lunedì 25 luglio 2022

Non ho sonno

 




Non ho sonno.

Intendiamoci, per me non è nulla di nuovo. Da qualche anno non dormo mai per davvero e nello stesso momento non sono sveglio sul serio. Vivo dentro una specie di realtà virtuale e mi sembra di essere immerso nelle luci di una discoteca prima dell’alba, con la palla rivestita di specchietti che gira e gira e mitraglia con una moltitudine di pallini luminosi la moquette sul pavimento e i tavolini e i bicchieri vuoti. Ho le orecchie massacrate dai fischi e gli occhi socchiusi, come se si aspettassero lo schianto delle palpebre in un frastuono di ferro e in una nuvola di polvere e ruggine. Sento il cervello ridotto in pappa, che si agita nella scatola cranica e anzi, a farci attenzione, qualche volta diventa liquido e rischia di colare giù dal naso.

Il viale inquadrato nella finestra attraversa un piccolo bosco di aceri rossi, acacie verdi e salici piangenti che io stesso ho messo a dimora e che adesso, forti e rigogliosi, trasformano il prato in un’alternanza di luci e ombre suggestive e tutto si abbina alla perfezione con le note blu di John Coltrane. Provengono da un vecchio vinile della Prestige Records, che la fabbrica aveva messo al mondo un po’ storto e che è arrivato nelle mie mani partendo da New York verso la metà degli anni ’50 per finire - chissà dopo quante peripezie - su una bancarella dell’usato a Torino, sotto le pensiline di Piazza Madama Cristina. Il venditore era un ragazzo olandese pieno di lentiggini, con le braccia lunghe come gru e la sigaretta pizzicata all’angolo della bocca. Portava una maglietta con la radiografia di un cranio stampata sul petto e nel cranio c'era un chiodo. Era proprio come quelli dipinti nella Vita di Maria Maddalena di Salvador Dalì, di quelli da carpentiere, lunghi e con la capocchia ampia. Il referto medico, stampato all'altezza dell'ombelico, diceva: chiodo fisso.

Dopo mezz’ora di trattative avevamo chiuso per sessanta euro più un caffè marocchino.

Il disco, stanotte, ruota sotto la testina del Pioneer sgangherato, orfano di una puntina decente e di una cinghia abbastanza elastica da non scricchiolare come la corda di un impiccato. Il volume è così basso che se si accosta l’orecchio si può ascoltare la musica direttamente dalla frizione del diamante.

Ma Veronica e Chicco, dormono.

Loro non hanno colpe se il mio ritmo sonno-veglia è andato a farsi benedire e se ormai ho contato tutte le pecore e ho letto l'intero scaffale di libri e se la televisione trasmette soltanto nefandezze.

Ogni volta che si muove una foglia, ogni volta che le ombre cambiano forma nel viale, sento quel peso nella testa che mi perseguita da anni. Non è un buon compagno di viaggio perché ha l’abitudine di farsi vivo quando meno lo aspetti e in forme mutevoli. Questa notte, per esempio, è imparentato con una scheggia conficcata sotto l’unghia oppure con un colpo di pistola ancora caldo.


Codeina, cortisonico, tranquillante.


Vorrei scegliere fra uno di questi farmaci ma in camera non c’è mai niente e ho il passo pesante e zoppico dalla destra come sei i tarli mi avessero sgranocchiato il tallone. Non voglio svegliare Veronica e Chicco. Lui mi metterebbe il muso e comincerebbe a piangere, a fare in modo che quel dolore nella testa organizzi il suo speciale Carnevale di Rio. Lei mi direbbe:

“Amore, magari la prossima volta mettiti le cuffie.” e si congederebbe con un bacio pigro prima di buttarsi nel letto.

Paracetamolo, sali di lisina, procaina.

Nemmeno a parlarne.

Whisky.


Quella sera sorseggiavo un Rebel Yell del Kentucky mentre Nina Simone cantava I put a spell on you. Le vibrazioni più profonde, quelle che partono dalle emozioni, dal calore delle sere d’estate o dal sudore nelle lunghe ore passate a provare, arrivano a te per massaggiarti l’anima e non deludono mai, ma è meglio se le luci sono spente.


Adesso mi accontento di un po' d’acqua, e nemmeno frizzante. Ho dimenticato di avvitare il tappo della bottiglia e il bicchiere in carta, girato al contrario sopra il collo, ha lasciato che il gas volasse via per mischiarsi con l’odore di chiuso. Lo riempio fino al bordo e ci affondo le labbra.

Meglio di niente e più tardi darò un morso alla mela, a qualche albicocca o alla banana con i nei sulla buccia che ogni notte si allargano un po'. Ho constatato che la frutta ha proprietà antidolorifiche. Quando l’ho confidato al medico, lui ha sollevato le labbra sopra la prima fila di denti storti e mi ha riso in faccia sonoramente. Poverino, soffre di iperdontia, una specie di sovraffollamento dentario che lo apparenta con uno squalo ed è brutto come la morte. A giudicare dal suo alito, non dispenserà consigli ai pazienti ancora per molto.

Il disco finisce in un fruscio e il braccio meccanico si solleva dopo il click e si sistema preciso sopra il supporto, e io non ho sonno.

Ascolterei volentieri qualcosa di Randy Weston perché il jazz è la musica più notturna che esista e qualche volta concilia una buona dormita, o almeno ci prova.

I dischi sono allineati sotto al davanzale della finestra, ritti come bravi soldati e anche loro con la schiena consumata dagli anni. Se ricordo bene, The Modern art of Jazz è il sesto capolavoro a partire da sinistra e allora mi avvicino ed è proprio da lì che scorgo un’ombra fra le foglie e avverto quel senso di presenza che mi mette di cattivo umore.

La stanza è immersa nel buio ma sono cauto e mi nascondo dietro la tenda e un ramo dell’acero vibra come se un passero avesse spiccato il volo ma non ci sono uccellini in giardino e l’aria è ferma come dentro una bara e non importa se la lampadina del terzo lampione è bruciata perché sono certo che laggiù c’è qualcuno.

Chiunque sia, deve avere scavalcato il muro, aiutandosi con una scala a pioli, probabilmente e poi un complice deve averlo assistito, imboscando l’attrezzatura e rimanendo in attesa di istruzioni.


Quella sera, Veronica era sotto la doccia e Chicco, in ginocchio sul tappeto del soggiorno, giocava con le carte di Fabula: inventava storie e le recitava, destreggiandosi con dialoghi a doppia o a tripla voce.

Il giorno dopo sarebbe stato sabato e le previsioni dicevano che in riviera ci aspettava il sole, con temperature estive e mare piatto come una tavola. Quella sera mi ero pentito di avere piantato tutti quegli alberi perché stavano coprendo le cattive intenzioni di qualcuno. Rannicchiata alla base dell’acacia, non avevo dubbi, si distingueva la sagoma di un uomo.


La certezza che sarebbe successo ancora mi ha privato del sonno per tutti questi anni e anche se un omino cattivo sta prendendo a calci la mia materia grigia e strappa via i neuroni a morsi e il cuore non batte esattamente come un metronomo e le gambe sono molli e stanche, e se gli occhi si mi hanno preso in giro più di una volta, in questa circostanza sono sicuro di non sbagliarmi.

Sta camminando radente al muro e si avvicina.

E allora non ho dubbi.

C’è una sola cosa che fa più paura di una pistola carica e quella cosa è una pistola carica nelle mani di un padre che vuole difendere la sua famiglia.

È lì, al suo solito posto e il tamburo è pieno di confetti calibro 357 che sono capaci di mettere le ali e sfoderare le lame appena un po’ di polvere da sparo gli stuzzica la schiena.

Hanno fame e la mia Taurus Tracker, stanotte, smania dalla voglia di fare la prima donna.


Quella sera, invece, la Taurus era scarica e avevo dovuto rovistare nel cassetto e sapete come va. Quando il panico prende il largo le mani si ingarbugliano, gli oggetti si coalizzano contro di te e il tempo si mette a correre e sembra che qualcuno ti abbia rovesciato un secchio di pece sul parabrezza mentre sei in curva e che qualcun altro ti abbia infilato dei ricci nelle mutande e che…

Veronica era uscita dalla doccia gridando perché nel frattempo, mentre litigavo con i proiettili che sfuggivano dalle unghie tagliate troppo corte e vedevo i fori del tamburo piccoli e bui, quell’uomo stava per infilarsi in casa e Chicco aveva smesso di giocare e chiamava forte.

“Papà, aiuto, qualcuno vuole entrare!”


Ma un uomo saggio non ripete i suoi errori e questa volta tutti i colpi si sono accomodati docili nel caricatore e pronti per essere sparati. È sufficiente scendere le scale, a luci spente come quando si ascolta la musica e lentamente, a piedi scalzi, si può sfruttare la sorpresa e trovarsi con il bersaglio bello comodo dietro le tacche di mira.


Quella sera, cincischiando con le munizioni, la rivoltella mi era scivolata via e aveva rimbalzato sul pavimento e la corsa con le ciabatte nei piedi aveva rimbombato fra le pareti come una carica di cavalleria.


Invece adesso guadagno metri, li consumo come una talpa che scava sottoterra.

Veronica si è chiusa in bagno e Chicco deve essersi rifugiato sotto al letto. Sono secondi guadagnati e si sa, la differenza fra la vita e la morte può stare dentro un battito d'ali. La Taurus questa volta non scivola e la gomma dell'impugnatura è incollata alla pelle del palmo e c'è voglia di sparare.

Esiste una sola cosa che fa più paura di una pistola carica nelle mani di un padre che vuole difendere la sua famiglia, ed è una pistola carica nelle mani di un padre che è disposto a uccidere per difendere la sua famiglia.


Erano due, ricordo, con i volti deformati sotto la stretta delle calze di nylon, i capelli schiacciati addosso alla fronte, le labbra spalmate in macchie rosse e buffe, i nasi larghi come grosse pere e l'alito rumoroso che si faceva strada a fatica fra le maglie strette. A tutti e due si era formato un ridicolo apostrofo di tessuto che ricordava il serbatoio dei preservativi.

Il primo, a sinistra accanto alla porta che evidentemente avevano forzato con qualche ferro, puntava una grossa semiautomatica verso Chicco, accovacciato fra il mobiletto del telefono e la pianta di clivia. L'altro uomo stringeva il collo di Veronica fra l'interno del gomito e il suo petto ampio e lei era nuda, disperata e tremava, con la canna di una rivoltella cromata premuta contro la tempia. Chicco si era lasciato scappare la pipì ma non era importante. A cose fatte gli avrei fatto credere che il sottovaso troppo pieno aveva traboccato fino a formare una pozzanghera e lui, spaventato, ci aveva inzuppato il sedere come un biscotto nel latte. Gli occhi erano ingombri di lacrime e l'odore della paura arrivava fino a lì, sul pianerottolo delle scale con le pareti impegnate dai quadri.


Adesso vedo il primo che fa luce con la torcia a batterie e rovista nei cassetti. Ai piedi del mobile, ormai, ci sono oggetti considerati poco preziosi, gettati alla rinfusa e calpestati senza riguardo. Sento il vetrino di un vecchio orologio scricchiolare e frantumarsi sotto le suole del ladro.

Tutti e due portano i guanti e sono a volto scoperto.

I maledetti bastardi non temono la giustizia, oppure sono determinati a non lasciare testimoni. Il secondo, con una piccola luce led stretta fra i denti, armeggia nervoso intorno alla serratura della cassaforte.

La sensazione è quella che abbiano fretta.


La prima volta era stato diverso.

Le luci erano intense e in poco tempo la paura si era tramutata in rabbia, pulsioni primordiali e cattiveria e i proiettili avevano cominciato a volare. Brevi viaggi senza ritorno.

L'uomo che teneva a bada Chicco aveva sforacchiato la parete alle mie spalle, distruggendo un paio di tele e colpendone una terza proprio sul chiodo che la teneva appesa. Era crollata e la fragile cornice si era spezzata trasformandosi in una trappola. Indietreggiando mi ero inciampato e cadendo, avevo cominciato a sparare anch'io.

Bang: il centro dello specchio e una ragnatela si era formata nel vetro con la velocità del suono.

Bang: la cornetta del citofono era schizzata come un serpente velenoso e aveva cominciato a penzolare raschiando il muro e...

Bang, e nel mento dell'uomo che teneva Chicco in ostaggio era apparso un buco che gli aveva fatto collassare la faccia e sembrava che solo il collant stretto tenesse insieme quella poltiglia di ossa e carne e bang...e non si era visto più nulla perché il fumo degli spari aveva invaso la casa intera e bang, rumore di mattoni bucati e bang, legno spezzato e intonaco in polvere.

Bang.

Un terribile dolore mi aveva invaso il piede, come se un treno ci fosse passato sopra, come se un secchio di benzina si fosse rovesciato sulla ferita e poi in alto, lungo la gamba e nell'inguine e attraverso i visceri come un gatto che si arrampica sulle tende, e nel cuore e nel collo e nei denti che sbattevano insieme. E bang…

Un urlo strozzato aveva attraversato il fumo e l'afrore del sangue sembrava galleggiare nell'aria e ancora una volta: bang.

E le luci si erano spente, tutte insieme.


Ma il buio è complice.

Non mi lascio distrarre dai cerchi luminosi, che frugano la porticina della cassaforte come quelli che si rincorrono sulla moquette della discoteca. Mi faccio piccolo e scendo le scale con il sedere e non ho fretta perché Veronica e Chicco hanno già vissuto una storia simile e hanno imparato. Respirano piano, rallentano le pulsazioni e il sangue scorre adagio nelle vene. Si amalgamano con l'ambiente come insetti, confusi fra la doccia e il bidet, mimetizzati con i motivi a fiori del tappeto.

Mi avvicino con la stessa tecnica di un sottomarino, profondo, furtivo e silenzioso e i rumori che ascolto mi danno le coordinate certe e gli obbiettivi sono ormai nel reticolo del periscopio.

Fuori uno, fuori due e poi li vedrò affondare.


Qualcosa mi piomba addosso e premo il grilletto.

Sapete, un uomo saggio tende a non ripetere i suoi errori ma un uomo fallace, no, li ripete eccome e mentre recito quel proverbio nella mente mi rendo conto di non avere sbloccato la sicura ma quando ci provo ancora non è più tempo. L'universo è cambiato, il mazziere ha distribuito un altro giro e questa volta mi sono toccate delle carte di merda.

Il primo corpo mi comprime come un rullo e anche se ho tolto la sicura non posso sparare, perché l'abbraccio è di quelli mortali e siamo praticamente il medesimo essere vivente. Fusi come gemelli siamesi.

Lascio comandare l'istinto, faccio come posso. Colpisco l’intruso alla testa con l'impugnatura della Taurus, una, due, dieci volte e lo faccio così forte che vedo le stelle e il dolore alla mano mi sfianca e allora penso ai maledetti farmaci che non sono in camera

Codeina, cortisonico, tranquillanti.

Colla.

Sul comodino c’è n’è un tubetto di quella tenace, buona da sniffare quando i blister delle compresse sono tristemente vuoti.

Ma tengo duro, resisto.

Contraggo tutti i muscoli e divento roccia insensibile finendo col rompere il mio giocattolo ma la soddisfazione è tanta quando il sangue sgorga dalla testa ferita e mi cola in bocca.

Dolce e tiepido.

Il secondo corpo ha braccia di acciaio. Mi afferra le caviglie e il dolore al piede si ripresenta, atroce come la prima volta e con lo stesso gatto infuriato che si arrampica e riduce i miei testicoli in frattaglie.

Tira con scossoni decisi e io provo a limare i gradini con la mia spina dorsale ma quelli hanno spigoli di marmo e nessuna intenzione di delicatezza e mi ritrovo sotto il peso del maledetto che ho sistemato per le feste. Lo sento scivolarmi in faccia fino a quando non mi appare il brutto muso di quell'altro ed è una visione orribile.

Ha denti su denti, in file parallele come un lupo mannaro e un alito da discarica e ruggisce come un mostro. Circonda il mio collo con il risultato di accendere nuovamente quell'emicrania da manicomio e non so come, gli rifilo un cazzotto che gli stacca una mezza dozzina di denti dal palato, che vengono giù come la ghiaia ribaltata dal cassone e assieme a loro un'immonda cascata di saliva, schegge d'osso e pezzi di gengiva e quell'odore che sa di putrefazione, ma è troppo tardi.

L'orribile muso mi infila una lama nella giugulare.


L'olandese che mi aveva venduto il vinile di John Coltrane, portava quell'introvabile maglietta con la serigrafia di una testa passata a raggi X. Non la dimenticherò mai e ammetto, gliela avevo invidiata e a nulla erano valse le ricerche per trovarne una uguale.

Quando apro gli occhi, la maglietta è appesa al muro.

Quello che mi era saltato addosso per primo è chino sul piano di una scrivania spartana, con quattro tubi piegati a macchina a fungere da gambe e un piano di formica consumata, posato su un gracile telaio sopra un unico cassetto. Sta scrivendo a mano. Sbarra caselle e compila moduli con la diligenza di un pensionato in fila alle poste e si gonfia la guancia con la lingua. Ha un ematoma sulla tempia e i capelli imbrattati di una poltiglia biancastra.

Ero convinto di avergli fatto molto male e giuro, alla prossima occasione mi comprerò una pistola più robusta.

Il secondo uomo, quello brutto come la morte, mi dà le spalle e fissa il muro dove c'è qualcosa appeso accanto alla maglietta del venditore di dischi usati. Ha il gomito sollevato perché si sta grattando il mento e di tanto in tanto lascia scorrere la mano sul collo dove esercita un massaggio dalle parti della nuca. Io sono legato a un tavolo che gratta come l'asfalto logoro di una vecchia strada e mollo tutto. Al diavolo la dignità. Mi interessano solo due cose:

“Cosa avete fatto a mia moglie? Chicco dov'è?”

Mi risponde senza girarsi mentre il compare con i capelli imbrattati continua a scrivere.

“Li vedrai quando comincerai a comportarti meglio.”

“No, li voglio vedere adesso!” la voce ricorda lo stridore del verso di un gabbiano. “Voglio sapere come stanno.”

L'uomo che scrive smette di farlo, indossa gli occhiali e mi guarda. Dietro le lenti spesse, gli occhi stanchi e acquosi sembrano un paio di sassi scuri immersi nella boccia del pesce rosso. Torna al suo lavoro e lo sento bisbigliare.

“Ferite lacero contuse alla testa, di lieve entità. Stato di confusione.”

Le corde che mi tengono prigioniero, tagliano, e sento che sta per ricominciare il dolore nel cranio ma mi consolo: devo avere dormito un bel po' perché fuori è giorno. La luce del mattino, che si accompagna alla plafoniera accesa e piena di mosche morte, filtra dai vetri smerigliati di una finestra posta sulla parte alta della parete e proietta le nostre sagome sul fondo della stanza e addosso a una robusta libreria in metallo. L'uomo di spalle si gira e vedo che ha il labbro spaccato, medicato con una pomata oleosa e gonfio come una biglia da spiaggia. Mi guarda male e subito prende una borsa del ghiaccio nascosta di fianco allo scribacchino. L'appoggia sulla ferita mentre si intuisce nello sguardo una smorfia. La voce è impastoiata e pare che si succhi la lingua.

“Così non possiamo andare avanti, lo sai?”

“Fatti vedere in faccia, bastardo!”

Lo fa e accenna un sorriso storto. Ha le gengive coperte di sangue e un dente di troppo che si è fatto strada fra gli incisivi.

“Sei contento di quello che hai fatto?”

Piango.

Lo faccio perché sono un incapace e non ho avuto le palle per ucciderli e perché non ho idea di dove siano i miei cari. Il pensiero mi coglie alla sprovvista e l’immagine di un paio di cadaveri si delinea nella mente: potrebbero essere morti a causa della mia inettitudine. Poi ancora quell'emicrania che scompagina la ragione.

L'uomo con il labbro macilento apre un cassetto e sfila una busta dal suo interno. È di un giallo tenue che ricorda le raccomandate con le cattive notizie e contiene quello che sembra un referto medico. Legge le prime righe, sottovoce, mentre tento invano di interpretare i labiali ma è come cercare di comprendere le parole di una radio rotta.

“Il professore è d'accordo. Tentiamo l'intervento...”

“Prima voglio vedere Veronica e poi mio figlio e dobbiamo stare insieme tutto il giorno.” urlo e uno stiletto sembra attraversarmi il cranio, da una parte a quell'altra.

Paracetamolo, sali di lisina, procaina.

Whisky.

Colla.

Mi rendo conto: non deve essere facile parlare se ti hanno rifatto i connotati a pugni e allora mi sforzo di non ridere quando labbro a biglia cerca di farsi capire.

“L'ultima volta che ti abbiamo lasciato solo con tua moglie e tuo figlio, hai provato ad ammazzarli.”

Ricordo bene ma per la miseria! Veronica aveva le pupille da rettile e agitava una lingua biforcuta e non faceva niente per nasconderla e Chicco, accidenti a lui, parlava in aramaico!”

Mi ignora. “È un'operazione complicata e rischiosa ma abbiamo il dovere di tentare.”

“Perché non crepi, ladro, schifoso topo d'appartamento!”

“Perché se crepo io, qui dentro non ci sarà più nessuno che ti sopporta.”

“Sono bravo come un'ostia!”

“Certo, come no, guarda come ci hai ridotti!”

“È appena quello che vi meritate!”

Lo scribacchino si fa sentire.

“Ma certo! Hai tentato di uccidermi impugnando una banana e mi hai riempito i capelli con questa specie di frappè!”

“Era una pistola, una maledetta rivoltella brasiliana!”

Già, con i nei sulla buccia che ogni notte crescono un po'.

“Non comprerò mai più una Taurus. Molto meglio le nostre belle armi italiane!”


L'uomo con il labbro maciullato si avvicina e si china su di me. Sono capaci tutti a fare gli smargiassi quando l'interlocutore è legato al tavolo. Ha l'alito che sa di sangue raffermo e ho la sensazione che nessun dentista sarà capace di salvargli quel canino.

“All’ultimo giro hai distrutto la mensa, ciccio. Non è che l'istituto ha i soldi per costruirne una nuova ogni volta che scendi per mangiare un boccone...”

Solo per avere rovesciato un paio di tavoli e il pentolone con il passato di verdure. Hanno uno strano concetto di “distruggere” in questo posto. Insisto.

“Come sta Chicco?”

Mi accarezza fra i capelli e ne approfitta per puntarmi una luce negli occhi. È la stessa piccola torcia che teneva in bocca mentre tentava la sorte con la combinazione della cassaforte.

“Bene, e grazie a te. Male, e sempre grazie a te.”

Sento il cuore che diventa di burro e non mi vergogno se piango ancora.

“E Veronica?”

“Tutto ok, e per merito tuo, ma non manca molto al giorno che si rassegnerà a trovarsi un altro compagno.”


Lo so, ora è tutto chiaro.

I miei momenti di lucidità sono sempre più rari e durano meno del solito e ho capito che fra poco mi abbandoneranno per sempre. Adesso ho visto gli occhi buoni del dottore e non è vero che ha la bocca piena di denti come IT, semplicemente non ha mai voluto levarsi quell'incisivo in più che lo rende così particolare. Dopotutto è pieno di donne, lui, anche se quando ti inietta il sedativo nel collo, finisce col farlo sembrare a una coltellata.

Lascia la stanza e il collega lo segue. Sono a pezzi tutti e due e non è la prima volta che li pesto come si deve. Non è facile lavorare la notte in questa clinica e lo riconosco, ho complicato le cose un po' a tutti e sono stato io a incollare l'anta dell'armadietto dei sedativi. Altro che cassaforte!

Lasciano la luce accesa, cominciano a confabulare ancor prima di abbandonare la stanza e una volta fuori si scambiano pareri a voce alta. Quel corridoio deve intendersi di matti più che la facoltà di psichiatria.

Mi guardo intorno e vedo che al posto della maglietta del venditore di dischi c'è la lastra del mio cranio, illuminata da dietro come si conviene e accidenti, come si vede bene quel proiettile! È un calibro nove e brilla come un diamante.

Sono otto grammi, incastrati fra l'osso parietale e la materia cerebrale, ben sistemati fra i due emisferi, culo e camicia con i vasi sanguigni e le cellule nervose.


Il mio peso nella testa.


Pur nel fumo fitto e nella confusione, quel maledetto ladro, prima di morire per mano mia, era riuscito a piazzarmelo proprio lì, come se avesse parcheggiato l'auto dopo averci studiato per un bel pezzo.

E dire che il buco nella fronte, anche grazie a una placca di titanio e a quel piccolo trapianto di pelle presa a prestito dalle mie chiappe, è guarito alla perfezione ma il mio chiodo fisso, come amo chiamarlo per sdrammatizzare la situazione, è rimasto lì e da qualche anno provoca più cortocircuiti di una banda di ragazzacci che pisciano nel trasformatore e allora basta, giochiamo ancora una partita, speriamo che il mazziere distribuisca le carte buone e aspettiamo il carpentiere volenteroso che provi a sfilarlo via quel chiodo, e con un buon martello disinfettato a dovere.

Come è entrato, dovrà pure uscire.

A cose fatte, e finalmente, potrò farmi una bella dormita.


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