tutti con la loro brava richiesta di prescrizione conservata in busta.
Non mi stupii, la voce dell’incidente al vecchio medico doveva essersi diffusa attraverso i pettegolezzi e per quel giorno molti malanni dovevano essere miracolosamente guariti. Mi convinsi che presto avrebbero apprezzato la mia serietà e preparazione, l’entusiasmo giovanile e, perché no, la proverbiale cortesia.
La porta dell’ambulatorio si aprì dopo qualche resistenza, ed ebbi l’impressione che i pazienti stessero giudicando la mia manualità contando i secondi che impiegavo per ruotare la chiave nella serratura. Appena vinta la disputa con quel nottolino capriccioso, feci accomodare i pazienti all’interno della sala di attesa. Erano in quattro, tre uomini e una donna. Quest’ultima, dimostrando una certa consolidata abitudine, andò a sedere sulla poltroncina all’angolo e, senza guardare, raccolse il numero di una rivista di gossip e l’aprì con sicurezza nelle pagine centrali, come se fosse tornata apposta per finire l'articolo lasciato in sospeso quell’ultima volta. Un altro, un signore obeso che portava sulle gambe almeno settant’anni e il doppio di chili di peso, sedette occupando due poltroncine e lasciò che la grossa testa, piena di capelli unti, appoggiasse contro il muro. Non insistetti nel guardarlo, ma mi parve di vedere un alone di sporco proprio dietro alla sua nuca. Gli altri si limitarono a lasciare le richieste di prescrizione nell’apposita scatola e se ne andarono senza cerimonie. Dalla finestra dell’ambulatorio, li vidi allontanarsi. Uno dei due mimava la caduta dalla moto del dottor Galandri e l’altro lo guardava, dispensando una faccia preoccupata. Si allontanarono, con quello più anziano che indicava all’altro la posizione della milza.
Non feci in tempo a invitare ad entrare che già il primo paziente bussava alla porta. Lo feci accomodare, facendomi trovare in camice dietro la scrivania.
«Buongiorno, in cosa posso aiutarla?»
Sedette, lasciandosi andare pesantemente. Vidi un po’ di pancia comparire fra la maglia e i pantaloni e un’ernia di spigelio fare capolino. Mi sforzai di non sembrare preoccupato, ma le probabilità che una simile patologia potesse portare delle complicanze erano alte, almeno nei testi che avevo studiato. L’uomo sembrò leggermi nel pensiero.
«Sono De Pasquale. Ho bisogno di farmi consigliare uno specialista» esordì, indicando l’appariscente bozzo sulla parete dell’addome. «Non sapevo che il dottor Galandri fosse in ferie…»
«Ah, sì…» Mi astenni dall’informarlo sull’incidente, sulla moto da trial e su tutte quelle circostanze piuttosto buffe. L’occhio mi cadde sul monitor: a parte la signora con il giornale di gossip, la sala d’aspetto si presentava vuota come un ufficio postale dopo la chiusura. Mi collegai sul sito del primo chirurgo che mi venne in mente, tenendo in considerazione il criterio geografico.
«Questo è il dottor Mazzari. Un giovane collega del quale ho una stima infinita.» Gli sporsi un biglietto con il numero di telefono. «Lo chiami, prenda un appuntamento con urgenza. Io lo sentirò questa sera stessa per ragguagliarlo. Intanto lei eviti di fare sforzi e sollevare pesi…»
«Sono in pensione. Non ho niente da sollevare!»
«In ogni caso, si riguardi…»
«È tutta la vita che mi riguardo. Non vede come sono conciato?»
Evitai di abboccare nella polemica. Mi alzai, tentai di disegnarmi in faccia un sorriso di circostanza e lo congedai con una stretta di mano.
Fra l’uscita del primo e l’arrivo della signora passò il tempo necessario a completare la lettura dell’articolo sulla cellulite di una certa attrice. Approfittai per registrare la prestazione appena conclusa, ammettendo con me stesso di non avere fatto alcuna fatica. La paziente si sporse all’interno, con la borsetta stretta in grembo e l’aria di volersi togliere il fastidio prima possibile. Notai l’abbinamento strano fra una gonna turchese in fustagno ed una camicetta gialla a pieghe. Appeso al collo un appariscente crocifisso in oro ed un ciondolo con la rappresentazione di qualche madonna nera. Ammisi la mia ignoranza in materia di religione e tentai di affrontare la visita con piglio professionale. Prima ancora che potessi salutarla arrivò la domanda che più temevo:
«Galandri come sta?»
Abbottonai il camice e mi misi seduto. Sistemai la scatola dello sfigmomanometro parallela al filo del piano di appoggio e feci aprire al computer la pagina con i mutuati. Fui sorpreso ancora una volta dalla lunghezza della lista.
«Signora stia tranquilla, è in buone mani.» Questa volta il sorriso mi uscì più ipocrita del solito e vidi che gli occhi chiari della signora registrarono la cosa con uno scatto.
«Allora non rientra subito?»
«Subito subito, no…» Risposi, immaginandomi il collega sotto morfina e immobilizzato nel letto del centro traumatologico, con la sola prospettiva di vedere passare una nuvola ogni tanto attraverso lo spazio della finestra. «Se tutto filerà liscio ne avrà per un paio di mesi.» Replicai, sapendo di avere abbreviato di un bel po’ il tempo della prognosi. La tristezza disegnò una ruga nuova sulla faccia che avevo davanti, complementare al segno di espressione sulla fronte che voleva dire ansia. Attesi un tempo che mi sembrava giusto perché la signora potesse elaborare il lutto, quindi posi la domanda di rito.
«Posso aiutarla, signora?»
Vidi gli occhi azzurri perdersi nella fantasia di colori rappresentata dalle scatole di farmaci campione racchiusi nell’armadietto a vetro e poi scattare per decine di volte nei vari angoli dell’ambulatorio, fino a fermarsi su un particolare che mi era sfuggito. Stava contemplando il crocifisso che il collega aveva esposto proprio sopra una cassettiera. Attesi, per il dogmatico rispetto che si deve ai fedeli.
Io, ateo convinto e feroce sostenitore dell’ortodossia scientifica, sentivo quel simbolo sacro alle spalle come una minaccia alla mia stessa incolumità, come se da un momento all’atro potesse staccarsi dalla parete e decapitarmi. Dopo qualche secondo riproposi la domanda.
«Posso aiutarla, signora?»
«Lei è religioso come il dottore?»
Mi chiese, e io non seppi mettere in ordine di gravità le due cose, ovvero che mi domandasse se fossi religioso e poi che non mi considerasse un medico al pari del collega. Fuori, intanto, era arrivato un nuovo paziente, seduto nella poltroncina centrale accanto a una vistosa stampella lasciata appoggiata al muro. Il pover’uomo aveva la gamba interrotta appena sotto il ginocchio, con i pantaloni lasciati malamente strisciare in terra. Ma il particolare più fastidioso era una netta deformazione del cranio, schiacciato da un lato e allungato come quello di un faraone. Nella fronte si notava uno sprofondamento della dimensione di una moneta, che la telecamera in bianco e nero faceva assomigliare a un buco aperto sul buio. Distolsi lo sguardo e mi dedicai alla paziente.
«Diciamo che la religione non è la mia principale preoccupazione…»
La signora si mostrò risentita. «Ma nemmeno il dottore, sa?»
Incassai l’autorete, cercando di mostrare un minimo di dignità. D’istinto portai la mano destra al fonendoscopio appeso al collo e lo carezzai, come per sottolineare il pari grado di istruzione nei confronti del collega anziano. La signora mise sul piano della scrivania un ritaglio del cartoncino delle sue pastiglie per l’ipertensione. Riconobbi il nome del principio attivo e convenni che il collega ci andava pesante.
«Ha bisogno di una nuova prescrizione, signora?»
«Sì…»
«Bene. Quando è stata l’ultima volta che se l’è misurata?»
«E’ stato il dottore, un mese fa.» sbottò.
«Allora la prego, si accomodi sul lettino che la controlliamo nuovamente.»
Sistemò la borsetta sulla sedia e sollevò la manica della camicia, avendo cura di arrotolarla con la massima precisione. Si mise seduta sul lettino e sporse il braccio con l’entusiasmo che si potrebbe adoperare per ricevere l’iniezione letale. Finsi di non vedere, arrotolai il bracciale badando a non chiudere troppo e soffiai aria all’interno. Con mia sorpresa la colonnina dell’apparecchio scese tantissimo prima che potessi avvertire il primo battito. Sganciai, sistemai la pompetta con l’attenzione che si deve verso le cose degli altri e mi misi seduto alla scrivania. La manica della camicia, intanto, ritornò al suo stato originale con la medesima lentezza con cui era stata ripiegata.
«Signora, quanto ne prende di questo farmaco?»
«E’ un diuretico.» Mi rispose eludendo la domanda.
«È un doppio principio attivo» spiegai. «Si tratta di un diuretico abbinato con un ACE inibitore…»
«Il dottore ha detto che va bene…»
«Lei, signora, ha la pressione troppo bassa, ma credo che questa sia una buona notizia, no?»
«Una al giorno per tutti i giorni…»
«100 su 60, alla sua età è un po’…»
«Ho bisogno di due scatole!»
Fui tentato di rassegnarmi. «Quante ne ha ancora a casa?»
«Una scatola intera.»
«Bene, signora. Da domani dimezzi la dose, poi passi a trovarmi fra dieci giorni che valutiamo la cosa…»
Arrivò uno sguardo carico di odio, che insieme ad un ricatto morale si insinuò nella mia coscienza facendomela prudere. Tenni duro: quella paziente si stava avvelenando per curare una malattia che probabilmente non aveva. «Ritorni fra una settimana.» Imposi, ritrattando sui tempi per non affondare troppo duramente.
La signora se ne andò riservandomi un saluto freddo.
Sospettai che sarebbe andata a rivolgere le sue rimostranze direttamente al capezzale di Galandri.
Mi resi conto che avevo cominciato con il passo sbagliato, che in sala di attesa c’era un uomo che sembrava essere sopravvissuto all’impatto con un TIR, e che qualcuno si era approfittato per soffiargli il posto. Alla porta un tipo con un bruttissimo aspetto e la prospettiva che sarebbe stata una giornata da dimenticare.

Avevo trovato la cartella clinica dell’uomo in sala d’attesa.
L’avevo rimediata senza problemi, digitando sulla ricerca ipertestuale del data-base la voce “amputazione” abbinata alle parole “deformazione cranica”. Le prime righe che lessi mi diedero l’idea di quello che stavo per affrontare. Parlavano di un operaio edile di quarant’anni, caduto dal terzo piano di un ponteggio fatto male. Aveva avuto la malasorte di trovarsi con la gamba e la testa rimaste malamente incastrate fra i tubi Innocenti. Nelle righe che seguivano, il collega aveva annotato gli interventi chirurgici che si erano resi necessari, compreso il sacrificio della gamba destra maciullata. Tuttavia qualcuno, forse approfittando dell’handicap del poveretto, lo aveva anticipato, presentandosi in ambulatorio al suo posto.
Alla vista di quel paziente mi si srotolò dinanzi l’enciclopedia dei sintomi dello stress. Pudicamente misi la cartella nel cassetto e lo esaminai sommariamente.
Presentava una stempiatura asimmetrica, degli eczemi arrossati sotto l’orecchio e sullo zigomo, occhiaie pesanti e una magrezza sospetta. Il suo occhio sinistro si contraeva continuamente, come se tentasse di trasmettere un messaggio in codice morse. Inoltre un vago odore di acido arrivò fino al mio naso. Poteva avere trent’anni o poco di più. Di certo la vita lo aveva asfaltato.
«Non sono un suo paziente, dottor Galandri.» Esordì, dimostrando di non avere idea di chi fosse effettivamente il dottor Galandri. Per non caricare la conversazione di dati inutili, omisi la storia dell’incidente in moto e della sostituzione, cosa che io stavo cercando di esercitare degnamente.
Lanciai un’occhiata al monitor della videosorveglianza e mi resi conto che l’uomo amputato se ne era andato.
«Vengo per mia moglie. Piange sempre, non dorme da giorni e credo che questa volta stia crollando. Ha bisogno di un medico. Sono sicuro, dottor Galandri, che lei la conosce bene e potrà aiutarla a stare meglio.» Disse, e intanto fissò il crocifisso alle mie spalle, come se fosse alla ricerca di qualcosa di più dell’aiuto di un medico. Rimasi ad ascoltarlo per tutto il tempo che passò a esporre i sintomi della sua consorte. Non risposi e mi astenni dal commentare. Semplicemente presi atto della cosa e mi immedesimai in quel caso.
Avrei voluto dirgli che ero il sostituto di quel posto, e non il titolare. Avrei voluto chiedere informazioni maggiori sulla sua consorte: se soffrisse o avesse sofferto in passato di depressione o se fosse reduce da qualche malattia importante. Tuttavia quella maschera di disperazione che mi trovavo di fronte mi privò della lucidità necessaria.
La sala d’attesa continuava a essere vuota e l’ora della chiusura non era lontana. Decisi di anticipare l’orario della serrata, ripromettendomi di tornare in seguito. L’uomo doveva rientrare al lavoro, incontro probabilmente alla sua unica e ultima ragione di vita.
Lo congedai con una stretta di mano e decisi che non avrei fatto rimpiangere il mio collega.


Era un quartiere della prima periferia, con tante vecchie case popolari ormai riscattate, delle villette anni '50 ingentilite dal giardino e tanti muri ammuffiti, memori della storia recente di tutta la città.
Come mi aveva spiegato il marito, alla casa si arrivava virando a destra, appena dopo l’esperimento fallito di una chiesa in stile moderno che evocava il ricordo di una centrale nucleare. Vidi una fila di cassonetti che si alternavano ai robusti fusti dei platani e poi il cancello, verde e mimetizzato nell’ombra fresca. L’atmosfera mi sembrò tetra, ma nulla a confronto del pomeriggio inutile trascorso all’ambulatorio di Galandri.
Suonai, e i battenti vennero sospinti verso l’interno da un motore elettrico. Percorsi a piedi la strada lastricata in pietra.
Sui lati due file di cespugli ben curati, la grossa mole di un pino marittimo e un albero di noce proprio prima della facciata, che proiettava sulla terra morta la sua ombra velenosa.
La casa aveva un tetto a padiglione, con gli spioventi bassi mascherati da una pantalera nodosa in legno di abete, la facciata trattata con un intonaco graffiato color pistacchio e un grosso abbaino, imponente sulla copertura in coppi. Sui quattro gradini che anticipavano l’ingresso, una traversa in ferro lavorato invitava l’ospite con le suole infangate a pulirsi. Un cespuglio di ortensie poco lontano invadeva il passaggio profumando i dintorni. Notai la vecchia grondaia, che a un certo punto secretava il suo percorso tuffandosi all’interno del muro.
Trovai la porta di accesso socchiusa. Spinsi il pesante battente e lasciai che il cigolio precedesse il mio saluto.
Mi accolse la moglie, una bella donna con meno di trent’anni, le curve appena castigate da una camicia lasciata fuori dai pantaloni e lunghi capelli neri che arrivavano alle spalle arricciandosi un po’. Aveva gli occhi stanchi e un paio di righe arrossate sul lato del volto, come se le lacrime vi avessero segnato la strada. Il giornale locale aperto sul tavolo, che parlava dell’incidente occorso al collega Galandri, giustificava la sua totale assenza di sorpresa nel vedere arrivare a casa sua uno sconosciuto, armato con una borsa di pelle appena inaugurata e una faccia che doveva sembrare quella di un idiota. Lei non commentò, indicò una sedia dove potessi accomodarmi e mi girò le spalle per andare incontro ai mobili della cucina.
Che la casa fosse stata arredata di recente lo si capiva, dall’odore di nuovo che mi aveva aggredito le narici e da un impianto interno di sorveglianza che inquadrava in un grosso monitor le numerose stanze. Mi chiese se volessi un caffè.
«No davvero, signora. Grazie...Faccia come se avessi accettato.»
Attesi invano una controfferta, magari un aperitivo. Non arrivò e la padrona di casa andò ciondolando verso la camera da letto. Notai che, appena entrata, l’inquadratura si disattivò, sostituita dal logo della ditta che aveva installato l’impianto. Rimasero attivi gli altri quadri, sempre vivi su tutte le stanze nella metà dello schermo. La parte rimanente, invece, alternava le riprese su un ambiente e su quegli altri.
Si stava cambiando, probabilmente, e io attesi.
Nel bianco e nero smunto delle telecamere indiscrete,  la vista di una cyclette nella camera matrimoniale faceva a pugni con gli abiti appesi al manubrio: Un corridoio, con una lunga cassapanca sovrastata da un quadro indecifrabile, pareva lunghissimo e uno studiolo, con un computer in fondo che brillava su un programma aperto e un pianoforte a muro marca Kawai che completava la rassegna, con la tastiera chiusa sotto il coperchio. Sullo sfondo, un po’ in penombra, una serie di cesti in vimini impilati.
Queste erano le immagini che la videosorveglianza proponeva, mentre dalla camera si avvertivano rumori delle ante dei mobili e dei cassetti.
Vidi la cameretta dei figli, probabilmente al piano di sopra dietro l’abbaino. In un grosso letto bianco con le sponde, due fratellini di due anni o poco più stavano dormendo, teneramente abbracciati e con le coperte abbassate sotto la vita. Uno portava i capelli lunghi, sciolti sul cuscino in mille boccoli, l’altro succhiava teneramente il pollice. Godetti di quello spettacolo di pace e amicizia incondizionata e non capii, non capii proprio quali fossero i problemi che assillavano quella bella signora.
Sbucò dalla camera con il passo felpato. Una maglia bianca indosso e dei leggings grigi aderenti costituivano la divisa che aveva scelto in quei pochi minuti. Notai i capelli legati e per la prima volta le mani con le unghie morsicate. Gli occhiali con le grosse lunette rotonde tentavano di ingannare la tristezza di quel volto, alternando la montatura di tartaruga con il grigiore della pelle.
«Quindi mio marito sarebbe passato a cercarlo, nel suo studio?» Domandò.
Risposi con un po’ di imbarazzo, accorgendomi troppo tardi che stavo gesticolando eccessivamente. «È passato prima. Era preoccupato per il suo stato di salute» mi corressi subito. «Per la sua…depressione. Voglio dire, mi sembra di avere capito che è molto impegnato con il lavoro e allora…»
«Già, il lavoro…»
Ignorai la vena polemica. «Anche lui, a modo suo, è stressato, cioè mi è sembrato…» Dissi, disintegrando il protocollo e la professionalità.
La vidi deglutire, spostare gli occhiali e strofinarsi le palpebre. C’era qualcosa che consumava quella giovane vita, e me ne stavo dispiacendo. Abituato a vedere la sofferenza ogni giorno in puntuale rassegna, l’idea di una giovane e bella mamma in preda al male oscuro mi spiazzava.
«Mio marito è un povero illuso. Crede che con una medicina si possa risolvere tutto!»
L'assecondai. «Non è così purtroppo. Lei dorme bene, signora?»
Un sorriso camuffò senza riuscirci uno sguardo di compatimento. Ai suoi occhi dovevo essere sembrato un povero ebete. Provai a mettere il medico davanti all’uomo; di solito funzionava.
«Vedo molta tensione, i muscoli del viso contratti e le spalle ipertoniche. Se mi permette il paragone, mi sembra che si sia dimenticata l’attaccapanni nella maglia.» Dissi, confidando nel successo della battuta che non riscossi. «Adesso, se mi consente, misurerei la pressione, asculterei il cuore e…»
«Dottore» mi interruppe venendomi incontro. «Le cose sono due: la medicina, le medicine e i medici non serviranno a nulla, mio marito è un patetico buffone e lei mi sembra tutto, meno uno che sa il fatto suo.»
Incassai, portando la mano al mento e sforzandomi di non sembrare nervoso. Un brivido mi attraversò la schiena dal basso verso l’alto e le mani si gelarono in un istante. Tutta l’ostilità della donna e la fredda inospitalità di quella casa mi si riversarono addosso come una colata di cemento.
Tirai i remi in barca e mi arresi senza combattere. Sarei tornato da dove ero venuto, con un fallimento professionale e un viaggio non retribuito attraverso l’ora di punta. Tutto sommato la donna non era in pericolo di vita, dimostrava una certa, cinica lucidità e non presentava nessun sintomo apparente di malattie senza appello. Mi alzai con la coscienza messa a posto, più o meno come si rassetta la cucina all’arrivo di un ospite inatteso. Il monitor della sorveglianza, intanto, proponeva ancora l’inquadratura dei due angioletti al piano sopra. Quello biondo con i boccoli si era messo a sedere sul letto, accanto al fratellino che cercava con la mano una conferma della sua presenza. Guardava nelle due direzioni e poi verso la telecamera. Sapevo che quella tecnologia aveva il difetto di fornire delle riprese scadenti, ma in quel caso il nero pece dei suoi occhi mi colse impreparato.
Quella donna, dopotutto, aveva la prospettiva di crescere i suoi figli.
Facendo spallucce porsi la mano per il saluto. «Signora, io non posso costringerla a farsi visitare. Tuttavia mi dispiace per l’impressione non buona che suo marito maturerà nei mie confronti…»
«Mio marito, come le ho detto, è un povero idiota. Pensa che i problemi si annidino nella salute, ritiene che ogni cosa abbia una spiegazione logica e che si debba trovare una risposta a tutto nelle cose di questo mondo. Di quanto la risposta possa essere stupida a lui non importa. A lui importa solo di riempire un buco della sua conoscenza con un po’ di aria fritta a buon mercato.»
«Non credo che la medicina lo sia…»
«Di fronte ad un vero malato, no…»
Mi congedai con una frase di circostanza, pronunciata con l’entusiasmo adatto a leggere la bolletta della luce. «È stato un piacere.»
«Avrei preferito parlare con Galandri…»
Già, pensai. Galandri, con quella flemma e finta cortesia, la sua ambivalenza di medico e fedele, sempre con un piede in ambulatorio e le mani giunte a pregare in chiesa. Era il medico che si meritavano e lo avrebbero avuto nuovamente, fra tre mesi almeno beninteso.
Me ne andai senza più voltarmi, liquidato come un seccatore e messo alla porta alla pari di un mendicante. A mano a mano che mi allontanavo da quella casa, sentivo il sangue irrorare nuovamente le vene e nascere una nuova prospettiva. Andai incontro agli ultimi raggi di sole e provai sulla pelle la benedizione della loro carezza calda.

Rientrai all’ambulatorio dopo avere confezionato una versione da fornire al marito quando fosse tornato per i ragguagli. Dovevo sembrare nello stesso tempo duro e ineccepibile, serio ma comprensivo:
«Sua moglie si è dimostrata immatura, poco attenta alle sua salute e incapace di godere delle gioie della sua giovane età e delle belle prospettive che la vita le ha riservato. Per ora non mi preoccupa, ma presto questa sua apatia potrebbe avere delle conseguenze sulla psicologia dei due bambini. Non escluderei che un giorno possano correre qualche pericolo…Non mi fraintenda, la prego. Non pericolo inteso in senso letterale, quanto la possibilità che l’esaurimento della signora possa alla lunga giustificare qualche disattenzione nei loro confronti…» Ecco, questo avrei detto.
Formulai il discorso sull’auto, approfittando dei semafori per ripeterlo a voce, infischiandomene degli sguardi divertiti dei passanti. Alla successiva fermata indossai le auricolari del cellulare, che mi autorizzavano a parlare da solo senza sembrare un pazzo.
Dovevo passare all’ambulatorio, compilare alcune prescrizioni, chiudere e rientrare a casa mia a leccarmi le ferite. Passare la sera davanti a una birra a scansionare l’orizzonte delle donne libere al pub, era la migliore proiezione di ottuso ottimismo e gioia di vivere che in quel momento potevo permettermi.

Entrai nello studio del collega dalla porta posteriore.
La telecamera di sorveglianza inquadrava l’uomo amputato, lo stesso che qualche ora prima aveva rinunciato ad attendere. Portava la sua testa deforme come se fosse stata staccata dal collo e impalata da qualche selvaggio a monito del nemico, e fissava il muro con gli occhi spenti.
Un caso difficile per finire una giornata di merda, mormorai.
Per affrontare la cosa con piglio professionale ritornai alla lettura della cartella clinica, interrotta dall’intrusione del marito nevrastenico. Era ancora aperta sul monitor del computer, solo temporaneamente sostituita dal nero imposto dallo screen saver. Cominciai la lettura dal principio:
incidente occorso sul luogo di lavoro – cantiere edile in Via Manzoni 89 - Caduta dall’alto con conseguente frantumazione della gamba sinistra sotto il ginocchio. Frattura cranica scomposta e alterazione della massa cerebrale. Intervento chirurgico per l’amputazione dell’arto e riduzione delle fratture craniche. Insorgenza di stato comatoso durante il decorso post-oper…”
Il telefono dell’ambulatorio si mise a suonare. Risposi, riservando un’ulteriore penosa occhiata al poveretto in attesa.
«Pronto…»
«Buonasera dottor Galandri.»
Riconobbi la voce. Era il marito della donna depressa. Ancora non avevo capito che io non c’entravo nulla con il nome che aveva appena pronunciato e si era appena smentito, perché ricordo, aveva detto che sarebbe passato di persona.
«Buonasera a lei. Sono stato dalla sua signora quest’oggi..» La voce  uscì un po’ stridula, suonando ipocrita come mai prima. L’uomo all’altro capo del telefono mostrò preoccupazione.
«Come le è sembrata mia moglie? Crede che sia preoccupante?»
«Per correttezza, però, le devo dire che la visita non ha avuto luogo, e poi occorrerebbe che si sottoponesse a degli esami del sangue…»
«Si è rifiutata di farsi visitare?»
Colsi l’occasione al volo. Avevo preparato un bel discorso e intendevo farne sfoggio. Come se fosse scattato il risponditore di una segreteria telefonica, recitai.
«Sua moglie si è dimostrata immatura, poco attenta alle sua salute e incapace di godere delle gioie della sua giovane età e delle belle prospettive che la vita le ha riservato. Per ora non mi preoccupa, ma presto questa sua apatia potrebbe causare conseguenze sulla psicologia dei due bambini. Non escluderei che un giorno possano correre qualche pericolo…Non mi fraintenda, la prego. Non pericolo inteso in senso letterale, quanto la possibilità che l’esaurimento della signora possa alla lunga giustificare qualche disattenzione nei loro confronti…»
Silenzio.
«Pronto?»
Respiro nervoso e una vibrazione che avrebbe potuto tranquillamente essere interpretata come rabbia. Per un attimo temetti il peggio, e quell’attimo durò meno di quanto avessi desiderato.
«Cosa ha detto, dottore?»
Indugiai. «Che sono preoccupato per i suoi figli, più che per sua moglie…»
«Dottore, io e mia moglie abbiamo un solo figlio. Lei non è stato nemmeno attento a quello che ha visto. Ho la sensazione che, se la sua attitudine all’osservazione è quella che ha dimostrato, i suoi pazienti saranno in serio pericolo!»
Il bambino con i boccoli biondi aveva negli occhi la profondità del buio, ma io l’avevo visto. Era inquadrato nella camera di sorveglianza e si era mosso come l’altro. Nessuno di quei due corpi poteva appartenere a una bambola, ne ero sicuro. Nella cornetta un vociare confuso e un crescendo di parole non sempre gentili, che lentamente si tramutavano in insulti. Non attaccai ma la mia percezione del tutto si tuffò nelle profondità di un mare immaginario.
In attesa di trovare una formula adatta per accomiatarmi da quel maleducato, seguitai la lettura della cartella clinica del paziente in attesa:
“…insorgenza di stato comatoso durante il decorso post-operatorio e successivo decesso per infezione polmonare…”
DECESSO
Era scritto proprio così.
Rilessi:
DECESSO
Controllai la cartella e lanciai un’occhiata al monitor della sorveglianza.
Sulla sedia c'era un uomo dichiarato morto. 
Risi, sorprendendomi del grugnito che produssi e pensai a Galandri, alla sua inattitudine alla guida della motocicletta, alla sua lucidità che evidentemente cominciava a latitare. La cornetta del vecchio telefono continuava a latrare, collegata a quel filo a attorcigliato. Chissà quante speranze, confidenze e tristi notizie avevano attraversato negli anni quella spirale.
«Lei dottore è un incapace! Non ha saputo convincere mia moglie a farsi visitare…O non ha voluto? Forse è solo un inguaribile pelandrone, un mangiapane a tradimento…Dottore, mi sta ascoltando?»

Fui come ipnotizzato dalla scena in sala d’aspetto.

L’uomo deceduto aveva sollevato la testa verso la telecamera e adesso la fissità delle sue orbite nere mi stava raggelando il sangue. Improvvisamente lo vidi alzarsi. Maneggiava quella stampella come un fucile, pronto a esplodere un colpo attraverso il muro che ci divideva.
«Mia moglie ha bisogno di qualcuno che l’aiuti! Mia moglie è in preda alle allucinazioni! Deve prendere delle medicine, qualcosa che la faccia smettere di delirare…Dottore, si rende conto che lei vede un secondo bambino accanto al nostro? Che vede i fantasmi?»
Fu l’unica parola che distinsi in mezzo a quel delirio, uscito dalla cornetta come se la puntina di un giradischi senza amplificatore stesse solcando un brutto disco: fantasmi.
Il buio delle orbite che stavo fissando si estese fino ad occupare l’intero schermo.

Quando l’immagine finalmente si ricompose, vidi l’uomo senza gamba andarsene attraverso il muro.

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