1
Non c’era dubbio che
fosse una locanda.
Certo, l’insegna
decapitata di fronte alla porta non lo faceva pensare, e nemmeno i listoni di
betulla mezzi staccati, che un tempo dovevano avere rivestito tutta la parete.
La luce fioca dall’interno, che arrivava fuori contaminata dai vetri gialli
smerigliati, raccontava di lampadine stanche e di bollette della luce difficili
da affrontare.
Nel parcheggio un
terzetto d’auto, le prime due sistemate con il muso al riparo sotto lo
spiovente, l’ultima, una Bravo nera con il parafango massacrato e del nastro da
pacchi a tenere insieme la mascherina, era buttata in mezzo allo spazio, come
un fastidioso brufolo nel centro della fronte.
Sara aveva le scarpe di
vernice intaccate da uno spesso strato di fango, delle foglie morte sposate
all’orlo dei pantaloni ed una fame feroce, sistemata fra ventre e testa da
almeno un paio d’ore. Nonostante la lunga fuga attraverso gli alberi, un freddo
umido che saliva dalla terra si stava impossessando delle sue ossa, e
prometteva di non andarsene mai più.
«Ci facciamo una pizza?»
Diego scrutò la
fisionomia di quell’edificio. A parte un tubo in acciaio inox che sbucava come
un verme dalla mela, nulla lasciava presagire che all’interno di quella bettola
fosse stato allestito qualche tipo di forno, anche solo per riscaldare gli
avanzi del pranzo. Si levò il cappello da controllore e si grattò la testa in
attesa di un’ispirazione. Sara mise fine alle sue riflessioni. «Allora, che ne
dici? Ci mangiamo un boccone e poi riprendiamo la strada.»
«Non posso entrare
vestito così!»
Lei lo squadrò da capo a
piedi. Si era dimenticata che si accompagnava con un falso controllore dei
treni, e non solo, nella borsa da lavoro era conservato un coltello da cucina
molto chiacchierato, qualcosa che avrebbe fatto la gioia degli investigatori di
tutta la regione. «Se ti levi la giacca, imboschi il cappello e fai sparire
quel borsello da sfigato, c’è la possibilità che lì dentro ti scambino per un
tipo sportivo.»
«In maniche di camicia
vuoi dire?»
«Uno che non patisce il
freddo. Un ganzo sportivo. Ecco cosa voglio dire!»
Si stirò come se fosse
appena sceso dal letto e prese a fissare la porta di accesso della locanda con
aria famelica.
La camminata nel bosco,
due ore almeno da quando avevano abbandonato il treno in mezzo alle brume
fumose della sera, aveva attinto alle sue energie, prosciugandole. Adesso, con
i muscoli indolenziti ed il sonno che faceva a pugni con la ragione, si sarebbe
volentieri accomodato di fronte ad una tovaglia a quadri, un tavolo
apparecchiato in modo dozzinale ed una locandiera armata di buona volontà.
«Panzerotti di magro con panna…»
Sara atteggiò le labbra a
forma di succhiotto. «Ripieni di verdura. Caldi, profumati e accompagnati con
un buon Barbera…»
«A me non dispiacerebbe
una birra. » Fece segno con la mano «Bicchiere pieno fino all’orlo e dita che
scivolano sulla condensa ghiacciata…»
«Sei sempre il solito. Tu
e quelle allusioni sessuali…»
«Ma quali?»
«Quelle del bicchiere bagnato
e scivoloso. Ecco quali!»
Rise. «Ma io mi riferivo
alla birra. Morbida e saporita!»
«Smettila!»
«Davvero devo smettere?»
Lo guardò. Aveva il volto
stanco. Lo si capiva da una leggera cerchiatura agli occhi che la rara luce del
parcheggio enfatizzava.
Dall’interno del locale
si sentiva un tramestio di stoviglie. L’odore di un sugo, o di qualcosa di
simile, attraversò lo spiazzo e venne a prenderli per la gola.
Diego fiutò come un
segugio davanti ad una tana.«Noci e ricotta. No, aspetta…Noci e ricotta con uno
spicchio d’aglio…»
«No, l’aglio no!»
Lui riunì le mani a
preghiera. «Rinuncerò all’aglio.»
«L’ha già messo su,
tritato e rimescolato. Cosa fai, rinunci?»
«O no, cazzo. Certo che
non rinuncio!»
Lei sporse la bocca in un
invito. «Allora bacio. Adesso o mai più!»
Arrivò senza farsi
pregare, assieme ad un abbraccio che di caldo aveva solo la metafora.
Sara sentì i muscoli del
suo amante irrigiditi dal freddo ed una stanchezza che stava lentamente
corrodendo la sua forza di volontà. Dalla locanda arrivarono delle risate e
l’aroma inconfondibile di un sigaro.
Guardarono insieme in
direzione dell’ingresso.
Dieci metri di strada li
stavano separando dal paradiso
2
Dinanzi alla porta
verificarono insieme che nulla potesse ricondurli alla strage del treno.
La camicia di lui era
stata privata delle mostrine da controllore, la borsa era rimasta nel bosco a
fare compagnia ai vermi e la giacca era stata appesa ad un ramo come uno
spaventapasseri. Lei aveva dato una pulita alle suole servendosi di qualche
foglia morta. Nel complesso sembravano due cittadini modello, incoraggiati
a visitare un locale fuori mano da una
guida turistica per radical chic.
Prima di spingere la
porta a molla dell’ingresso si diedero ancora un’occhiata reciproca.
«E se Federico ha
parlato?» Chiese lei mentre gli sistemava il colletto della camicia.
Diego aggrottò alla
fronte e diede il via ad un calcolo delle probabilità fatto a mente. «Ma va, è
morto…»
Parve dispiaciuta «Dici?»
«No, non sono sicuro.
Certo non sarà stato in grado di descrivere le nostre facce…»
Non parve convinta. «No?»
«No, cara. Non aveva
abbastanza sangue nel cervello per fare un identikit...»
La smorfia che seguì
rimase sospesa, a metà fra la sorpresa e il dubbio.
Si diede una sistemata ai
capelli, spinse la maniglia in corno ed entrò per prima nell’aria pesante della
locanda.
3
Davanti ad un vecchio
banco bar, rivestito di una formica rossa sbiadita, una coppia di tavoli
anticipavano un appendiabiti a colonna di ispirazione rustica ed un
portaombrelli a griglia, ricavato probabilmente dalla dismissione di qualche
vecchio ufficio. Al fondo, a fianco dell’espositore per i liquori, una porta si
apriva su un corridoio buio e sulla destra si intuiva il bagno per i clienti.
La barista, che si stava
asciugando le mani con un grosso asciugamano bianco, quando li vide appallottolò sul piano quel mezzo metro quadro
di tessuto di spugna, caricò la macchina per
caffè e li accolse con un sorriso. Aveva un grembiule a fiori verdi che
faceva a cazzotti con l’intenzione di rosso del banco, un maglione di due
misure più largo e l’aria di avere bisogno di una dieta. I clienti al tavolo di
fianco, immersi dentro due piatti di penne condite con il sugo dell’arrosto,
accolsero i nuovi arrivati con un cenno della testa. Erano due uomini sulla
quarantina, il primo con un doppio mento reso ancora più evidente dalle
striature bianche della barba incolta, l’altro abbronzato, con nei capelli una
fornitura di gel per tutta la famiglia ed un paio di occhiali da vista che
sembravano incollati ai riccioli. Il sigaro toscano, quello che aveva mandato
il suo odore in avanscoperta, era appena spento nel portacenere accanto ai
piatti.
Al tavolo opposto una
coppia di coniugi attendeva il dessert davanti ad una tovaglia salmone
punteggiata di briciole. La portata sembrava pronta in cucina, dove un cuoco stava
armeggiando rivolgendo ai clienti le spalle larghe dentro una maglietta a
maniche corte. Sulla schiena una grossa aquila che sollevava un bilanciere e le
braccia muscolose e piene di tatuaggi.
La coppia di coniugi
salutò, e poi si rimise subito nella posizione di prima: lei con le spalle
chiuse in segno di difesa, un foulard al collo ed un trucco approssimativo che
le coloriva le guance, lui impettito, con giacca, cravatta e due basette
brizzolate che arrivavano fino al mento. Della coppia era il più anziano e, se
andava per la sessantina, li portava comunque dignitosamente.
Salutarono e Sara andò
incontro all’appendino, alla ricerca di un posto per il suo soprabito. Lo
appese all’unico pomello libero. Si accorse che una macchia di terra umida
aveva intaccato il fondo, qualche centimetro sotto la tasca. Fingendo di nulla
spolverò via l’alone, che si dissolse in una nuvoletta senza creare problemi.
Diego, intanto, si era tirato su le maniche della camicia, in attesa che la
barista impartisse disposizioni. La donna, dopo avere completato il caffè alla
macchinetta, indicò un tavolo rotondo, sistemato sotto una credenza a
disposizione di un’intera collezione di piatti antichi e bicchieri e nei pressi
di una chitarra acustica a spalla mancante, impiccata al muro e orfana della
corda di sol.
Il fatto che i due tavoli
occupati fossero quadrati, che i tre rimasti liberi rettangolari e che il loro
fosse uscito da un mobilificio che aveva fatto del compasso il suo principale
strumento li colpì, ma si sedettero senza indugiare. Di fronte potevano
ammirare una vasca di acquario, incastonata all’interno di una nicchia del muro
e con un piranha annoiato, che
probabilmente aspettava la sua porzione giornaliera di carne cruda.
«Desiderano?» chiese la
cameriera, venendo incontro con un taccuino a quadretti ridotto alle ultime
pagine.
Diego inquadrò sul tavolo
la tovaglia a cerchi colorati sovrapposti, un paio di tovaglioli di carta
piegati male e i due bicchieri Duralex girati sottosopra. Facevano compagnia ad
una coppia di piatti fondi che sembravano avere servito il Regio Esercito.
L’eloquenza del suo sguardo fece capire che il problema era il menù,
scandalosamente assente da quell’ assortimento di oggetti.
La locandiera, bionda
autentica con un paio di grossi occhi azzurri e distanti, rimediò immediatamente. Facendo cenno col capo
agli uomini del sigaro, indicò i due piatti appena passati a scarpetta e poi si
rivolse a loro. «Penne con il sugo dell’arrosto, oppure spaghetti con il sugo
dell’arrosto o arrosto…»
Sara pensò che una simile
cafona sarebbe stata buttata a mare anche su un veliero di pirati, ma si
controllò. Il suo stiletto d’acciaio, quello che aveva visitato a fondo il
fegato dei passeggeri sul treno e poi il ventre magro di Federico, aveva
concluso la sua carriera, piantato
nell’humus morbido del bosco che si erano lasciati alle spalle.
«Però siamo vegetariani…»
La cameriera si rivolse
alla cucina, sbraitando al cuoco di venire in sala. Arrivò quasi subito, con un
paio di creme catalane sistemate dentro due terrine marroni, che quasi
scomparivano nelle sue mani enormi. Le posò senza garbo sul tavolo della coppia
di coniugi che borbottarono un grazie a bassa voce. Girò loro la schiena senza
troppe cerimonie e venne incontro pulendosi le mani sul grembiule. Oltre ai
pettorali, che sembravano pronti ad esplodere, aveva dei bicipiti esagerati e delle
cosce possenti. Diego pensò che avrebbe tenuto su tutto il Partenone con quelle
colonne.
«Se posso accontentarvi…»
Sara l’avrebbe ucciso. Se solo avesse avuto
un’arma avrebbe rispedito al creatore quella montagna umana. Consegna speciale
con supplemento di prezzo, dal centesimo chilo in poi. «Siamo vegetariani.
Tutti e due.» guardò l’amante in cerca di una conferma. La ebbe da un
sopracciglio sollevato. «Quindi sarebbe bello se potesse inventarsi qualcosa.
Che ne so? Un sugo con la gorgonzola o un condimento con aglio e peperoncino…»
«La prima che ha detto!»
Esclamò Diego, prima che il gigante si convincesse di mettere mano all'aglio.
Il cuoco e la cameriera
si consultarono con un’occhiata, e quest’ultima lasciò intendere che la
richiesta si poteva esaudire. Mise la mano sul tavolo facendolo scricchiolare e
si chinò leggermente. Battendosi le dita sul petto levò ogni dubbio sulla sua
buona volontà:
«Ci penso io…» Quindi
girò i tacchi in direzione della cucina. La coppia di coniugi, che intanto
aveva intaccato con i cucchiaini la crosta della crema catalana, sembrò
intimidita dalla scena a cui avevano appena assistito.
«Mi sembra Terminator…»
Commentò Sara.
«A me Mastro Lindo.» La
corresse lui.
Lei si mise gli occhiali
e guardò meglio il cuoco. Lo vide che tornava in cucina e, mentre lo faceva,
dispensava una pacca sul sedere della cameriera. «Mastro Lindo. Mi piace la
versione con i capelli a spazzola. Tra l’altro hai visto, se la intende con la
cameriera. Me li vedo in cucina. Lui che sparecchia con un solo colpo del
braccio, poi se la sbatte lì sul tavolo…»
«Lei è una bella ragazza…Lo
sarebbe, con mezz’ora di aerobica al giorno …»
«Ma non tutti hanno tempo
mezz’ora al giorno per giocare con l’hula hop… »
«…la cyclette, il
tappeto. Una bella corsetta nei boschi qui intorno…»
«Con i delinquenti che si
incontrano in giro?»
Lui si prese tempo
qualche istante per pensare. Un accenno di riso alterò per un secondo la
fisionomia delle sue labbra. «Già, hai ragione. E’ sempre meglio portarsi
dietro un’arma…» E si interruppe, perché in cucina un minipimer rumorosissimo
stava probabilmente amalgamando insieme gli ingredienti del loro sughetto.
Si accorsero che i due
uomini al tavolo li stavano guardando. Quello con il doppio mento aveva messo
in bocca il sigaro senza accenderlo e l’altro si stava preparando una sigaretta
a mano. Aveva sparso tabacco ovunque sulla tovaglia e sembrava non importargli
nulla del tovagliolo, che era caduto in terra ai suoi piedi. Lei lo guardò
male, lui fece finta di non averla vista.
I piatti arrivarono in
dieci minuti scarsi, con i pollici pericolosamente vicini al cibo e serviti insieme ad una caraffa di un rosso non meglio
definito. Vennero posati in tavola assieme ad una breve
descrizione:
«Penne saltate in padella
con gorgonzola e noci...» Disse il cuoco, attendendo invano un applauso.
Attaccarono le penne con ingordigia mentre la cameriera se ne andava verso il
banco bar.
«Per me è incinta…»
Il primo boccone rese lui
più malleabile. Lanciò uno sguardo con la coda dell’occhio limitandosi ad
annuire con la testa. Lei, rimescolando insieme la pasta alla ricerca di quelle
noci che avevano dichiarato esistere, osservò l’enorme cuoco in cucina, intento
a risistemare delle stoviglie di metallo dietro la porta aperta. La cameriera,
intanto, chiudeva le bottiglie vuote dentro un sacchetto di nylon.
«A quest’ora si saranno
rassegnati.»
«Primo, parli con la
bocca piena. Secondo, sarà meglio evitare l’argomento in pubblico.»
«Ma non capiranno niente
di quello che stiamo dicendo…»
«Non sono tutti fessi,
Diego.»
«Lo so, per quello che
parlo con la bocca piena.»
Lei guardò in direzione
del corridoio buio. Le era sembrato di avere percepito un movimento, un cigolio
per la precisione. Diede colpa alla fame e attaccò la pasta con voglia. La
prima forchettata si convertì immediatamente in energia nelle gambe.
«Mangiamo, ci scoliamo il
vino e ce ne andiamo a casa…»
«Ci accendiamo la stufa e
ci buttiamo sotto le coperte…»
«Dormiamo fino alle
dieci, anzi fino alle dieci e mezza. Quando ci tornerà la fame, ma solo
allora, ci alzeremo, faremo colazione e
vedremo cosa hanno capito gli sbirri.»
La macchina del caffè
partì assieme ad uno sbuffo. La coppia di coniugi aveva deciso di andarsene e
lei non aveva nemmeno finito di mangiare la crema catalana. Si avviarono verso
il banco per prendere il caffè in piedi. La moglie, vista l’ora, scelse di
rinunciare a favore di un amaro.
«Non avranno capito
niente. Tranquillo Diego.» Si tranquillizzò e fece onore al cuoco. Ormai
mancavano tre forchettate e avrebbe finito.
Rabboccò il bicchiere di
lei e poi il suo.
Anche il vino, a dire il
vero, aveva quel non so che.
4
«Io farei il bis.»
Sara lo riprese, conferendo
allo sguardo una certa severità. «Io invece me ne andrei…»
«Sono in maniche di
camicia» fece notare lui. «E la fuori non c’è una macchina che ci aspetta con
l’autista…»
«Hai bisogno di calorie. Va
bene, te lo concedo.» Arrendendosi, e notando che la signora al banco stava
sorseggiando il liquore con la lentezza che avrebbe usato un bambino e, di
tanto in tanto, si specchiava dietro alle bottiglie. Lui allargò un sorriso dei
suoi, caldo e rassicurante.
«Vado al banco ad
ordinarne un altro piatto, allora.»
Mise la mano sotto il
mento e lo guardò con i soliti occhioni da cerbiatta, quelli studiati per le
occasioni migliori. «Vai. Io prendo una panna cotta.»
«E se l’avranno finita?»
Piegò la testa di lato.«In
questo caso li ucciderò.»
«Come sul treno?»
«Ci puoi giurare amore!»
«Come quella sera in
discoteca?»
Si illuminò. «Farò meglio
ancora, amore.»
Sorridendo la indicò con
un dito e strizzò l’occhio. «Come quella volta col cliente?»
«Ti amo. Adesso però vai
ad ordinare.»
Lo vide andare verso il
bancone.
Per educazione si fermò un passo prima dei coniugi. Lui chino sulla tazzina. Sembrava stesse leggendo il suo destino nel fondo di caffè. Lei era arrivata a malapena alla metà del bicchierino. Sembrava fossero finiti in quel posto a causa di un ragazzino dispettoso, che si era divertito a invertire i cartelli stradali e a svitare quelli turistici per fissarli in qualche posto a caso. Scusandosi lo fecero passare. Ringraziò e si mise in attesa, con i gomiti sul piano di acciaio inox accanto all’asciugamano in spugna.
Per educazione si fermò un passo prima dei coniugi. Lui chino sulla tazzina. Sembrava stesse leggendo il suo destino nel fondo di caffè. Lei era arrivata a malapena alla metà del bicchierino. Sembrava fossero finiti in quel posto a causa di un ragazzino dispettoso, che si era divertito a invertire i cartelli stradali e a svitare quelli turistici per fissarli in qualche posto a caso. Scusandosi lo fecero passare. Ringraziò e si mise in attesa, con i gomiti sul piano di acciaio inox accanto all’asciugamano in spugna.
Sara si rabbuiò.
Lo fece come se mille
voci isteriche avessero urlato nella sua testa contemporaneamente, come se
centinaia di ragni pelosi avessero preso a camminarle addosso, come se una
valanga di escrementi puzzolenti avesse cominciato a rotolarle incontro. Cambiò
espressione come se un maniaco sessuale le avesse aperto l’impermeabile lercio
sotto gli occhi o come se una motoretta l’avesse sorpassata per soffiarle
l’ultimo parcheggio sotto il naso. Avvertì un misto di rabbia e paura, tanta da
rimanere pressoché paralizzata.
Dal corridoio buio il
cigolio si fece più forte ed insistente.
Dapprima comparve il
bianco di una lunga veste, poi il luccichio incerto di un tubo d’acciaio.
Non poteva credere a
quello che stava vedendo, e non ci avrebbe creduto.
Federico, pallido come un
cadavere e avvolto dentro ad una mantellina in carta dell’ospedale, stava
avanzando scalzo in direzione della sala, trascinandosi appresso il cigolante
supporto a ruote di una flebo. Aveva una macchia rossa all’altezza della
ferita, dove il tessuto si era appiccicato alla pelle, mettendo in evidenza una
serie di punti dati alla meno peggio. Intorno agli occhi spenti due enormi
anelli scuri, intorno alla bocca delle incrostazioni di saliva e nel braccio un livido violaceo, che
individuava la posizione dell’ago al termine di un tubicino pieno di liquido
trasparente.
Non poteva credere a quello
che stava vedendo, e non ci avrebbe creduto.
Non se non avesse sentito
arrivare alle sue narici quel tanfo di sigaro e sigaretta, sapendo che, gli unici a potersi permettere di
fumare in un locale pubblico, potevano essere solo degli sbirri.
5
Diego, dal suo punto di
osservazione, non poteva capire.
Vide solo la sua donna
avvicinare la mano al coltello appoggiato accanto al piatto. Negli occhi
l’intenzione di uccidere e i denti stretti insieme, come se volesse tenere quel
sé quell’ultima boccata d’aria, quella respirata quando ancora era felice.
L’uomo seduto nel tavolo
accanto si chinò per raccogliere il tovagliolo, come se improvvisamente tenesse
all’ordine e alla buona educazione. Con le labbra spostò la sigaretta, in modo
che la sua punta accesa non incocciasse il bordo del tavolo. Sollevò la
tovaglia e apparve l’impugnatura di una pistola, incollata con qualche
accorgimento sotto la superficie del legno.
Dal corridoio buio
Federico pronunciò delle parole mute, strozzate da una debolezza che aveva
piegato le sue ginocchia. Sara non senti nulla, ma seppe leggere i labiali.
Insieme alla mano libera
dalla flebo, che faticosamente si alzava per indicarla, il messaggio che arrivò
all’uomo rimasto a tavola fu chiarissimo:
E’ LEI !
Diego era un assassino, e
quando un assassino è nei paraggi di un’arma lo sente. L’annusa come un segugio
con la sua preda, ne percepisce le vibrazioni metalliche e l’afrore di morte
che sospira lieve dalla sua canna fredda.
Con un colpo improvviso
sollevò l’asciugamano di spugna lasciato dalla cameriera sul bancone e trovò sotto
quello che sapeva. Era una 9
millimetri della Walther, pensata dai tedeschi per
essere mortalmente efficace e paurosamente precisa. La prese in mano prima che
la cameriera, anzi, la poliziotta con indosso quel patetico grembiule a fiori,
potesse fare qualcosa per impedirglielo.
Lo fece in fretta, ma non
abbastanza.
Non abbastanza da
impedire allo sbirro di staccare la sua arma da sotto il tavolo e di mirare.
La signora sposata non si
accorse di nulla, concentrata nel finire il suo liquore che bruciava giù per la
gola come il fuoco. Il proiettile che la raggiunse nello stomaco le fece andare
in fiamme tutto il ventre ed immediatamente un sipario nero calò davanti ai
suoi occhi. Negli occhi dello sbirro, invece,
la delusione per avere centrato il bersaglio sbagliato fu forte, ma durò
per lo spazio di un respiro, fino a che il coltello di Sara andò a spaccare in
due il suo cuore.
Il secondo agente aveva
una rivoltella in tasca, piccola ma carica. Si mise a sparare all’impazzata in
direzione del banco, ma ottenne solo di generare una cascata di liquori
dall’espositore: un fiotto arancione di Aperol, uno spruzzo amaro di Fernet e
una colata acida e forte di una grappa del posto. Quando colpì la bombola della
birra alla spina, un’eruzione di schiuma bianca invase tutto il bancone,
imbrattando la cameriera.
Sara era disperata.
Raccolse la pistola nella mano contratta del poliziotto che lei stessa aveva
ucciso e sparò in direzione della cameriera, colpendola due volte nel centro
del petto. La donna balzò all’indietro e andò a distruggere quello che la
pioggia di piombo aveva risparmiato.
L’uomo, anzi il vedovo,
si rannicchiò ai piedi del portaombrelli per difendersi, ma venne colpito. Un
proiettile sparato dal poliziotto rimbalzò contro la superficie convessa della
macchina per il caffè, e andò ad infilarsi nella tesa del cappello che aveva
appena indossato. Sembrò rilassarsi, chinò piano la testa e, dopo poco, un
rivolo di sangue scese lento, dalla fronte in direzione del naso.
Dalla cucina arrivò una
pioggia di proiettili.
Arrivò assieme ad un
grido, che prese a riecheggiare fra le pareti della locanda.
Il cuoco, o almeno quell’agente
che lo impersonava, imbracciò un mitragliatore e si mise a sparare senza
nemmeno prendere la mira. Caddero i piatti dalla credenza, piovendo come
grandine in migliaia di pezzi, caddero le schegge dei bicchieri da collezione:
Oransoda, Coca Cola, Chinotto San Pellegrino. I vecchi calici della Cinzano si
polverizzarono sotto una scarica, assieme a quelli della cedrata Tassoni e ad
una serie infinita di bicchieri della birra. Rimase in piedi il solo calice del
Bosforo Gin, extra dry ed il suo gemello, Elixir China Martini e Rossi. La
chitarra implose, e la tensione delle
corde la fece saltare su se stessa producendo
un unico indecifrabile accordo.
In terra, nel locale, il
secondo poliziotto era morto, abbattuto dal suo collega in preda al delirio da
mitra. Quando il cuoco se ne accorse attraversò il locale strisciando i piedi su
un lago di sangue, constatò il disastro e non disse nulla.
Si sedette con l’arma
stretta in mezzo alle gambe, la puntò sotto il collo e fece fuoco con un colpo
singolo.
6
Diego nuotò nelle acque
quel mare caldo e dolciastro.
Lo fece sotto una nuvola
di fumo, resa rossa dalle particelle di
sangue rimaste in sospensione nell’aria.
Lo fece in direzione
della sua donna e gli parve che ci fosse voluta un’eternità.
Un dolore forte gli stava
rendendo difficile ogni movimento e,
voltandosi, si era accorto di avere disegnato a sua volta una lunga scia.
Quando arrivò si lasciò andare in terra, come un naufrago appena arrivato sulla
sua isola deserta. Sara dormiva, o almeno così lui si illuse che fosse. Aveva
le palpebre abbassate, la mani rivolte all’insù e appoggiate sulle gambe e il
coltello con il quale aveva ucciso l’agente ancora in mano. Quello che non gli
piacque, fu di constatare che i fori nella sua pelle erano due, entrambi umidi di sangue.
«Te l’avevo detto che
dovevamo andare via.» Disse lei, aprendo gli occhi e con un flebile filo di
voce.
Lui rise, confidando
anche un quell’occasione nel suo inguaribile ottimismo. «E adesso ce ne
andiamo» sospirò. «Al mio tre…Uno, due…»
Alla fine del conteggio
tentò di alzarsi spingendo con le braccia, ma crollò rovinosamente in terra.
«Merda, che figura,
commentò.»
Lei lo consolò. Con la
mano libera dal coltello lo invitò a girarsi e ad assistere allo spettacolo
macabro di Federico, appoggiato contro lo stipite della porta, la testa rivolta
verso il soffitto e gli occhi girati all’insù. Era morto all’ombra del supporto
per la flebo, di dolore e di stanchezza. In compagnia del cuoco, enorme e con il cranio scoperchiato, dipingeva un
quadretto piuttosto pulp.
«Poteva starsene
all’ospedale, tranquillo e al caldo. Invece guarda, ha voluto collaborare con
gli sbirri per vendicarsi.»
«Beh, aveva le sue buone
ragioni. Che dici amore?»
«Dico che dobbiamo
andarcene prima che ne arrivino altri…»
«Uno, due…»
Gli mise la mano sulla
spalla. «No, non contare, alzati!»
Lei lo fece, o meglio,
guadagnò la sedia. Da quella prospettiva sembrava che nella locanda fosse
esplosa una bomba. La birra, peraltro, continuava a uscire dalla bombola con un
sibilo. Notò anche l’acquario, con il piranha che si muoveva con dei singulti
dentro un liquido rosso e denso. Il pesce passò accanto al vetro e lei vide che
un proiettile gli aveva tranciato di netto la coda. Per sua fortuna era
penetrato nella parte alta della vasca e quindi c’era ancora acqua.
«Bastardi!» Esclamò.
«Già, siamo proprio dei
bastardi, vero?»
La poliziotta con il
grembiule a fiori non era in sovrappeso, né aveva bisogno di un personal
trainer. Non era incinta e anzi, era piuttosto ben proporzionata e con il
ventre piatto da fare invidia.
Aveva levato il giubbotto
antiproiettile, quello che l’aveva salvata dal doppio centro che Sara aveva
messo a punteggio solo qualche secondo prima. Con i capelli appiccicati alla
fronte dal cocktail di liquori che l’aveva annaffiata, li stava guardando
dall’alto in basso, ben ferma sulle gambe e con una pistola fra le mani, una di
quelle che non aveva partecipato al bagno di sangue. Scavalcò il cadavere del
collega accoltellato e guardò il cuoco morto, che si era suicidato anche per il
dispiacere di averla persa.
«Avete rovinato il nostro
sogno d’amore. Lui mi voleva bene e mi avrebbe sposata in primavera…»
Sara la guardò attraverso
un velo di nebbia. Porse la mano a Diego e lo aiutò a salire sulla sedia.
Dovevano bruciare più dei suoi quei proiettili in corpo. Lo capiva dalla smorfia di dolore che non era
riuscito a camuffare.
«Chi, lui, quello
scimmione? Sembrava un matto quando si è messo a sparare a cazzo» fece con la
mano il gesto di cancellare. «Forse è meglio così, davvero. Certi uomini
sembrano tutti gentili, poi te li porti a casa e diventano dei bastardi…»
La poliziotta tremò, e
per un attimo perse in controllo della situazione. La pistola andò a puntare
dei luoghi non meglio precisati sulle pareti, e due grosse lacrime le rigarono
il volto lavando via un alone di Jagermeister. Sacrificò il suo bel viso in una
smorfia informe e alzò la voce.
«Era buono, era buono
come il pane! Se la cavava bene anche in cucina. Vero?»
Lei annuì, lui sollevò il
pollice per confermare.
«E quindi, puttana, per
colpa tua non mi posso più sposare!»
Sara ricacciò indietro
una serie di fitte di dolore, venute tutte insieme come i vagoni di un treno.
Guardò la poliziotta e guardò Diego. Lui fece cenno di no con la testa, ma fu del
tutto inutile.
«Sai che ti dico stronza?
Io sono contraria al matrimonio…»
Dalla canna della pistola
si materializzò un primo lampo e poi un secondo.
Immediatamente calò il
buio e i due su trovarono insieme, a percorrere una strada in direzione della
luce.
7
Bum…bum…bum…
Ora le pulsazioni
sembravano essersi regolarizzate.
Lui le lasciò il polso. Lo
aveva tenuto stretto e auscultato per tutto il tempo necessario a lasciare che
i ricordi di quell’incubo si dissolvessero nel freddo del bosco. Dalla locanda
il solito tramestio di stoviglie ed un insieme di voci che filtravano confuse
dai muri. Fra gli alberi una nebbia morbida, che si era infilata decapitandone
le cime.
«Te la senti, adesso?»
Lei si mise in piedi,
spolverandosi i pantaloni dai frammenti di foglie e terra. Nei capelli si era
impigliato un rametto e delle gocce di resina le erano colate sulla spalla.
«Andiamocene!» Ordinò, e
facendolo mosse i primi passi in direzione del buio. Lui la seguì senza
discutere.
Camminarono a lungo, e lo
fecero nel silenzio più assoluto. La scena, per un’ora e oltre, fu lasciata
alle sole creature della notte, che tacevano soltanto al momento del loro
passaggio.
«Passata la fame?»
Accelerò il passo, ed il
suo soprabito nero andò a confondersi nelle tenebre. Dopo poco arrivò la
risposta:
«Dopo quel sogno, secondo
te avrei fame?»
Con le donne non si
discute. Non quando hanno la luna storta, l’impronta di una corteccia d’albero
stampata sulla schiena e magari, come diceva Paolo Conte, hanno voglia di fare
la pipì. Questo pensò lui, rimandando ad un momento migliore il seguito della
conversazione.
Da lontano, trasportati
da un refolo d'aria, arrivarono i rumori di una strada.
Dopo dieci minuti,
passati a calpestare foglie insidiose e sassi bagnati, conquistarono il bordo della statale
24 (diceva così il cartello) e, la pietra miliare che emergeva a stento da un
ciuffo d’erba impolverato, parlava di 53 chilometri dal capoluogo.
Più avanti una luce, né
calda né fredda, né debole né forte. Qualunque cosa fosse stata, aveva in quel
momento i requisiti per attirarli come fossero falene.
«E niente, non dovrebbe
tardare.» Dichiarò lei dopo avere consultato l’orario dei pullman, appiccicato
con lo sputo su quella palina fuori
piombo. Si mise seduta sulla panchina malferma al riparo della pensilina e
attese, mani in grembo e muso lungo. Talvolta la pazienza che è chiesta agli
uomini rasenta la santità.
«Quindi cosa avresti
sognato di così terribile?»
Consultò l’orologio.
Sembrava che le lancette si fossero incollate al quadrante. «Un brutto sogno. Una cosa senza senso,
confusa e strana come tutti i brutti sogni...»
Lui contò fino a dieci,
anche se non gli sembrò sufficiente. «Ok! Ma poi i panzerotti li potevamo
mangiare, già che c’eravamo...» In lontananza la sagoma di una grossa corriera
blu si stagliò, illuminata ad intermittenza di una fila di lampioni. Non
rallentò, e passò facendo vibrare il telaio della pensilina.
«C’erano degli sbirri in
quel locale!»
«Degli sbirri? E come
diavolo potevi sapere se in quella trattoria c’erano degli sbirri?»
Tre auto in rapida
successione passarono nella corsia opposta. L’uomo al volante di quell’ultima
li guardò, come se fossero delle apparizioni.
«Senza di me saresti
finito! L’uomo con dieci ergastoli, il Papillon delle nostri parti. Saresti
così in galera che avrebbero riaperto Alcatraz per l’occasione e magari
avrebbero pure ricostruito la Bastiglia, ma con le serrature elettriche e la
videosorveglianza!»
Lei si stava
innervosendo. Lui preferì non insistere e tacque. Si mise a contare i passaggi.
Alla cifra tonda di cento auto riprese il discorso. «Sarà forse mica…»
«Per quella…»
«…per quella Bravo nera
parcheggiata a cazzo di cane davanti alla porta?»
Lei fece cenno col
pollice. «Yes!»
Si diede uno schiaffo
alla coscia.«Come ho fatto a non
pensarci! Non poteva essere diversamente…Solo gli sbirri possono parcheggiare
in quel modo!» Esclamò, e l’ultima parte della frase venne pronunciata
all’unisono.
«Vedi che sono geniale!»
Soffiò. «Urca! Mi sa che
hai ragione e ci deve essere proprio andata bene!»
«Nel sogno mica tanto.
Anzi, direi che nel sogno ci è proprio andata di merda…Il pullman è in ritardo!»
«Di quanto, cara?»
Guardò l’orologio al
polso. «Un quarto d’ora, anzi, diciotto minuti…»
Sporse la testa verso la
strada.
Solo fari piccoli e
vicini, rumore di gomme sull’asfalto e semafori che lampeggiavano. Alla rotonda un carnevale di luci ed un serpentone di veicoli che
si arrampicava sul cavalcavia nuovo di zecca. Su di una cima in lontananza una
fonte di giallo si alternava alle nuvole in corsa e dalle montagne arrivava la
promessa di un venticello.
Non faceva poi così
freddo. Nulla che somigliasse a quegli autunni di una volta, quando ad hallowen
si tirava fuori il cappotto, si usciva in paese a calpestare la prima neve e poi tutti a casa a farsi le caldarroste.
Erano vivi, dopotutto, nessuno
aveva saputo di loro e l'intenzione era quella di cadere nell'oblio, definitivamente .
Solo quella corriera.
Quella maledetta corriera non voleva proprio arrivare.
Tutti i diritti riservati ©
Quella maledetta corriera non voleva proprio arrivare.
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