La radio non fa altro che
gracchiare.
Emette suoni
incomprensibili e un fruscio di fondo che ha sostituito gradualmente
quegli inviti alla calma e quei piccoli suggerimenti per sopravvivere
che all’inizio si erano rivelati utili. Da mesi, ormai, consuma le
batterie dando voce a quello stormo di mosche che sembra abitare
dentro di lei.
Credo che sia passato un anno da
allora, o forse più.
Ho smesso di tenere il conto dei
giorni da un bel po’.
Per farlo, allineavo nel
corridoio centrale delle scatole di dentifricio. Simulavo le tacche
che i detenuti fanno sul muro della cella, almeno nelle centinaia di
film sulle carceri che mi è capitato di vedere. Mi sono fermata alla
trecentoundicesima confezione, un massima protezione che promette
gengive sanissime e alito a prova di bacio. Girandola sul retro, garantisce anche di fare a pezzi la placca come se la prendesse a
picconate.
Il giorno seguente ho smesso di
allineare le scatole. Punto.
Ero rimasta a dormire nel
cantuccio caldo (la mia scatola) che avevo avuto modo di creare nel
magazzino della mobilia. Armadio con il cambio d’abito e
biancheria, cassettiera versione arte povera e comodino
impiallacciato ciliegio. Abat jour con luce led multicolore e sveglia
con suoneria dolce di ispirazione naturale. Per i primi giorni avevo
scelto il canto di una capinera all’alba, o così almeno dicevano
le istruzioni in ventiquattro lingue, thai compreso. Doga in legno,
materasso in lattice e materasso a molle. Ho scelto quest’ultimo
sostituendo quello in lattice che avevo messo su per primo. Mi
ricordava quello che avevo a casa mia, comodo quanto bastava per
allontanare gli incubi e collaudato più volte assieme a
Michelangelo.
Che forza quell’uomo!
Portava il nome di un grande
scultore perché era bello come una statua. Aveva il fisico dello
Schiavo morente, il portamento del David e lo sguardo da duro del
Mosè, con quel volto di pietra incorniciato da una barba perfetta
che lo faceva somigliare ad un dio greco.
Michelangelo aveva un sorriso
che ti incantava, la pazienza di un santo e la fermezza di un leader.
Non metteva mai una parola al posto sbagliato, sapeva scrivere,
cantare e suonare la chitarra. Odorava di buono e dormiva come un
sasso per sette ore e mezzo a notte. Quando si alzava dal letto non
lo sentivi e capivi che il giorno era nato dal profumo del caffè
caldo che attraversava la casa, fino a venire a bussare alla porta
della camera. Aveva un lavoro che gli piaceva e non si lamentava mai.
Correva, sollevava pesi come fossero fuscelli e piaceva ai bambini.
Michelangelo era così bello che
le donne me lo volevano portare via, ma lui non le degnava nemmeno di
uno sguardo. Michelangelo faceva la doccia tutte le mattine e non
lasciava mai una cosa fuori posto.
Michelangelo leggeva, guardava i
film d’autore e si interessava di politica.
Michelangelo sapeva fare
cigolare le molle del letto.
Tutto questo sapeva fare, ma
smise.
Si vide costretto a farlo nel
giorno che fu incenerito dalla bomba.
Erano le undici del mattino di
una bella giornata estiva e da due mesi mi stavo occupando del
magazzino.
L’incarico di magazziniere
all’ipermercato non era ambito.
La struttura, un capannone di
dubbia bellezza che era spuntato come un fungo nella periferia della
città, aveva dovuto sviluppare i suoi tentacoli verso l’alto, dove
avevano trovato posto i reparti di abbigliamento, arredo e bricolage,
e verso il basso, con la costruzione di un parcheggio sotterraneo da
duecento posti e del magazzino ancora più giù, due piani
sottoterra.
I progettisti non avevano avuto
scelta.
Nato su di un’area dismessa e
non particolarmente estesa, l’ipermercato non aveva potuto sfogare
in orizzontale tutte le sue propaggini. Un severo muro in mattoni
rossi, testimone dell’archeologia industriale che faceva sembrare
quella parte di città ad un museo dei ricordi, circondava la zona e
si affacciava sulle strade che cingevano tutto il perimetro.
Allora avevano scavato e
ingozzato tutta la terra di cemento. Sul lato est era stato ricavato
un grosso vano per il montacarichi, attraverso il quale le merci,
scaricate nel cortile, scendevano per essere stivate e salivano
quando il capo reparto decideva di rimpinguare gli scaffali.
Quel giorno, un TIR aveva
scaricato un paio di centinaia di scatoloni di cibo per gatti sul
retro. Ugo, l’addetto al muletto, aveva imbarcato sul montacarichi
i colli, che io facevo scendere di due piani e poi li movimentavo
con il mio carrello elettrico, li portavo agli scaffali, svuotavo i
cartoni e poi rispedivo alla luce del giorno gli involucri vuoti. Con
l’ultimo giro di ascensore salii anch’io, abbandonando il girone
dei dannati per i dieci minuti che la pausa sindacale mi concedeva.
Ugo era simpatico, non negava
mai una sigaretta e aveva sempre aneddoti da raccontare.
Non ci provava con me,
manifestava una timidezza sottopelle alla quale sopperiva con un
buonumore talvolta eccessivo e con un repertorio di battute che
parevano studiate a tavolino la sera prima.
Quel giorno, quando mi vide
sbucare dal sottosuolo con gli occhi stretti a fessura per sopportare
la luce del sole, mi accolse con un sorriso e una Chesterfield
elegantemente sfilata dal pacchetto, tentatrice come il diavolo in
persona. La presi e la misi in bocca senza neanche ringraziare.
Appoggiata al muro, con il braccio dietro la schiena e la gamba
ripiegata contro la parete, attesi che Ugo azionasse lo zippo e poi
tirai con soddisfazione la prima boccata. Il cielo era così limpido
che ci si poteva perdere come in un sogno e dalla strada sembrava non
provenire alcun rumore. Il TIR, che aveva appena scaricato la sua
consegna, fece una manovra da applausi per invertire la marcia e
guadagnarsi di prepotenza il suo posto nel traffico. Ugo fini di
trascinare l’ultima delle scatole vuote contro il perimetro, nel
posto esatto in cui lo smaltimento rifiuti si aspettava di trovarle,
poi mi venne incontro che la Chesterfield era già a metà.
«Dai, che domani e sabato!»
Già, l’aspetto positivo di
lavorare al magazzino era quello che al sabato si stava solo mezza
giornata.
Non avrei voluto buttarla sul
tempo, ma alla fine lo feci. «Se rimane così caldo e stabile, io e
Michi ce ne andiamo in montagna. Vogliamo tornare giù con una
tintarella che levati!»
«Me lo devi fare conoscere…»
«Chi?»
«Il tuo fidanzato, Michi.»
«Ma dai Ugo, è talmente figo
che ti metterebbe in imbarazzo, tu con quel pancione da birra!» Gli
diedi un colpo sul ventre che suonò come una grancassa. Lo prendevo
sempre in giro e la cosa sembrava divertirlo.
«Lo sfido a braccio di ferro.»
Si carezzò il grosso bicipite, un po’ flaccido per la verità. «Lo
mando a casa in lacrime e con una sculacciata, il tuo Michi…»
«Non sono quelli i muscoli che
contano in un uomo, dovresti saperlo alla tua età…»
Si atteggiò a duro di
Hollywood, mi sbuffò in faccia il fumo e fece un’espressione che
nelle sue intenzioni doveva essere cattiva. «Attenzione a come
parli, collega! Io qua sotto ho un muscolo che tutto il mondo
invidia…»
Risi. «Può darsi. Non insisto,
non lo voglio vedere…»
«Hai presente l’obelisco,
quello nel bel centro della rotonda?»
Indicai un punto a caso verso
nord. «Quello…là?»
«Esatto, collega, solo per
farti un’idea…»
«Wow!»
«E’ quello che dicono tutte,
wow…»
Mentre mi sforzavo di ricordare
se l’obelisco della rotonda finisse a punta, a tronco di cono o con
una semisfera, vidi uno dei principali azionisti dell’ipermercato.
Aveva appena varcato il cancello con la sua Porsche Cayenne, con più
pelle nelle sellerie che in una mandria di montoni. Non so come, ma
mi venne in mente che l’obelisco aveva in cima uno spunzone, tipo
quello dei soldati austro-ungarici della prima guerra mondiale. La
cosa mi fece ridere.
«Stai ridendo in faccia al
capo? Non so se sia una buona idea ai tempi del job act, collega!»
«No Ugo, tranquillo. Stavo
pensando al tuo obelisco…»
«Stronza!»
«Ma dai, scherzavo!»
Mi mise nuovamente il pacchetto
sotto il naso. «Sigaretta?»
«Un’altra? No davvero, Ugo…mi
vorrai mica uccidere?» Non rispose, si cacciò la bionda in bocca e
guardò preoccupato le evoluzioni del Cayenne. Il SUV parcheggiò
sotto l’unica pianta di tutto il complesso: un privilegio riservato
ai padroni.
«Ok, Ugo. Vado sotto a mettere
a registro l’ultima consegna.»
«Quella dei croccantini.»
«Già, e tieni a bada il tuo
obelisco, che fra poco arriva il furgone con l’intimo femminile.
Tante piccole scatole per la gioia di mamma e papà.»
«Specialmente dei papà!»
«Levati!» Ordinai, con un fare
imperativo. Ugo ci rimase veramente di sasso. Lo spinsi via con una
tale determinazione che i suo cento chili mi sembrarono nulla.
«Si può sapere che ti prende?»
«Guarda là…»
Si girò e non vide nulla. «Hai
le allucinazioni, collega?»
«Ma no, là. Dietro il paraurti
della Porsche…»
Ugo tiro fuori il suo aspetto
femminile. «Tre mi-ci-ni te-ne-rissi - mi!»
«Quattro.»
«Quattro!» Indicò uno
scricciolo in color ruggine che si aggirava intorno all’aiuola, tutto orecchie e con
la coda dritta, fino a che un suo fratellino, grigio cenere con
qualche striatura più scura, lo colse di sorpresa facendogli lo
sgambetto. Gli altri due, non più grossi di un paio di palle da
tennis ed entrambi di un colore arancione tendente al biondo,
sembravano avere ingaggiato una contesa di importanza vitale per il
futuro della nazione.
«E chi ce gli avrà portati?»
Pensai ad un paio di ipotesi.
«Qualche stronzo che gli ha abbandonati» risposi. «Ugo, vai tu a
prenderli prima che qualche camion li schiacci!»
Fece due passi e venne colto dal
dubbio. «E poi che ci facciamo? »
«Che ne so! Levali di lì,
presto!» Mentre il muso di un MAN con rimorchio si era appena
affacciato al cancello. Sembrava un mostro stermina gatti, mandato da
un altro pianeta per non lasciare nessun felino in vita sulla faccia
della terra. Con tutte quelle ruote avrebbe fatto una strage.
«Vai, che cosa aspetti!»
Ugo obbedì e, prima che il TIR
si fosse messo a rombare nel cortile facendo tremare tutto, i micini
erano in salvo, due per ogni braccio.
Mi venne incontro di corsa e fu
intercettato da un’occhiata velenosa del capo. Aveva smesso di
parlare con una dell’amministrazione; minigonna vertiginosa,
occhiali palesemente finti e meches rosse che dovevano esserle
costate tutti gli straordinari.
Il capo non aveva visto i gatti
ma, mosso da un istinto omicida (qualcosa che doveva appartenere alla
sola categoria dei dirigenti/azionisti/figli di gran troia), venne
incontro a me, mentre Ugo, con le braccia tutte graffiate, mi porgeva
sedici, pericolosissime zampe taglienti.
«Che intenzioni hai?»
«Li porto sotto con me, per
oggi. Poi stasera troverò una sistemazione. Tu che hai le spalle
larghe coprimi, distrai il capo e lascia che il montacarichi scenda.
Ok?»
«Perché dovrei distrarre il
capo?»
«Inventati qualcosa. Lamentati
del muletto che ha le gomme sgonfie.»
«Ma non ha le gomme sgonfie!»
Il capo stava arrivando.
Avanzava come un pistolero sotto il sole infuocato della tarda
mattina. Mi girai, strinsi i micetti al seno e scappai trotterellando
in direzione dell’ascensore. Premetti il tasto -2 e attesi la
chiusura delle porte.
L’impianto verificò il peso e
dopo qualche secondo cominciò a fare scorrere le porte in chiusura. Per la sua dimensione e a causa
della lentezza degli ingranaggi, la chiusura avvenne molto
lentamente.
Ero al centro esatto della
cabina e contavo sul fatto che il capo non mi potesse vedere,
inondato da quella luce che lo faceva assomigliare a un miraggio. Nei
lunghi secondi che le porte impiegarono per sigillarsi l’una con
l’altra, vidi Ugo avvicinarsi al capo porgendo la mano e lui fare
altrettanto. Vidi anche che aveva un paio di graffi che saltavano
all’occhio come il rossetto sulla bocca di un uomo e vidi la
Porsche, placida all’ombra dell’unico albero.
Improvvisamente l’orizzonte si
riempì di un lampo apocalittico, che non mi accecò solo perché in
quel momento avevo la testa china a contemplare gli occhi azzurri
delle creature. Fu come il flash di una macchina fotografica, ma
moltiplicato per dieci milioni. La cabina si illuminò che vidi ogni
singola vite, la logora membrana che rivestiva il pavimento con le
sue numerose rughe e fenditure, le cuciture dei jeans, i lacci
consunti delle mie scarpe e forse gli acari che li abitavano. Vidi lo
sporco che si era insinuato negli interstizi e la mappa che il
telaio descriveva sotto il piano di appoggio. La luce che inondò
tutto si restrinse assieme alle porte che si chiudevano e poi si
spense quando i battenti erano ancora aperti su quello che rimaneva
del mondo. Fuori c’erano Ugo, la segretaria con le meches, il
dirigente azionista, la Porsche e il TIR con tutte quelle ruote. Nel
volgere di un secondo o forse meno, furono circondati dalle fiamme
assieme all’unico albero e al mucchio di scatoloni vuoti, che
divampò come la testa di un fiammifero.
La bordata di aria rovente
arrivò dopo poco assieme ad un rumore infernale. La minima parte di
essa, quella che era riuscita ad infilarsi nei pochi centimetri
superstiti dell’apertura, entrò come un proiettile e per poco non
mi decapitò. Sopravvissi perché l’ascensore stava già scendendo
e perché era robusto quanto bastava per sopportare enormi
sollecitazioni. Passai attraverso il parcheggio sotterraneo ed
intravidi delle fiamme invadere il locale con la velocità di un
uragano. Le auto saltavano in aria come petardi e delle lingue di
fuoco stavano coinvolgendo i pilastri in un abbraccio mortale.
Scesi ancora.
A un metro da fine corsa i cavi
che sorreggevano la cabina cedettero, e quest’ultima fece la parte
residua del percorso precipitando. Si assestò sui molloni di arresto
che sembravo finita in una centrifuga, con quattro felini impazziti
che roteavano camminando sulle pareti come ragni. Per l’automatismo
di molti anni le porte si aprirono per l’ultima volta, i gatti
presero a correre alla ricerca di un riparo ed io trovai la lucidità
di uscire un attimo prima che le porte si chiudessero, questa volta
per sempre.
Faceva un caldo d’inferno nel
magazzino.
L’incendio al piano sopra
aveva arroventato la soletta e molti dei tubi elettrici assicurati al
soffitto si stavano sciogliendo. Il fumo cominciò a insinuarsi
nelle fenditure e le sirene dell’impianto antincendio, ormai
alimentato dal gruppo elettrogeno che era partito spontaneamente
assieme all’impianto per il ricircolo dell’aria, cominciarono a
ululare assieme a una pioggia di acqua.
Durò tutto pochi minuti, fino a
quando l’intera struttura del supermercato collassò in un
frastuono tremante, precipitando sulle auto in fiamme e seppellendo per sempre
quel posto.
Di colpo il fumo cessò di
filtrare, il soffitto cominciò a raffreddare e tre piani di macerie sulla mia testa si prestarono a difendermi dalle radiazioni.
Corsi per i corridoi rischiando
di ammazzarmi.
Lo feci gridando come una pazza
e schivando gli scatoloni che precipitavano dagli scaffali
disintegrandosi sul pavimento. Mi fermai, controllata da un residuo
di buon senso, quando vidi un’intera fornitura di acido muriatico
che si era schiacciata al suolo facendo aprire una decina di flaconi.
Ora il liquido stava scorrendo in direzione degli utensili da
meccanico lasciando un fumo acre e irrespirabile nell’aria. In
alto, le scatole con le scarpiere da montare, pendevano
minacciosamente verso lo scaffale dirimpetto, pieno fino al soffitto
di accessori per il bagno. Se le scarpiere fossero cadute, pensai,
avrebbero potuto innescare un effetto domino capace di distruggere
l’enorme magazzino.
Il buio era durato lo spazio di
un attimo.
Arrivò come portato
dall’esplosione e venne subito affrontato dalla debole luce delle
lampade di emergenza e poi dall’intervento del gruppo elettrogeno,
che si era acceso automaticamente e aveva scelto la metà delle
lampadine da alimentare. Ora tutto il magazzino sembrava una miniera,
con polvere, odori aggressivi e cigolii sinistri di provenienza
misteriosa.
Ma c’era l’aria.
L’ambiente era dotato di un
impianto di ricircolo. Era stato realizzato durante la costruzione
dell’ipermercato, assunto come obbligo inderogabile per avere le
autorizzazioni contro la volontà dei padroni che ne avrebbero fatto
volentieri a meno. Il magazzino non aveva finestre e l’aria che
poteva essere prelevata dall’esterno era stata considerata
insufficiente dai tecnici sanitari.
Questo voleva dire una cosa, che
io non stavo respirando l’aria contaminata dalla radiazioni.
Ma erano radiazioni? Ma
quell’esplosione alla quale avevo assistito era stata causa di un
atto di guerra?
Magari era solo saltata in aria
una raffineria o un impianto chimico.
Sapevo che non esisteva nulla di
simile nel centro della città, da dove la luce aveva scaturito la
sua forza devastatrice. Laggiù c’erano solo uffici, negozi e show
room. C’erano poche librerie, molti ristoranti e una teoria senza
fine di bar e sale da ballo. Un paio di caserme, questure con
l’eterna fila di immigrati alla porta, musei e abitazioni, nulla
che potesse esplodere scatenando dieci megatoni di potenza.
Rimandando il momento per
piangere andai al settore elettrodomestici.
Dal momento che il mio telefono
dava un laconico segnale di assenza di servizio, cercai una radio.
C’erano impianti di ogni tipo;
sintonizzatori pieni di pretese che avevano una manopola enorme per
cercare la stazione, apparecchi che funzionavano solo con un segnale
satellitare, lettori cd ed mp3 con minacciose casse incorporate,
strani cubi con poca potenza e con la promessa di deliziare il
cliente all’ascolto.
La radio, come la intendevo io,
piccola, maneggevole e con l’antenna retrattile non più lunga di
dieci centimetri, la trovai solo dopo avere aperto una dozzina di
scatoloni imbottiti di polistirolo.
L’accesi e la misi al lavorare
su tutto il range di frequenze.
Nulla.
Ero sepolta viva sotto il palazzo e fuori, probabilmente, non era sopravvissuto nessuno.
L’esperimento
con un televisore, che attaccai alla rete della corrente elettrica,
fu altrettanto frustrante. Pur conoscendo piuttosto bene il
magazzino, la disperazione, la stanchezza e la sincera paura di
essere sul punto di morire, fecero in modo che impiegassi ore per
cercare un decoder digitale e un’antenna posticcia, e quando le
trovai ebbi la conferma di quello che già sapevo.
Neve.
Neve e disturbi di segnale sugli
oltre duecento canali.
Non esistevano più i
ripetitori, spazzati via dalla furia dell’esplosione come fuscelli,
sciolti nel calore e cotti nel loro stesso brodo. A quel punto, che
erano le otto di sera, crollai in ginocchio sotto lo schermo acceso
del quarantadue pollici e cominciai a piangere.
Mi svegliai dopo molte ore con
la TV accesa sulla sua ipnotica trasmissione fatta di nulla e la
radio che scatarrava un messaggio registrato che pareva un appello
alla calma e alla fiducia, ma trasmesso da un’altra dimensione.
Avevo dormito con la mano che
faceva da cuscino e avevo sognato Michelangelo.
Era venuto a prendermi,
materializzandosi davanti a me dalla cenere che un vento caldo aveva
ammucchiato ai miei piedi. Si era composta una figura parziale, che
respirava emettendo sbuffi di fumo e che tentava di parlare senza
riuscire a farlo. Era brutto, puzzava di bruciato e la sua vicinanza
inaridiva la gola fino a farmi tossire. Quando si accorgeva che dal
mio sguardo non traspariva più l’amore che era abituato a vedere,
si trasformava nuovamente in polvere e tentava immediatamente di
ricomporsi in qualcosa di migliore. La cosa durò fino a che il mio
sudore non formò una pozzanghera sul fondo della schiena.
Sognai anche i miei genitori,
che erano andati al mare e che si erano scottati profondamente. Mia
madre aveva la pelle del volto brunita e gonfiata come quella di un
pollo arrosto e mio padre si staccava interi lembi di epidermide
provocando l’emorragia di una sostanza giallastra. Respiravano
emettendo suoni gutturali e si grattavano la testa in continuazione
facendo cadere i capelli. Mio padre era diventato calvo in poco
tempo, mentre mia madre conservava delle ciocche lunghe e precarie
che, di tanto in tanto, si staccavano e finivano sulle spalle.
La cosa che feci, ancor
prima di accorgermi che l’anello di fidanzamento che portavo al
dito mi aveva marchiato la faccia come la coscia di un vitello, fu
quella di controllare se i miei capelli esistevano ancora. Erano al
loro posto, lunghi, forti, neri e ancora profumati dello shampoo ai
frutti che avevo generosamente spalmato la mattina prima, quando la
città esisteva ancora. Non avevo nausea, anzi. Un languorino di fame
si era instaurato nel mio stomaco, e non solo a me, evidentemente.
Uno dei quattro gattini che
avevo portato là sotto e che nell’ascensore erano
impazziti come se fossero in un frullatore, era qualche metro oltre e
aspettava che mi alzassi. Era una femmina, color ruggine con tante
macchie disordinate a marezzare il pelo corto. Annusava l’aria come
un segugio ed indietreggiava di un passo ad ogni mio movimento, per
poi ritornare al suo posto dopo avere atteso qualche secondo.
La battezzai Baba Vanga.
Come la famosa veggente Bulgara,
aveva visto la fine del mondo ed era rimasta cieca.
Spinta dall’abitudine, mi lavai
i denti nonostante lo sconforto, e lo feci subito, fin dal primo
giorno. Fu in quell’occasione che misi la prima scatola di
dentifricio per compilare il mio personalissimo calendario.
Dopo avere sistemato la terza - antiplacca azione completa - comparvero gli altri gatti, evidentemente
troppo affamati per temermi. Volevano mangiare e avevano trovato il
coraggio di affrontarmi, anche se nelle loro convinzioni ero
probabilmente la responsabile dell’ecatombe alla quale si erano
sottratti per un soffio. Erano evidentemente dimagriti, prossimi al
punto di non ritorno ma nonostante tutto, vistosamente cresciuti.
Se avevano potuto dissetarsi,
attingendo alla pozza di acqua minerale che si era formata ai piedi
di uno scatolone rimasto schiacciato dal crollo di uno scaffale, era
certo che non avevano trovato cibo. Li avevo cercati invano a
partire dal secondo giorno, dopo avere pianto abbastanza da
sentire bruciare gli occhi e dopo essermi nutrita per tutto quel
tempo con un pacco di crackers, trangugiato assieme a un succo di
arancia che avevo strappato ad una grossa confezione di nylon. Mi ero
aggirata nel labirinto di scatoloni per molte ore, con Vanga al
seguito, cieca come una talpa ma già abituata ad orientarsi ascoltando il rumore dei miei passi.
Dopo ore di inutile ricerca li
avevo immaginati schiacciati sotto la montagna di scatoloni con la
cancelleria, che era collassata invadendo la porzione sud del
magazzino. Facendolo, aveva coinvolto nel suo destino le scorte di
concime naturale in sacchi, il terriccio per piante ed una serie di
cazzuole, vanghe e decespugliatori che avrebbero fatto la felicità
di qualsiasi pensionato. Solo dopo mi accorsi che avevano usato il
terriccio per fare i loro bisogni. A quel punto, mi convinsi di
lasciare tutto com’era e di attendere la loro iniziativa.
In quei giorni avevo sperato in
qualche notizia dalla TV o dalla radio, che rimaneva
ininterrottamente sintonizzata sulla stazione “The
day after”. Dopo il
messaggio registrato che pareva essersi esaurito, trasmetteva
solamente fruscii indecifrabili e, di tanto in tanto, emetteva un
incomprensibile singhiozzo elettrico. La hit parade, il dibattito
elettorale, il gossip o le news dal mondo, non arrivavano mai.
Era stata la guerra, il
concretizzarsi di anni di paure e paranoie, la definitiva
consacrazione del decadimento dell’umanità, il sigillo messo su
epoche di meschinità e vuoto di ideali. Fu così improvvisa e
violenta che colse la gente nelle sue faccende quotidiane. Nessun
rifugio, sirena d’allarme o appello alla calma. Non c’erano state
edizioni straordinarie del telegiornale, interruzioni delle
trasmissioni o veloci passaparola via internet. Forse non si erano
nemmeno levati in volo gli aerei che avrebbero dovuto tentare di
difenderci. Magari chissà, qualche generale era stato sorpreso nel
suo ufficio a firmare un documento poco importante solo un attimo
prima che una tempesta di vetri infranti nettasse la carne dal suo
volto come un esercito di formiche rosse.
Il cielo era stato invaso da un
nugolo di avvoltoi, pronti a precipitare sull’obiettivo che una
sequenza alfanumerica aveva inserito nella loro memoria, e poi BUM!
Intere metropoli cancellate dalla faccia della terra nel tempo di un
sospiro rovente. Fuoco, vento ai trecento all’ora e sismi
artificiali. Vista da lontano, dalle campagne, l’apocalisse
nucleare doveva essere apparsa come centinaia di tornado illuminati
dall’energia di mille lampi e proiettati oltre le nuvole ad
insultare lo spazio.
BUM! Ed erano spariti milioni di
corpi, inceneriti, soffocati, spezzettati in un’infinità di
frammenti, mal digeriti dalla voracità del fungo atomico. Qualcuno
doveva essersi accorto dell’inesorabile avanzare del vento, che si
caricava dei cocci di quella che era stata una città, e che gli
veniva incontro così veloce da non avere nemmeno il tempo di
immaginarsi un rifugio. Qualcun altro aveva solo sentito una vampata
di calore e poi aveva visto la sua anima dimenarsi sorpresa in una
nuvola di vapore. Qualcuno era rimasto cieco e inebetito ad
attendere che quel carro armato di satana lo travolgesse sotto i suoi
cingoli. Era stata la guerra, e chi l’aveva decisa doveva essere
al sicuro in un rifugio sotterraneo, circondato da viveri, medicinali
e generi di prima necessità. Più o meno come me.
Qualche volta tentavo di
organizzarmi, recuperando dal magazzino abiti puliti, coperte e
prodotti per l’igiene personale.
In particolare, come se la cosa
avesse potuto offrirmi qualche protezione dalle radiazioni nucleari,
mi ero lavata continuamente con un disinfettante trovato nelle scorte
della parafarmacia e avevo ingurgitato vitamine e pastiglie per a
base di iodio. Mi ero anche guardata la gola allo specchio, ma non
sembrava avere nulla di anormale. Al secondo giorno di trattamento, il mio intestino si ribellò e passai un’ora in bagno,
con la porta spalancata sul magazzino e Vanga che mi aspettava di
fuori, tentando di interpretare il mio stato di salute.
Ma in fondo stavo bene.
Avevo solo l’anima a pezzi, le
palpebre consumate dalle lacrime e la consapevolezza che il sonno
fosse solo portatore di terribili incubi.
Dopo qualche giorno, dopo avere
dato da mangiare ai quattro gatti, andai nel vano dove era alloggiato
il generatore di corrente e vidi che girava come un orologio. Stava
attingendo del gasolio da un grosso serbatoio che avevano alloggiato
sotto terra. Nelle intenzioni dei costruttori doveva servire a tenere
vivo l’ipermercato qualora si fosse verificato un guasto
all’impianto di fornitura del gas, e adesso stava tenendo viva me,
dandomi la luce e facendo circolare l’aria attraverso i filtri.
Dopo il sopralluogo mi accorsi
che Vanga mi aveva seguita fino a lì e che sembrava volesse darmi il
suo parere tecnico sul buon funzionamento dell’impianto. I suoi
occhi inespressivi fissavano un punto lontano qualche metro da me,
correggendo la traiettoria a seconda dell’intensità del mio
respiro. Per aiutarla parlai, e lei indirizzò il nasino, marrone con
piccole macchie nere, esattamente nella mia direzione. Tornando
indietro decisi di fare il giro lungo del magazzino e approfittai per
spegnere le luci inutili. A ogni mucchio di scatole, a ogni scaffale
in ferro, illustravo la merce come se stessi conferendo con un
rappresentante. Vanga si sedeva e mi ascoltava con attenzione e
quella fu la prima volta che mi concessi un sorriso.
Ancora nessuna caduta dei
capelli, dolore al ventre o segni di debolezza organica. Anche i tre
fratellini sembravano stare bene.
Si erano organizzati un loro
piccolo villaggio, approfittando di una serie di scatoloni di viveri
che avevo trascinato fino al mio alloggio, un giaciglio fatto con il
telaio di un letto montato di malavoglia, un materasso in lattice e
la scrivania del magazzino apparecchiata per i pasti. Solo dopo
aggiunsi un tocco di classe, montandomi dei mobili senza nemmeno
consultare le istruzioni. Mi ero liberata dei timbri che tenevo nei
cassetti, dei registri e di alcuni formulari in carta copiativa e
avevo messo al loro posto una serie di posate recuperate nel settore
casalinghi, senza naturalmente badare al prezzo.
Fu in quell’occasione che
decisi di dare un nome ai tre sopravvissuti. Due di loro mostravano
orgogliosi dei testicoli appena spuntati, la terza era una femmina e
andava a dare manforte a Vanga. La femmina vedente, stava masticando
con impegno il bordo di uno scatolone. Non che avesse fame, perché
non le facevo mancare niente, semplicemente si divertiva a staccare
dei brandelli di cartone con i denti, per poi disfarsene scuotendo la
testa.
La chiamai Morsica.
Gli altri due, maschiacci
impertinenti e un po’ grossolani, se le stavano dando di santa
ragione, attenti a non cadere dallo scatolone che avevano eletto a
loro ring.
Quello rosso con la pettorina
bianca lo chiamai Rocky. Quello grigio, Apollo.
Mi accorsi che avevo le labbra
atteggiate a sorriso, che ero viva ed il momento di dormire era
ancora lontano.
Forse fuori si aggiravano orde
di zombie con la pelle che si staccava a brandelli dal volto, con i
ventri gonfi in modo abnorme e il colorito del viso preso in prestito
al bianco. Qualcuno di loro stava defecando i suoi stessi intestini,
altri bruciavano in quel forno a microonde che era diventato il
mondo, altri ancora imploravano che finisse tutto, rivolgendo le
loro preghiere ad un cielo con il colore della cenere.
Rocky smise di picchiarsi con il
suo fratellino e si sedette sulla scatola a guardarmi. Gli altri lo
imitarono, compresa Vanga, che aveva smesso di farsi il bidet. Anche
loro, forse, si stavano immaginando il mondo.
Sola, immersa in una bolla di
chiarore polveroso al centro di un enorme magazzino, mi misi a
riflettere e mi resi conto che le confezioni di dentifricio,
allineate al limitare della luce, erano ormai sette.
Mi alzai, presi un’ottava
scatola e la misi di traverso su quelle altre.
Coraggio, mi dissi, domani sarà
venerdì.
Quattordici confezioni di
dentifricio. Non aveva senso parlare di giorni.
I giorni hanno un principio, una
fine ed il sole nel cielo che descrive un arco più o meno
accentuato. I giorni hanno un cuore pulsante che accelera
nell’occasione di certi, speciali avvenimenti e rallenta in
prossimità della notte. I giorni sono fatti di speranze, di occhi
che si perdono in panorami immensi o che lacrimano nel baluginare del
sole che saluta, proiettando la sua ultima immagine nell’illusione
di un tramonto. I giorni hanno vita e morte, amore, odio e
sentimenti contrastanti. Sono caldi, sono freddi, asciutti o bagnati.
Qualche volta il vento ne spettina i contorni, altre volte la noiosa
omologazione al grigio se ne impossessa, rimandando al giorno
seguente il carnevale di colori. I giorni hanno un nome, un numero e
una storia. Appartengono a un calendario che abbina loro un santo e
possono avere il marchio dell’infamia o della gioia. Si possono
dimenticare o ricordare, possono essere giusti o sbagliati,
interminabili o semplicemente troppo corti per fare quello che si
aveva in mente. Sotto tre piani di macerie, merce, corpi senza vita e
polvere, schiacciati come una serpe sull’autostrada dall’olocausto
nucleare, i giorni hanno un valore relativo, scanditi da un volgare
orologio a batterie che rappresenta un datario a cifre digitali e,
beffardamente, le previsioni di tendenza meteo. Oggi parlano di sole
pieno, anche se temo che là fuori, un’eterna notte si sia impossessata
di ogni cosa. Radio e TV non dicono niente.
I gatti, cresciuti di un bel po’
dal giorno del giudizio, non mi lasciano un attimo da sola.
Su quattro che sono, almeno due
sono sempre a mia disposizione.
Vanga, per esempio, si assenta
solo per andare in bagno e Rocky è un gran coccolone. Si avviluppa
attorno al collo come una sciarpa e infonde la sua generosa dose di
robuste fusa. Alle volte la cerimonia dura per mezz’ora e oltre,
altre si mixa con il sonno che mi coglie di sorpresa.
In quell’occasione, mi sono
accorta, il dormire non produce i soliti incubi.
Ho la sensazione che Rocky
assorba i brutti sogni, li metabolizzi e li trasformi in qualcosa di
inerte.
È un terapeuta con la
specializzazione in psicologia. Se dovessi ammalarmi sarà il primo a
prenderne atto.
Apollo è giocherellone e
dispettoso. Tende agguati dietro gli scatoloni, sculetta sotto gli
scaffali in attesa che la sua vittima attraversi ignara il suo
spazio, sveglia chiunque stia dormendo e morde. Le code, le orecchie,
la schiena. Tutto quello che passa a portata di zanne, lui lo
addenta.
Morsica, la gatta appassionata
del cartone, è fra tutti la più discreta. Si avvicina solo quando
pensa di non essere vista e mangia con meno voracità rispetto agli
altri. Fra tutti è quella che ha capito per prima la cecità di
Vanga e per questo con lei non ingaggia mai lotte o dispute.
Al quindicesimo giorno, stanca
di carne in scatola, tonno in scatola, ananas in scatola e pesche
sciroppate in scatola, andai alla ricerca di un fornelletto a gas.
Esisteva ma andava caricato. La prospettiva mi creò ansia. Ero
sopravvissuta a una prima esplosione per miracolo e non volevo
provocarne una seconda, congelarmi le mani con una fuoriuscita o
banalmente intossicarmi. Fra le poche cose che non si trovavano la
sotto, le armi erano fra quelle. Non potevo permettermi di ferirmi in
modo grave e cominciare ad agonizzare senza la prospettiva di potermi
suicidare. La mia attenzione, pertanto, venne attirata da una
piastra elettrica, che occhieggiava dietro le scorte di pentole in
alluminio nella sua bella scatola con ricettario incorporato.
Quella sera cucinai dei fagioli
facendoli cuocere dentro un bel soffritto di cipolle. Lo sfrigolio in
padella allontanò i gatti per un momento, compresa Vanga. Mi accorsi
solo dopo che stava annusando l’aria alle mie spalle per capire di
quanto cattivo gusto fossero dotati gli umani in materia di cibo. Per
riconquistare la sua fiducia, aprii una scatoletta con crostacei e
pesce dell’oceano (così diceva l’etichetta) e gliela diedi da
mangiare. Di quella marca, gusto e formato, dovevano essercene almeno
un paio di migliaia. Il TIR che l’aveva consegnate il giorno della
bomba era probabilmente da qualche parte in città, ridotto ad uno
scheletro di acciaio fumante e annerito.
Insieme al magone ingurgitai il
mio primo pasto caldo da sopravvissuta alla guerra nucleare.
Allora non seppi dire se era
rassegnazione la mia, un principio di lucida follia o la voglia di
annientare i pensieri, ma stavo incominciando a comportarmi come se
fosse tutto normale. Più tardi mi addormentai.
Le luci artificiali, l’assenza
di alternanza fra giorno e notte e un naturale e prevedibile
ottundimento dei sensi, mi stavano provocando una confusione
metabolica. Cominciai a temere che presto mi sarei trasformata in una
creatura degli abissi, che i gatti sarebbero diventati albini
e ciechi e che avrebbero infine sopportato una metamorfosi in
pericolosi predatori di carne umana.
Per adesso erano rassegnati a
dormire.
Il castello di scatoloni si era
arricchito di tappeti, cuscini e ammennicoli a molla che avevo
sistemato un po’ ovunque. Erano le 17.30 e, per quella sera, non
avevo previsto di andare a ballare.
«Dio, se esisti, ricevi l’anima
di Michelangelo, dei miei genitori e…»
Si dice “ricevi” o e meglio
dire “accogli”?
Non avevo mai pregato prima
della guerra. Diciamo che non padroneggiavo il giusto repertorio di
parole e tutti quegli accorgimenti per non fare la figura della
cattiva fedele. Queste cose si imparavano andando in chiesa e facendo
un po’ di esercizio quotidiano. Il fatto che fossi sopravvissuta
per tre mesi alla terza guerra mondiale, mi fece concludere che Dio
ti giudicava da quanto eri una brava persona e non, evidentemente, da
quante volte al giorno lo chiamavi in causa. Io, ai suoi occhi,
dovevo essere una gran brava persona.
Allora, intanto non devo mettere
in dubbio la sua esistenza, altrimenti non è una preghiera, è una
querelle scientifica. «Dio, accogli l’anima di Michelangelo, dei
miei genitori e di Marzia, la mia collega del reparto profumi, di
Salvatore e Cristiano alla vigilanza e Ugo. Sì Dio, io Ugo lo
prendevo sempre in giro ma gli volevo un bene dell’anima…Volevo
un po’ meno bene al dirigente che ho visto disintegrarsi sotto la
bomba ma sì, accogli anche l’anima sua...» La preghiera seguitò
in barba ai dettami della chiesa e ricomprese i nomi di un’altra
cinquantina di persone alle quali avevo voluto bene per qualche
motivo.
Avevo sentito dire che la
preghiera aiutava le anime dei morti a superare certi ostacoli sul
loro percorso e allora, una volta mangiato, constatato che ero in
salute e che i gatti stavano bene e crescevano a vista d’occhio,
avevo deciso di dedicare un po’ di tempo al mistico. Infine feci
anche un pensierino per Cagliostro, il Setter irlandese dei miei
genitori.
Di tempo ne avevo un’eternità.
Quel giorno mi tagliai i capelli e limai per bene le unghie. Da una
settimana, da quando mi ero accorta che stavo diventando pallida in
modo patologico, avevo cercato in magazzino un piccolo solarium che
ricordavo di avere visto esposto ai piani, l’avevo installato e
fatto funzionare. Il mio incarnato cominciò ad assumere un colorito
accettabile.
Solo che il piccolo solarium
chiedeva un tributo di energia molto grande, assieme alla piastra per
cucinare e all’impianto di depurazione dell’aria. La cisterna con
il gasolio, che avevo ispezionato picchiettando con le nocche sulla
parete fredda, doveva essersi svuotata di un terzo almeno.
Il conto era facile da fare: se
ero sopravvissuta tre mesi e se volevo sopravviverne almeno nove,
dovevo rinunciare a qualche confort.
«Va bene Dio, allora rinuncerò
alla tintarella e anche alla piastra elettrica…Promettimi che non
salterò in aria tentando di caricare il gas nel fornello da
campeggio…» Attesi. Tre dei quattro felini avevano gli occhi che
rifrangevano la poca luce e mi stavano guardando come se fossi pazza.
Vanga, con gli occhi rivestiti da quella patina bianca che si era
formata, non rifletteva nulla, ma curiosa aspettava che finissi di
pregare. Morsica aveva le orecchie dritte, orientate come radar nella
mia direzione. Rocky e Apollo si erano consultati con uno sguardo e
scambiandosi una reciproca strizzata di palpebre.
«E infine Dio, se non ti chiedo
troppo, vorrei essere soccorsa. Dai, lo so che non sono morti tutti
là fuori, che magari quella cosa dell’inverno nucleare era una
cazzata e che da qualche parte, nel mezzo dell’oceano o sul fondo
di qualche valle sperduta, c’è l’aria buona, il sole e la gente.
Si saranno pure radunati quelli rimasti vivi, o no? Saranno passati
dei soldati e avranno finito di sterminarli? Si sarà instaurata una
dittatura sanguinaria dove vigono leggi crudeli? Si saranno
uccisi l’uno con l’altro fino a estinguersi? Avranno abbracciato
tutti la fede e si saranno rasati il capo in segno di prostrazione a
te, Dio? Ti avranno sostituito con chissà chi?»
Non arrivò risposta. Nessuna
vocina nella mia testa, nessuna ispirazione. Abbandonai il cuscino
sul quale mi ero inginocchiata e mi misi a correre nel magazzino. Lo
facevo ogni giorno da ormai un mese.
Torcia elettrica alla mano, mi
esercitavo percorrendo il periplo degli scaffali, variavo
attraversando gli alimentari e abbigliamento e finivo con un bello
sprint attraverso il reparto mobili. Il frigo, l’enorme frigo che
io stessa avevo spento al terzo giorno dopo essermi preparata una
borsa ghiaccio di viveri da consumare subito, era chiuso e sigillato,
con tonnellate di cibo marcio al suo interno.
Se lo avessi aperto sarei morta
per le esalazioni. Per la verità, passandovi accanto e affinando
l’olfatto, si sentiva un olezzo di morte provenire dalla cella e
dei rumori come se enormi ratti lo avessero popolato, increduli di
avere a loro disposizione tutta quella sterminata abbondanza.
Furono i gatti a farmelo notare.
Quando passeggiavamo per ingannare l’eternità, loro si tenevano
prudentemente lontani da quella porta. Era terra proibita. Insieme
al punto dove si era versato l’acido era la zona off limit, la
terra di nessuno, la landa ammorbata sulla quale nessun piede o zampa
dovevano posarsi.
Posai delle recinzioni.
Con un nastro segnaletico che
avevo saccheggiato al reparto bricolage, organizzai delle belle
delimitazioni, che si presentarono fosforescenti sotto la luce della
mia torcia led.
Corsi apprezzando la morbida
consistenza delle mie scarpe a gel, scelte fra altri venti differenti
modelli: reparto sport e tempo libero. Queste ultime avevano
quell’odore di gomma che mi faceva ricordare le escursioni serali
al parco, con Caterina, Marica e Loretta. Facevamo girare la testa a
tanti di quei maschi che sembrava lo spalto di uno stadio, con
migliaia di spettatori arrapati a seguire il ribaltamento
dell’azione. Caterina, Marica e Loretta dovevano essere morte,
probabilmente sorprese dalla bomba nei rispettivi uffici. Le
ricordavo belle e solari e fui orgogliosa di avere pregato per loro.
A ogni giro si presentava il
solito, noioso panorama
C’erano gli scaffali con i
superalcolici, la dispensa con vini anche di buona marca che avevo
già intaccato, i pacchi enormi di caffè, zucchero e farina. Alla
svolta si apriva un orizzonte di prodotti per le pulizie domestiche,
oli e conserve. Più in là pane e grissini a lunga conservazione.
Al passaggio di fronte agli
articoli per la scuola imprecai.
Non c’erano libri in quel
posto. Quelli, appena arrivavano all’ipermercato, venivano
immediatamente sistemati sui banchi sotto le luci ammiccanti. Non
scendevano al secondo piano sottoterra. Loro, assieme ai dischi e ai
film, venivano lasciati sopra, pronti all’acquisto e ora erano
sepolti assieme ai morti.
Questa cosa fu quella che più
contribuì alla costruzione dell’eternità.
Primo passaggio accanto al mio
alloggio.
Riconobbi che c’era un po’
di disordine, che avevo lasciato il letto sfatto e le ciabatte
buttate in giro.
Non avevo lavato la padella
nemmeno quel giorno. Avevo deciso che l’avrei cambiata
sistematicamente, fino a che non ne fossero avanzate solo dieci. A
quel punto, era stabilito, avrei cominciato a lavarle.
Al secondo passaggio allo
scaffale intimo uomo e donna, vidi Vanga piazzata a prendere il
tempo. Aveva le orecchie così attente a percepire il minimo suono,
che avrebbe battuto un pipistrello al buio: di necessità virtù 1 –
sonar 0.
Mi fermai prima di essermi
stancata troppo.
La sopravvivenza presupponeva di
non avere bisogno di un medico, di una flebo o di un massaggio
cardiaco. A pensarci bene sarei uscita a pezzi anche da una
slogatura.
L’eco dei miei passi venne
riprodotto dal soffitto altissimo, e riprodotto, e riprodotto…
Ferma, dopo il quinto o sesto
respiro, mi accorsi che i passi non si arrestavano, proseguivano
trascinandosi appresso un fiatone. Battevano in terra senza garbo,
lasciando che la gomma producesse, strusciando, fischi ad alto
volume. L’atmosfera, tanto per capirci, era quella di una partita
di tennis sul sintetico, dentro un palazzetto con diecimila
spettatori ammutoliti dall’intensità dello scambio.
La sopravvivenza presupponeva di
conservare la salute, quella mentale soprattutto.
Quel giorno, lentamente ma
inesorabilmente, cominciai a perderla.
Il mio alloggio, da area
virtuale non tangibile, divenne presto una fortezza.
Trascinai dei pannelli di
cartongesso che avevo preso al bricolage. Ne portai talmente tanti
che, dopo ore, avevo i muscoli completamente indolenziti ed un
principio di epicondilite.
Adoperando un avvitatore
elettrico fissai delle staffe e formai dei pannelli più grossi, che
rinforzai con delle nervature e accoppiai insieme raddoppiandone lo
spessore. Collegai questi muri prefabbricati alle enormi scaffalature
adoperando le staffe piegate Una volta terminato dovevo entrare con
l’aiuto di una scala da imbianchino, che tiravo dentro ogni volta.
Vanga, Rocky, Apollo e Morsica viaggiavano all’interno di una
coppia di portantini che non ebbi problemi a trovare fra le offerte
in saldo dell’ipermercato. Quando avessi avuto voglia, mi
ripromisi, avrei fatto loro un piccolo passaggio alla base dei muri.
Nell’illusione di fornire alla
mia fortezza le sembianze di una vera camera, prelevai una
specchiera dal reparto mobili e l’appesi alla parete.
Quello che vidi non mi piacque.
Avevo gli occhi ingialliti,
circondati da piccole rughe e appoggiati su un paio di grosse borse.
Il pallore virava al grigio e le labbra avevano perso quel rossore
sano che mi piaceva tanto e i capelli, secchi e indisciplinati,
cominciavano a mostrare qualche filo bianco. La pelle, priva
dell’energia giovanile che ricordavo, sembrava essersi incollata
agli zigomi e alle clavicole, insinuando il sospetto di un giallo a
contatto con le ossa. Resettai quell’immagine dalla mia memoria,
coprii lo specchio con un asciugamano e mi lasciai crollare nel
letto.
Ora anche io avevo la mia
scatola, e la cosa mi permise di dormire per un paio di notti senza
incubi.
Ascoltai con attenzione se i
passi che avevo sentito il giorno prima volessero ripetersi, ma
nulla, solo le rassicuranti fusa dei felini e quel silenzio che era
in grado di uccidere.
Sdraiata, guardai l’unico
faretto acceso.
Pendeva dal soffitto attaccato
ad un cavo d’acciaio.
Con un po’ di fantasia e
concentrazione vedevo la luna. Attraverso il filtro delle lacrime,
qualche volta, mi ricordava il transito delle nuvole nelle notti di
plenilunio.
Con il tempo smisi di illudermi
del giorno e della notte.
L’orologio digitale al muro si
era spento e io non mi ero preoccupata di sostituire le batterie. La
sveglia, quella che avevo impostato con il canto della capinera
all’alba, era finita un mattino sotto i colpi di un martello. Era
accaduto dopo una notte insonne, passata a rovistare nei ricordi
sempre più tiepidi del mio passato e quel canto di uccello era stata
la lama che aveva squarciato l’involucro sottile della mia
sofferenza.
Per quanto ne sapevo potevano
essere le dieci come le diciassette, le ventitré come mezzogiorno.
Nemmeno le mestruazioni erano più regolari. Il concetto di ciclo era
morto assieme al mondo stesso. La fame, la sete ed il sonno
stabilivano ormai i ritmi della mia esistenza e le mie giornate
trascorrevano a giocare con i miei amici pelosi, intrattenendoli con
dei nastrini colorati o con delle palline di carta: i serpenti e i
topini del loro mondo immaginario. Alla fine la noia vinceva e ci
addormentavamo insieme.
Avevo imparato ad assecondare i
loro ritmi e dormivo praticamente quanto loro, mentre fuori,
probabilmente, era già inverno inoltrato.
Ho sentito gocciolare.
Nel silenzio assoluto,
interrotto saltuariamente dalle accensioni del gruppo elettrogeno,
qualcosa cadeva dal soffitto e provocava il classico rumore da
grondaia bucata. Apollo, più degli altri, sembrava infastidito dalla
cosa e mi confermava che la mia non era un’allucinazione uditiva.
Per riuscire a dormire mi
immaginai di essere in una notte d’autunno, con Michelangelo al mio
fianco avvolto nelle coperte, un freddo appena in grado di scalfire i
muri e il tepore del riscaldamento acceso da poco. In sottofondo una
musica classica invogliava il sonno e le spie verdi dello stereo
proiettavano sul pavimento in legno una vaga luminescenza. I gatti
avevano trovato posto nella scena, incastrandosi alla perfezione
negli arredi della camera, fra la biancheria appena lavata e sulla
cassapanca ai piedi del letto. Vanga, ancora sveglia, si leccava la
pancia ronfando sonoramente. Mi sforzai di pensare a un caldo
abbraccio, alla bocca del mio uomo e al vigore del suo corpo che
prometteva di impossessarsi di me. Sentii il suo profumo ed il ritmo
regolare del respiro.
Non funzionò.
Provai allora a proiettare nella
mia fantasia qualcuno dei miei film preferiti, iniziando
pazientemente a fare scorrere nei pensieri i titoli di testa, la
sigla musicale e le scene d’esordio. Per fare le cose a modo,
facevo precedere il tutto dai loghi di produzione e distribuzione.
Quel film, in particolare, iniziava con due ballerini amalgamati in
un cartone animato. Danzavano un tango contendendosi una sciarpa di
seta e, dopo poco, compariva la scritta rossa del produttore che
mutava i font dei caratteri assieme al pulsare della pellicola. Alla
quarta o quinta scena, i dialoghi divennero confusi e incomprensibili
e gli interpreti assumevano l’aspetto di persone malate. Anche la
città che faceva da sfondo alla storia era divenuta irriconoscibile,
con i palazzi sbriciolati in tanti montarozzi di macerie e le strade
asfissiate da una polvere sottile e onnipresente. Neri avvoltoi
popolavano il cielo spento e un fiume di melassa puzzolente
percorreva il suo alveo trascinandosi un cappotto di fumo acido.
Non potevo concentrarmi perché
sentivo gocciolare.
La pioggia aveva impregnato le
macerie, formatto pozzanghere che si erano divise in centinaia
di rivoli freddi. Qualcuno aveva trovato l’opposizione di un
pannello, di un pilastro, del rimasuglio di un pavimento, qualcuno
aveva riempito le cavità di un corpo, qualcuno aveva virato verso il
mare in cui era destinato a morire. Uno, un singolo rivolo d’acqua
piovana, aveva trovato la sua strada fino al soffitto, un cavedio di
qualche impianto, la debole resistenza dell’intonaco e ploc… la
prima goccia radioattiva era penetrata all’interno del magazzino.
Mi trasferii più lontano
possibile dalla zona dello sgocciolamento e dovetti rinunciare alla
mia scatola.
Per evitare che l’acqua
contaminata si disperdesse ovunque, misi un secchio sotto la goccia e
fuggii più veloce possibile. Nel posto dove andammo non si sentiva
più il rumore.
Da quel giorno dovetti impedire
ai gatti di allontanarsi, di contaminarsi e distribuire il loro
carico di morte. Dopo averli tenuti chiusi per due giorni nei loro
portantini, costruii una scatola ancora migliore e ancora più grande
della prima, la dotai di bagni con sabbia e costrinsi le belve ad
esserne prigioniere.
Non la presero bene.
All’inizio
ci furono dei veri e propri ammutinamenti, una serie lunga e
antipatica di girate di spalle, miagolate che assomigliavano a grida
di guerra e alcuni rocamboleschi tentativi di fuga, tutti frustrati
sul nascere. Passammo così alcuni giorni, nei quali io dovetti
impegnarmi a spostare al sicuro tutti i generi alimentari e i
vestiti che potevano servire. Lavorai per quasi venti ore senza
interruzione ma, alla fine, fui soddisfatta della nuova sistemazione,
con tutto il necessario a portata di mano e una nuova casa.
Qualche ora dopo vidi che il
soffitto aveva smesso di sgocciolare.
Fu la terza crisi di pianto che
mi ridusse a uno straccio.
A nulla servirono le pastiglie
di valeriana, che integrai con quelle di biancospino che rinforzai
con quelle di iperico. Fui talmente squassata dai singhiozzi che a un
certo punto credetti di smettere di respirare. Erano passati trecento
giorni dall’esplosione e avevo sentito nuovamente i passi, delle
voci che esordivano nelle mie orecchie con sempre maggiore frequenza
e rumori indecifrabili, come uno stantuffo che si scaricava, un
tostapane che faceva scattare i suoi toast ed un drone che volava per
il magazzino. Vidi una serie di fantasmi in abito da sera, in tenuta
da sci, nudi con abbondanza di grasso superfluo e in tuta anti
radiazioni.
Uno in particolare mi
inquietava. Era alto e robusto, muoveva le gambe come un burattino e
avanzava nella mia direzione respirando rumorosamente. Dietro il
vetro convesso della maschera si intravedevano due occhi inespressivi
e rassegnati e il tubo corrugato che scaturiva dal filtro aggirava
la spalla per finire in uno zaino.
Compariva e scompariva diverse
volte al giorno, sempre occultato nella penombra o appena sfiorato
dalla luce fioca delle poche lampade rimaste accese. Cercavo
conforto stringendo il primo gatto che mi capitava a tiro. Mai come
in quel momento ne fui così sicura. Vanga, Rocky, Apollo e Morsica
mi avevano tenuta in vita. Avevo parlato con loro, giocato. Avevo
atteso con ansia che fossero rientrati dalle scorribande, avevo
apprezzato la loro crescita, curato la loro salute. Mi era presa cura
di tutte le loro esigenze e loro delle mie. Avevano saputo
interpretare i momenti, capire l’attimo, leggere lo spartito
dell’anima.
Forse chissà, si immaginavano
un mondo diverso, che sognavano pieno di luce, aria buona e prati
immensi nei quali correre all’inseguimento di qualche farfalla.
Forse il loro istinto aveva codificato il calore del sole, l’odore
della pioggia, il profumo della neve e l’ebrezza del vento asciutto
dell’estate. Forse il loro istinto sapeva ricostruire quelle
illusioni talmente bene, che per loro era sufficiente chiudere gli
occhi e goderne. Qualche volta li vedevo tristi, dimessi, come se il
peso di quell’esistenza stesse incominciando a fiaccare la schiena.
La cosa durava poco e sembrava che una droga, benefica ed eccitante,
invadesse i loro nervi, depurasse il sangue e donasse nuovi spunti ed
energie. Se io sentivo le voci e sperimentavo le apparizioni, loro
probabilmente si erano costruiti un magico giardino segreto. Non
poteva essere che così. Non avrei potuto capire altrimenti quella
beatitudine di cui godevano e la loro capacità di trasmettermela.
Ma noi umani cediamo alla
ragione e prestiamo attenzione ai nostri freddi calcoli. Se i
risultati non ci soddisfano, se le proiezioni sono insufficienti e le
statistiche deficitarie, lasciamo che il pessimismo ci invada con
quella sua marea nera e melmosa e che infine ci faccia affondare nel
buio più intenso. Siamo fatti così, non c’è niente da fare.
Qualche giorno dopo il grande
pianto, con Morsica che si strusciava sulla mia gamba, Vanga e Apollo
rilassati sul letto ed il calore di Rocky sulla spalla, mi persi a
fissare l’occhiello perfido del cappio che avevo preparato con la
massima cura.
Il generatore di corrente si fermò all’improvviso.
Non tossì, non fece le bizze e non mi concesse una seconda
possibilità. Insieme alla fine di quell’impercettibile vibrazione
che avvertivo sul pavimento era cominciato il conto alla rovescia
della mia esistenza. Vagavo nel buio con il solo ausilio delle luci a
batteria e il ricircolo dell’aria non avveniva più. Se prima ero
disposta a sopportare che un po’ della radioattività della pioggia
potesse essere rimessa in circolo dall’impianto in piccole
concentrazioni, adesso non potevo accettare che il biossido di
carbonio nell’ambiente aumentasse di molte parti per milione al
giorno. Le 360 parti per milione che la macchina garantiva, giocando
ad imitare l’aria aperta, erano ormai un ricordo. Il leggero mal di
testa, che da qualche tempo aveva cominciato a farmi compagnia, era
diventato costante e, ultimamente, si accompagnava sempre più spesso
con quella stanchezza inconfondibile, quella che si eredita dalla
permanenza forzata in ambienti affollati.
Finsi che non fosse vero, che la suggestione mi stesse giocando
brutti scherzi. La lieve nausea che esordì assieme a qualche
giramento di testa, mi convinse che, per quanto fosse grande il
volume di quel magazzino, io e i quattro pelosi lo stavamo lentamente
avvelenando con il nostro metabolismo.
Cercai invano un spiffero, una corrente d’aria o qualcosa che mi
convincesse che c’era un ricambio, ma la candela con la quale andai
in giro per ore e ore, come una domestica del millesettecento in un
grande castello, aveva la fiamma che pareva immortalata in una
fotografia.
Lasciai i gatti liberi di circolare attraverso le praterie buie del
nostro mondo segreto, mi armai di un grosso coltello e squarciai
numerosi pacchi di mangime che lasciai in giro negli angoli più
disparati. Rimboccai di acqua decine di ciotole e stoviglie e le misi
bene in vista.
Nonostante la rinnovata libertà, Vanga, cieca come una talpa e
Apollo, il mio terapeuta di fiducia, rimasero con me, mentre alla
luce di una torcia elettrica scrissi la mia lettera di commiato dal
mondo.
Mi chiamo Nadia, ho ventotto anni e sono nata in un piccolo paese
di periferia.
Ho avuto una vita felice, nonostante il mondo abbia fatto del suo
meglio per impedirmelo.
I miei genitori erano delle brave persone, tutte d’un pezzo,
timorose di Dio e convinte che la bontà d’animo fosse un assegno
circolare da incassare alla bisogna. Mi hanno insegnato a essere
contenta di quello che si ha, ed io lo sono stata. Ho vissuto molto
di più della buona parte delle persone di questo mondo e ho messo in
pratica quello che avevo imparato da loro.
Avevo fidanzato, Michelangelo, del quale non ho foto nel
portafoglio o lettere scritte con l’inchiostro profumato. Se volete
vedere chi fosse, quanto era bello e di quali proprietà miracolose
era capace il suo sorriso, nella memoria del mio cellulare, che
lascio in vista ai miei piedi, troverete un bel po’ di
ritratti…oops, se vorrete riservarmi la cortesia di non guardare le
ultime cartelle ve ne sarei grata. Lì compare nudo, un nudo
artistico beninteso, ma pur sempre nudo!
Ho una laurea in biologia che mi ha spalancato le porte del
lavoro, facendomi assumere in questo supermercato come inserviente
prima e magazziniere poi.
Vi prego, non ridete. Questi sono i tempi in cui ho vissuto.
Una scarica di tosse mi prese alla sprovvista. Assieme a una certa
secchezza delle fauci mi mise nelle condizioni di dovere sospendere
la scrittura per un po’. Morsica, intanto, si era accovacciata sui
miei piedi e aveva incominciato un’attenta manutenzione e pulizia
degli artigli posteriori.
A giudicare dalle trecentoundici scatole di dentifricio che ho
allineato per tenere aggiornato un calendario, e dai giorni che sono
passati dopo che ho smesso di farlo a causa della rassegnazione,
deve essere passato quasi un anno da quando sono rimasta intrappolata
qui sotto.
Fuori è estate! Fortunati quelli che la potranno godere!
Sono sicura che, da qualche parte, le bombe non sono arrivate, le
correnti hanno tenuto lontano i veleni e il vento ha soffiato contro
l’inverno nucleare. Da qualche parte ci deve essere gente che
gioca a palla, che si rincorre nei campi, che nuota nel mare, prende
il sole e si disseta ad una fonte di acqua pura.
Vi prego, quando troverete il mio corpo, sarebbe bello se poteste
portarlo fino a là.
Come sono sopravvissuta non lo spiego, e nemmeno come hanno fatto
i mie amici gatti, Vanga, Morsica, Apollo e Rocky. Troppo facile
capirlo dalle numerose confezioni di cibo che abbiamo consumato in
tutto questo tempo e da tutte quelle bottiglie rimaste vuote.
Nb:
il vino l’ho bevuto solo nei momenti di maggiore sconforto, non mi
giudicate male e non vogliate attribuirmi vizi sconsiderati.
Ma adesso sta incominciando a mancare l’aria e noi esseri
viventi siamo fatti così, non riusciamo proprio a farne a meno.
Peccato, perché c’era ancora da mangiare per anni interi,
magari non formalizzandosi con le date di scadenza, ma si poteva
vivere ancora a lungo.
Senza i miei gatti non ce l’avrei fatta nemmeno ad arrivare
fino ad oggi.
La pazzia l’avrebbe avuta vinta prima del tempo e la salute si
sarebbe deteriorata assai in fretta. Oggi non ho il coraggio di
guardare allo specchio il grigiore della mia faccia, temo di avere un
paio di denti guasti e sento che il mio intestino si è impigrito in
maniera preoccupante. Ma potere parlare col loro ogni giorno,
raccontare a puntate la storia della mia vita, addormentarsi con il
calore dei loro corpi addosso, è stato impagabile.
Li vedrete come sono grandi e robusti. Spiccano salti come
canguri, corrono alla pari di un uragano e sfoggiano il vigore e la
forza della gioventù. Ah, Vanga, la micia con il pelo con della
macchie sparse in color ruggine, è cieca. Non la sopprimete per
l’amor di Dio. E’ sveglia, indipendente e sarebbe in grado di
portare a spasso un cane per non vedenti. È la migliore, ed è
l’unica che quel giorno ha visto brillare il gran sole.
Gli altri sono semplicemente dei tesori, chi specializzato in
medicina, chi compagna di dormite, chi tenero attira coccole.
Sappiate che nessuno dei quattro si è mai lamentato, almeno fino a
ora.
Lo so che il suicidio è peccato.
Credo tuttavia che, dopo la guerra, dopo che tutta questa gente ha
fatto partire i missili senza porsi troppi scrupoli, l’inferno
abbia il tutto esaurito per un bel po’. Quindi Dio mi perdonerà.
Mi perdoneranno anche i pelosi, che rimarranno a lungo senza la mia
compagnia.
A quel punto piansi.
Una lacrima andò a sciogliere l’inchiostro fresco dalle parti
della parola guerra, la cancellò, praticamente. La cosa non mi
dispiacque, e la volli interpretare come un segno di Dio, che aveva
capito e già perdonato il gesto che stavo per compiere.
Ero diventata religiosa lì sotto. Del resto la fede era una delle
strade per non imbruttirsi, cadere nella follia o ammalarsi prima del
tempo.
Guardai il cappio che avevo appeso ad uno scaffale in alto.
Beffardamente, lo sgabello che avevo sistemato sotto, lo avevo
montato con le mie mani, chiave a brugola e un sorriso amaro che
bruciava sulla faccia.
Salutai i miei amici con una carezza per uno e appresi che avevano
capito.
In silenzio, seguirono i pochi passi che mi separavano dal patibolo.
La spiaggia era così piatta che il mare cominciava a prendersi sul
serio solo dopo qualche centinaio di metri. L’acqua, fino a quel
punto, era di un azzurro così tenue che a tratti su confondeva col
bianco della sabbia. In lontananza una fila di atolli giocava a
nascondino con le vele e le nuvole correvano la loro gara sullo
sfondo blu acceso del cielo mattutino. L’unica nota per così dire
stonata, era una palma incurvata in modo un po’ brusco, come se
fosse venuta al mondo litigando con il vento. A guardare bene, anche
la curva del golfo aveva un’armonia imperfetta, come se il più
talentuoso dei disegnatori si fosse impegnato a inventarsi ellissi
vertiginosi e raccordi troppo audaci. Più in là, dove la sabbia
cominciava a cedere spazio alla terra dura, uno stagno verde come
l’erba brillava sotto il sole, con dei bambini che si divertivano a
corrergli intorno. Le grida e le risa che i giochi d’infanzia
facevano scaturire da quelle giovani vite, arrivavano attenuate dalla
brezza sottile che carezzava la pelle nuda.
L’uomo con la tuta anti radiazioni, la maschera e il
tubo nero corrugato che si dipartiva dal viso verso uno zaino che
portava sulla spalle, era a pochi passi da me. Devo dire che in
costume da bagno faceva la sua figura, con due gambe ben tornite, il
petto scolpito sotto una lieve peluria e quel collo taurino al quale
mi ero abbracciata più di una volta.
Quando lo vidi arrivare avevo il cappio che girava intorno al collo.
Sentivo la corda pungere e lo sgabello tremare incerto sotto i miei
piedi.
Non gli diedi peso.
Assieme alle allucinazioni uditive, quelle visive avevano
caratterizzato i miei ultimi giorni di permanenza nel magazzino, due
piani sotto terra. In quel periodo la mia mente si era divertita a
ingannarmi, a prendere in giro i miei sensi. Quindi cosa poteva
valere l’ennesima allucinazione?
Prima di passare ai fatti mi ero lavata, pettinata e vestita con
abiti nuovi. Andando in giro per il magazzino alla loro ricerca
sentii le gambe indebolirsi e la vista annebbiarsi ancora di più. Il
tentativo di svitare il tubo di scarico del generatore, nella
speranza di attingere dall’esterno un po’ di aria, seppure
sicuramente contaminata, fallì miseramente, con la mano insanguinata
per lo sforzo, troppo grande e inutile contro la resistenza ostinata
di quei bulloni ossidati.
Quindi con la mano sana accomodai il cappio e radunai il coraggio per
farlo.
Ma la fiamma della candela che avevo lasciato sul pavimento,
inizialmente fissa, di quella fissità della morte, aveva preso a
ondeggiare, a destra e poi a sinistra e Rocky, per nulla spaventato
da quella presenza, si era già portato ai suoi piedi per iniziare
una giostra di festeggiamenti al nuovo arrivato. Gli altri tre
impertinenti felini, il pubblico non pagante della mia prossima
inesorabile fine, lo avvicinarono a loro volta e cominciarono ad
annusarlo.
Quando sì levò la maschera mi resi conto che non era un fantasma.
«Squadra di soccorso 2R6T» disse, «agente 0308. Mi congratulo con lei,
signorina, avevamo perso le speranze di trovare qualcuno ancora
vivo…» consultò un apparecchio che teneva
legato alla manica della tuta. «A giudicare da quello che vedo, in
questo ambiente si viaggia a 100 millisievert ora, una soglia
tollerabile per l’uomo.»
«E per gli animali?» Domandai con la voce rotta dall’emozione
mentre mi sfilavo il cappio dal collo.
Lui sorrise «Abbiamo bravissimi medici e anche dei bravi
veterinari. Adesso la prego, signorina, mi segua sull’elicottero.
Sa com’è, fuori non respiriamo esattamente un’aria termale e non
possiamo permetterci di stazionare troppo a lungo.»
«Loro vengono con noi!» Intimai sbattendo il piede sullo sgabello,
e lo feci con la convinzione che avrei avuto se la mia vita non fosse
mai cambiata, se ogni cosa mi fosse stata dovuta in forza di leggi,
leggi che avrei fatto rispettare a ogni costo.
Eravamo qualche migliaia almeno su quell’isola nel centro
dell’oceano.
Non si era instaurata alcuna dittatura, la gente sopravvissuta era
calma, positiva e sorridente. Grata di essere ancora al mondo.
Nell’entroterra si coltivava il grano e le patate e il riso e la
frutta. Non c’erano allevamenti intensivi e nessuno mangiava più
del necessario. Avevamo acqua in abbondanza e vino buono, che ogni
mese una grossa nave sbarcava al piccolo molo.
Tutti, nessuno escluso, ne avevano avuto abbastanza della guerra, dei
lutti, della sofferenza e di tutto il male del mondo.
Vanga, Morsica, Rocky e Apollo, trattati come dei re perché
avrebbero contribuito a ripopolare di gatti il pianeta, si erano
abituati subito a mangiare pesce.
© DIRITTI RISERVATI
Nessun commento:
Posta un commento