Lo scrittore è un tipo strano, o almeno così lo si dipinge.
Spesso abbinato a vecchie case fuori mano, soffitte polverose e occhiali (indispensabile presidio affinché l'esercizio delle sue funzioni possa essere celebrato), viene visto dal cinema e dalla letteratura come un soggetto alla continua ricerca di un'ispirazione sfuggente o impuntato su quella parola così elegante che rimane ferma per ore, dispettosa sulla punta della lingua o a cavallo fra un neurone e quell'altro, ma senza mai trasferirsi ai polpastrelli.
Lo scrittore, specie quello alla ricerca del successo che non arriva mai, ha sempre lo scheletro nell'armadio, qualche vizio inconfessabile che la vicina di casa pettegola sospetta già, e la mania di mettere in crisi amici e parenti, sempre incapaci di scegliere il momento adatto per fargli visita.
Questo è lo scrittore negli stereotipi, e la sua figura è dura a morire.
Certo, il mondo senza jack Torrance non sarebbe stato lo stesso, e quanti registi e sceneggiatori non avrebbero trovato lo spunto per il primo ciak se non avessero avuto uno scrittore da mettere dietro alla scrivania insieme ad una scricchiolante Lettera 32 , prima ancora che dietro alla telecamera.
Ma io ero sicuro che si potesse tratteggiare uno scrittore un po' diverso. L'ho fatto! Ha vissuto e vive (perché ricordiamoci, i personaggi dei libri hanno la facoltà di resuscitare ogniqualvolta che qualcuno sfoglia la prima pagina o agisce sull'interruttore del suo e-book). L'ho chiamato Luca Delfi, ed è un amico del quale faccio fatica a rinunciare. Vive, dorme, soffre. Fa l'amore si arrabbia e ha paura, una paura fottuta! E' lì, incastrato per sempre fra le righe del mio terzo libro: Interno 1.
Non so voi, ma io quasi quasi lo vado a trovare...
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