LE PALLE DI NATALE
(il seguito e
la conclusione di Due ore di ritardo e Gli amanti pericolosi)
Scappa scappa c’è il barbone
Brutto nero ed accattone
Se ne va e lascia la borsa
Scappa e prendi la rincorsa.
La moneta cadde, e andò a
sbattere con un rumore sordo insieme a quelle altre.
Sotto la stoffa lercia di
quello che rimaneva di un cappello da pescatore, il senzatetto si era premurato
di metterci uno straccio piegato in due, per evitare che l’inconfondibile
tintinnio dei soldi potesse solleticare l’orecchio di qualche malintenzionato.
Seduto su di una serie di
toppe sovrapposte fra loro, occupava solo un terzo di quel largo marciapiede e
l’alone del suo cappotto lacero era ormai impresso sul ricordo di giallo Torino
che avanzava sul muro. La filastrocca cretina gli stava suonando in testa
come un antifurto guasto, ma era simpatica, dopotutto. Aveva provato a cantarla
su base train blues di dodici misure e anche adattandola a un gipsy jazz e, in
tutti due i casi, l’arrangiamento lo aveva divertito.
Era antipatico non
alzarsi di fronte a una signora, lo sapeva, ma sotto quella coppola di lana e dietro
quella barba lurida c’era la faccia di un uomo che ormai non si vergognava più
di nulla, e da un bel po’.
«Grazie, grazie di cuore,
Sara!»
Lei prese dalla borsa il
solito paio di pacchi e li porse al senzatetto.
Come ogni giorno, come da
alcuni giorni a quella parte, l’uomo raccolse il primo dei due, lo mise nella
sacca di juta accovacciata alla sua destra e aprì immediatamente l’altro. Un
odore di formaggio fresco, misto a pane di giornata, lo fece intenerire. Ne
addentò subito un boccone e sollevò lo sguardo in segno di gratitudine. Sara si
chinò, sfiorando il marciapiede con il loden verde militare. Non c’era nessuno
lì intorno, ma per prudenza sussurrò.
«Non ti abbuffare, però!»
Ebbe in risposta solo un rumore di mandibole. «La prossima volta ti porto anche
un po’ di vino, per buttare giù il boccone…»
Annuì, o almeno fu quello
che le sembrò di interpretare nello sguardo.
Alle sue spalle la città
si stava avventurando incontro all’ennesima lunga notte invernale, con le case
in lontananza vestite con uno scialle di luci colorate e una discutibile
bigiotteria di pendagli elettrici, sistemati ai balconi secondo l’estro del
momento. I Babbo Natale, appesi alle finestre come fossero impiccati, sancivano
la definitiva morte del buon gusto e dal traffico si levava una nube grigia e
compatta, stesa come un sudario su quelle vite tutte uguali.
Il pezzo di strada fino
al cancello lo percorse rasentando il muro.
Incrociò l’avvocato, un
uomo tutto ossa e con le spigolosità del viso che sembrava volessero tagliare
la pelle. Aveva addosso un disgustoso giaccone blu con pelliccia di cane, delle
scarpe trovate in un pessimo negozio e una borsa in pelle marrone con angolari
metallici di rinforzo. Una testimonianza di oro era rimasta sulla serratura a
combinazione e sulle cerniere della maniglia. Si disse che lei avrebbe potuto
fare meglio, solo buttando i resti di un sacco della raccolta differenziata
addosso ad un palo in mezzo alla campagna. La voce uscì come da una radio
rotta.
«Signorina Sara,
buonasera.» Porse la mano ma ebbe in cambio un’occhiataccia. «Ho visto adesso
il mio assistito e ci sono buone notizie…»
«Ma davvero! E quali?»
L’avvocato si mise alla
ricerca della cartellina all’interno della borsa. Lo fece goffamente e una
biro placcata argento cadde rimbalzando sull’asfalto. Cercò di individuare
negli occhi di Sara il permesso di raccoglierla ma non lo colse. «Possiamo
portare in appello la sentenza della corte d’assise. Mi spiego…»
«Cosa vuoi portare in appello?»
«La sentenza della corte…»
«Tu vuoi portare in appello la sentenza di tre
ergastoli?»
Gli occhi si strinsero
come se si aspettasse un ceffone. «Possiamo sempre chiedere l’infermità
mentale…»
La mano fu talmente
veloce che si infilò sotto la giacca e andò ad attorcigliare assieme i peli del
petto, che crescevano generosi dietro la camicia. «Tu sei infermo di mente, piccolo
inutile avvocato fallito! Ti dovrei appendere come palla all’albero del
quartiere. Ti piace l’albero del quartiere?» Si girò in direzione della
muraglia di palazzoni grigi che decretavano l’inizio della città. Le luminarie
si erano accese da poco e spiccavano in altezza sulla colonna rossa dei fari in
attesa al semaforo.
«Oh, un gran bell’albero!»
Si fece ancora più seria «Vattene!»
Fece un primo passo
indietro.
«Ho detto vattene!»
Quando fu a distanza di
sicurezza mise una mano avanti con il palmo spalancato. Era la ricerca di una
trattativa che non poteva sicuramente decollare.
«Sei ancora qui?»
Non rispose. Si girò in
direzione del parcheggio e attraversò la strada senza aspettare di raggiungere
le strisce pedonali. Un’auto lo sfiorò assieme a una bestemmia.
Quando arrivò alla sua Range
Rover azionò il telecomando per l’apertura automatica delle portiere.
La fioca luce che le
frecce proiettarono in terra, sebbene solo per un paio di secondi, fu sufficiente per
fargli l’anteprima di una delle quattro gomme squarciate
La cosa peggiore del
carcere era il muro perimetrale che non finiva mai.
Per prudenza le auto dei
visitatori dovevano essere parcheggiate lontane e, tutto il tratto di strada da
percorrere prima di arrivare alla porta, lo si faceva zigzagando fra buche,
feci di cane e lordure di orina che colavano dalle pareti. Il barbone, l’unico
di tutta la zona e stranamente tollerato dalle guardie carcerarie, aveva ottenuto
con la sua presenza di fare desistere i cani nell’alzar la gamba e gli umani
nello sbottonarsi la patta. Era per quel motivo che Sara lo premiava, ad ogni
passaggio e con pietanze di volta in volta diverse.
La sala colloqui del
carcere era affine in qualche modo ad un ufficio postale degli anni '70:
barriera di vetro antiproiettile, parlatorio protetto da una fitta rete di
ferro e tante sedie allineate lungo una fila che sembrava non finire mai. La
luce forte alterava i tratti dei colloquianti, che spesso stentavano a
riconoscersi da una parte e quell’altra del cristallo.
Quel giorno il locale era
pieno più del solito, vuoi per la prossimità del Natale, vuoi per il freddo,
che intristiva i detenuti al punto tale che sollecitavano più visite possibili.
Diego si presentò pettinato di tutto punto e con la barba appena revisionata
con mano ferma. La tuta arancione, osservò Sara, gli stava un po’ larga di
spalle e cadeva con un’insopportabile grinza proprio all’altezza dell’ombelico.
Quando Diego passò dinanzi alla guardia, questa le riservò un mezzo sorriso
strappato al protocollo.
Si mise a sedere
dall’altra parte della barricata, accomodandosi su uno sgabello tenuto malignamente
basso. L’istinto di scambiarsi un saluto toccandosi le mani fu forte, ma il freddo
del metallo non fece che aumentare la
frustrazione. A fianco, un ometto tutto nervi e senza un solo capello in testa,
conferiva con la figlia di certi sviluppi della sua condanna per rapina.
Gesticolava nervosamente e spostava più aria di un ventilatore. Dalla parte
opposta, e per fortuna, una seggiola vuota. Diego si lasciò andare verso quella
direzione.
«Come va, amore?» Chiese
lui, fingendo che la sua condizione di ergastolano non gli stesse pesando
affatto.
«Oh una meraviglia, caro!
Fra una settimana è Natale e non so con chi lo passerò. A pensarci bene
fra due settimane sarà capodanno, e anche lì non saprò chi mi farà compagnia…»
«Mi dispiace, amore…»
«Ma di cosa? Certo, se
non ti facevi prendere era meglio, che dici?»
Diego si guardò le
spalle. La guardia stava sbadigliando senza essersi messa la mano davanti alla
bocca. Se avesse insistito ancora un po’, pensò lui, gli sarebbero saltati i bottoni
della camicia.
«C’è un odore
schifosissimo da questa parte…»
Lei sembrò risentita. «Be’,
anche dalla parte delle persone libere sembra che non sia la pulizia la prima
preoccupazione anzi, la vedi quella signora?» Indicò una donna sotto un
cespuglio di capelli indomabili. «Prima di entrare si è fumata una canna, l’ho
vista io. Era talmente carica che quando è passata alla porta ha fatto scattare
sull’attenti tutti i cani antidroga. Poveri, se avessero saputo che la signora doveva
solo farsi uno shampoo, non si sarebbero dati tanta pena…»
Lui riconobbe il
detenuto. Stranamente era dentro per spaccio.
«E comunque c’è un odore
schifosissimo!»
Lei si avvicinò al vetro.
«Ho capito, ma cosa c’entra?»
«Niente, non capisci. È
un diversivo. Fino che stai a lamentarti è tutto regolare, le guardie non ti
controllano. Qui dentro tutti si lamentano!»
«E allora lamentati del
cibo!»
«ssst. No, quello no! Chi
si lamenta del cibo viene messo in cattiva luce …»
«E da chi?» Sussurrò lei.
Si guardò intorno. «Il
cuoco, pare che abbia più autorità del direttore…»
«Il cuoco?»
«Certo! Qui dentro è un
mondo all’incontrario e comanda il cuoco!»
«E che succede se ti fai
nemico il cacchio di cuoco?» Domandò lei, e nel farlo si disegnò un sorriso
artificiale in faccia. Era sicuramente il primo di quel giorno, della
settimana, del mese e probabilmente dell’ultimo anno.
«Non giochi più a
pallone…»
Questa volta si lasciò
scappare una risata sonora. «Ah, quindi il cuoco è il commissario tecnico del
braccio B?»
Liquidò la questione
facendo attenzione a non alzare la voce. «Più o meno sì, niente cuoco niente
partita. Nemmeno in panchina puoi stare…»
«E tu sei nelle grazie
del cuoco, amore?»
Si toccò il petto
orgoglioso. «Titolare!»
«Wow! E in che ruolo?»
«Portiere.» Rispose lui,
lasciando che la tristezza arrivasse intatta dall’altra parte del parlatorio.
Sara fece uno sforzo. Pur
non essendo il calcio la prima delle sue passioni, e sapendo che non erano i
classici ventidue uomini in mutande a rincorrersi in un prato la sua ragione di
vita, si ricordava che il suo amante aveva giocato a pallone talvolta, di
solito distruggendo con gli amici un bel prato di margherite in montagna, ma
sempre ed esclusivamente nel ruolo di attaccante.
«Tu sei una pippa come
portiere!»
«Lo so! Però è l’unico
modo per stare a lungo nel cortile…l’ora d’aria, capisci di cosa parlo?»
«Ma la partita non dura
novanta minuti?»
«No, qui un’ora. Mezz’ora
per tempo…Inizia alle quattro del pomeriggio e finisce alle cinque. Tutti i
giorni di tutti i mesi di tutti gli anni che passano in questa topaia.»
«E tutto questo perché
l’ha deciso il cuoco…»
«No! Ma che c’entra il
cuoco. Il ministero dell’interno l’ha deciso!»
«E scommetto che voi
cambiate campo nell’intervallo?»
Si fece serio «Naturalmente,
ecchecazzo!»
Dalla porta del
parlatorio sbucò un detenuto. Sui cinquanta, giovanile, tonico e con una faccia
decisamente da sberle. Era rilassato e sapeva portare la tuta del
carcere con una certa disinvoltura. Entrando salutò Diego con un sorriso, senza
levare le mani di tasca. La moglie l’attendeva dall’altra parte, paziente e con
un paio di libri da leggere tenuti in grembo.
«Ti sei fatto il
fidanzato, Diego?» Domando lei trattenendo a fatica una risata.
«Ma va, è simpaticissimo!
Gioca sempre a calcio contro di me e mi fa spesso gol…ha una castagna terribile
di destro, e anche di mancino non se la cava male!»
«E la cosa ti fa piacere?»
Lui avvicinò la bocca al
vetro, come se non volesse farsi sentire da nessuno. Lei, che vide la guardia
scaccolarsi, non temette un richiamo. «Non c’è la rete come nel calcio vero. La
porta è disegnata sul muro e, se la
palla passa, spesso ti rimbalza direttamente nelle chiappe…»
«Capisco, e per quale
motivo è in gabbia costui?»
«E’ un NO TAV…»
«Urca, e cosa avrebbe mai
fatto?»
Mise la mano di fianco
alla bocca. «Teneva una pagina di satira con degli amici, una cosa che andava.
Un giorno, pare, ha fatto una battutaccia sugli sbirri e tac, processato per
direttissima…» La mano di lei si strinse in un pugno.
Dispiaciuta chiese altre
notizie. «E come si chiama?» intanto che al suo fianco si stava accomodando la
mamma di un camorrista con una borsa piena di santini da appendere in cella.
«Ziggy.»
«Che cavolo di nome è?»
«E’ uno pseudonimo…»
«L’avevo capito sai? Da
dove arriva, voglio dire, chi avrebbe ispirato quel nomignolo da barboncino?»
«Arriva da un disco di
David Bowie, Ziggy Stardust.»
Un cicalino elettronico
interruppe la conversazione. Molte mani tentarono di toccarsi attraverso il
grigliato, baci simulati passarono simbolicamente il vetro. I santini del
camorrista vennero fatti abilmente passare sotto la paratia.
Sara se ne andò, con un
po’ di puzza di galera addosso e nessun progetto per la cena.
Non vedeva Federico da
quella volta in tribunale.
Era stato un giorno dai
contorni onirici e drammatici nello stesso tempo.
Diego, con la faccia che
portava il marchio di tante botte, era alla sbarra degli imputati, accusato
della strage sul treno in ritardo. Lei aveva assistito come spettatrice.
Unico testimone,
sopravvissuto a quel momento di libera ispirazione fra i vagoni del convoglio, Federico era stato curato e rimesso a nuovo. Appena in grado di parlare aveva collaborato nella stesura di un identikit
piuttosto preciso e aveva confermato, in un confronto all’americana, che Diego (messo
in mezzo a un paio di poliziotti, al barbiere dell’angolo e ad un
bibliotecario di mezza età con i segni di un labbro leporino operato male) era
stato l’unico e solo responsabile dei delitti sul treno. Il processo era stato
celebrato talmente in fretta che i giornalisti non avevano nemmeno avuto tempo
di organizzarsi.
L’avvocato difensore,
incompetente omuncolo assegnato d’ufficio, si era distinto per la sua
incapacità e la micidiale somma di pigrizia e ignavia. La rabbia dei parenti delle vittime, inoltre, era stata tale e tanta che gli elementi a
discolpa non erano stati nemmeno esaminati. I tre colpi di martello del giudice
avevano sancito altrettanti ergastoli. Insomma, la serratura era stata chiusa e
la chiave buttata via.
Federico usciva da un
negozio di scarpe con un paio di ingombranti pacchi sotto le braccia e un alce
in neon stilizzato dietro la vetrina che lo faceva sembrare il protagonista di
un brutto film americano. Sbuffando vapore acqueo come una vecchia locomotiva,
si apprestava ad attraversare la strada,
messo al sicuro da un giubbotto antinfortunistico con due grosse bande
fosforescenti incrociate sulla schiena. Dall’altra parte lo aspettava la mamma,
canuta, piccola e curva e con i piedi amorevolmente corti. Era l’esatto
contrario del suo figliolo, che doveva avere girato tutta la città alla ricerca
di qualcosa che abbinasse i suoi gusti con il suo numero quarantasei. La faccia
provata dimostrava la tesi.
Sara lo seguì fino a casa
sua, attese che la mamma si ritirasse all’interno e si confuse col buio. Il
loden verde oliva si rivelò perfetto per la circostanza ed i tacchi dodici si
erano adagiati sul selciato, discreti come i gommini di un gatto.
Con le scarpe nuove nei
piedi, lucide come una limousine in affitto, lo vide aggirarsi attorno all’auto
parcheggiata nel vialetto, alla ricerca di un difetto. Pensò che, in fondo,
trovare delle magagne alla carrozzeria di un’utilitaria non esigeva una visita
tanto accurata. Lo vide fermarsi all’altezza del portellone, come se avesse fiutato la sua presenza.
Smise di respirare.
Federico l’aveva
risparmiata, animato da un’incomprensibile e perversa forma d’amore. Aveva
deciso di dimenticarsi di quella stilettata nel fegato e della sua passeggiata
nei corridoi del treno, ridotto come un verme rimescolato dall’aratro. Se ne
era dimenticato ancor prima che il pubblico ministero lo interrogasse. Nessuna
stilettata, nessuna complice.
Lei era libera grazie a
lui e sapeva che lo sarebbe stata sempre.
Solo che una promessa va
mantenuta e quella, in particolare, l’aveva fatta con le mani di Diego
nelle sue: l’ultimo indimenticabile
contatto prima che le serrature del penitenziario cominciassero a sferragliare.
«Me lo devi ammazzare quello!»
Promise in silenzio che
l’avrebbe fatto.
La mamma di Federico
stava preparando la cena.
Lo si capiva dai vetri
della cucina che si erano rapidamente appannati e che adesso cominciavano a piangere.
Il parlatorio del carcere, quel giorno, odorava di soffritto di cipolle.
Sara non si chiese il
perché di quel fenomeno. Si limitò ad attraversare l’atrio e a raggiungere
Diego, già seduto sotto un ciuffo geometrico trattato a gel e dietro ad un
sorriso intatto, per niente alterato dalle durezze della detenzione. Quattro
posti oltre c’era Ziggy, il NO TAV calciatore. Restituiva alla moglie in visita
i libri già letti in cambio di un tomo da mille pagine almeno. Si chiese come avrebbero
fatto i vigilanti a controllare il contenuto del testo, se fosse imbottito di
istruzioni in codice utili a evadere o a fare fuori il capo dei secondini
mentre sorseggiava un caffè alla macchinetta.
«Amore.»
«Benvenuta. Sei radiosa
oggi! Ho un mucchio di cose da chiederti.»
Lei si sistemò sullo
sgabello accomodandosi la gonna. «Sentiamo…»
«Quanti giorni a Natale?»
«Due...»
«E con chi lo passerai?»
«Ma con te, amore. Cosa
ne dici di una spiaggia bianca ai confini del mondo? Sole, sale e una foresta in
lontananza incendiata dalla luce? Aggiungerei anche delle onde alte e spumose,
un promontorio di sabbia a nel mare e tanti, ma tanti piccoli
ed incantevoli ristorantini a poco prezzo.»
«È un progetto
meraviglioso» pensò lui per un attimo, concentrandosi su un punto oltre al
vetro. «L’unica perplessità, la vera l’imitazione, quell’ostacolo difficile da
superare, sai qual è?»
«La Digos, l’Interpol,
l’FBI o la Signora in giallo?»
«Ma no! Il costume da
bagno! Il mio è strappato, per esempio. Ti ricordi quella volta…»
Lei mise una mano sul
vetro per censurare il seguito. «Mi ricordo, un po’ dopo che avevamo seppellito
quel cadavere sulla spiaggia » puntò il dito alla maniera dello Zio Sam. «Me la
ricordo eccome!»
Un velo di nostalgia
avvolse il volto di lui come un passamontagna. Dopo un paio di minuti trascorsi
nel silenzio, riprese l’elenco delle domande che aveva in mente.
«Trump sta bene?»
«Un tesoro. L’ho messo a
dieta sai? Adesso sembra un figurino, un felino da sfilata. Pare che non abbia più tutte quelle smanie di
conquista sull’albero di Natale.»
«E Federico, l’hai
ammazzato?»
La guardia di servizio al
parlatorio stava portando avanti un’ispezione alle unghie della sua mano
sinistra, con l’altra appoggiata alla fondina. Alternava il peso su una gamba e
su quell’altra con un certo ritmo regolare. Sara pensò quale musica disco anni '70 avrebbe potuto adattarsi a
quei passi. Ziggy, intanto, sfogliava le prime pagine del libro e recitava
l’incipit come fossero i versi di una poesia.
«Non mi hai risposto.
L’hai ucciso?»
Lei chinò gli occhi scuri
sul bancone e prese ad armeggiare con la borsetta, come una bambina
disobbediente sorpresa a rubare i cioccolatini dalla scorta della zia. Nel
tempo che passò i suoni dell’ambiente arrivarono esasperati dall’attesa.
«L’hai ucciso?»
Lei se ne andò senza
rispondere ed un lampo le attraversò la memoria.
Le sembrò di rivivere
quella coltellata, inflitta con una velocità tale che la lama non aveva nemmeno
avuto il tempo di bagnarsi.
Questa volta il barbone all’esterno la ricevette in piedi.
Dalla parte opposta del
muro si stava svolgendo la partita a calcio, quella che si disputava con le
formazioni dettate dell’umore del cuoco. A giudicare dalla potenza delle
pallonate che si sentivano rimbalzare dall’altra parte, Ziggy doveva avere
scatenato il suo destro e Diego, probabilmente, non riusciva a parare nemmeno
un tiro.
Puzzava meno del solito quella sera, aveva accorciato la barba
e rivoltato la lurida coppola d’ordinanza. Lasciò in terra la sua borsa,
appoggiata contro il muro. Sara s'immaginò la porta da calcio dalla parte opposta, dipinta con la
vernice bianca sull’intonaco macchiato del cortile e il suo amore, piazzato a
braccia aperte per difendere il risultato. A giudicare dalle grida e dalla
polvere che si sollevava oltre ai cinque metri di altezza della recinzione, la contesa in campo doveva essere molto
sentita.
«Cosa mi ha portato
questa sera, signora Sara?»
Frugò nella borsa.
Ne uscirono i soliti due
pacchi, il primo da mangiare per placare i morsi della fame, l’altro da riporre
nella borsa lercia alla base del muro. Questa volta una foglia di insalata
faceva da letto per una fetta di mozzarella, accompagnata da un pomodoro di
serra, rosso come il sangue. Lo addentò prima ancora di ricevere il vino che
era stata promesso. Lei rimase ferma con la bottiglietta in mano, paziente e in attesa che il primo boccone fosse masticato. Senza badare all’etichetta il
senzatetto le rivolse un sorriso pieno di briciole. La città, dall’altra parte
del grosso prato, si stava rassegnando alla notte e l’albero natalizio del
quartiere spiccava come un miraggio. Era ancora spento.
La partita a calcio si
stava evolvendo in rissa. Voci agitate scavalcavano i punteruoli in metallo e
davano l’idea che l’arbitro avesse preso una decisione sbagliata. Il pallone, per protesta, venne scagliato in
alto, e per un attimo fu intravisto a descrivere una parabola sullo sfondo
delle finestre a sbarre.
«Allora, amico, io devo
proprio andare.» Disse lei, adocchiando nervosamente l’orologio da polso. La
lancetta dei secondi sembrava impazzita quel giorno, come se fosse rincorsa da
qualcosa che voleva inghiottirsela. Nascose il quadrante sotto il polsino e si
sistemò la borsetta a tracolla. «Tu cosa fai, vorrai mica passare il Natale sotto questo muro?»
Gol! L’urlo liberatorio
si levò alto dal cortile dell’ora d’aria.
I detenuti della squadra
con la pettorina gialla rincorsero per il campo l’autore della rete, un uomo di
trentacinque primavere con altrettanti anni di galera da scontare. Ziggy e i
suoi, quelli con la casacca azzurra, non l’avevano presa per niente bene. La
palla era già sistemata nel cerchio immaginario del centrocampo e, con le mani
ai fianchi ed un po’ di ansia nel petto,
aspettavano che i festeggiamenti fossero terminati.
Il senzatetto si frugò
nelle tasche. Ne uscirono una ventina di banconote da cento oltre ad un
bellissimo orologio d’oro da uomo, marca Cartier «Sì, credo che passerò il
Natale al caldo per quest’anno. Finisco i panino e me ne vado. Cosa dire Sara,
buon Natale anche a lei, allora…»
Lei non rispose, guardò
con nostalgia il muro sormontato da tutte quelle lame affilate e cominciò ad
allontanarsi incontro alla città.
Era sempre così quando
doveva lasciare Diego da solo, chiuso dentro a quel recinto immondo assieme a
tutti quei pericolosi assassini. Ogni volta, allontanandosi, percepiva una
corda immaginaria, messa in tensione dal suo corpo e legata al suo amore
dall’estremità opposta. Tirava fino allo sfibramento, poi lentamente cedeva all’ineluttabile
destino cui erano legati, spezzandosi.
Si fermò, spalle rivolte
al muro e sensi all’erta. Sentiva ancora
i giocatori che si rincorrevano sul terreno, senza risparmiarsi reciproci
insulti, spallate o calci nelle caviglie.
Chiuse gli occhi.
Immaginò Diego in porta,
con i piedi ben piantati in terra e pronto a quello scatto imperioso per
deviare un pallone indirizzato all’incrocio. Ora il suo amico Ziggy, avversario
in quella circostanza per volere del cuoco despota, recuperava un pallone al
limite dell’area e partiva in contropiede dopo avere messo a sedere il suo
avversario diretto. Il secondo uomo venne saltato con un dribbling secco e
mandato raccogliere le margherite nel campo per destinazione. Aveva ancora un
difensore di fronte a lui, spaurito, indeciso e alla ricerca della
collaborazione dei compagni che non c’era. Erano tutti indietro, tutti sorpresi
da quella ripartenza repentina. Nella rappresentazione beffarda di un ralenty,
vedevano Ziggy andarsene incontro alla porta senza che nessuno potesse opporsi.
Solo Diego, che si spostava da un lato a quell’altro alla disperata ricerca di
una soluzione difensiva.
Sara rimase con gli occhi
chiusi e percepì il senzatetto passarle accanto.
Sembrava puzzare meno del
solito e cantava quella canzoncina che lei le aveva insegnato tanto tempo
prima:
Scappa scappa c’è il barbone
Brutto nero ed accattone
Se ne va e lascia la borsa
Scappa e prendi la rincorsa.
Questa volta era cantata
scimmiottando la musica di un vecchio carillon, una cosa che aveva affinità con
qualche film dell’orrore di altri tempi. Lei la ascoltò in pace con se stessa,
godendosi la ripetizione delle note fino a sentirle scomparire, confuse nel
ronzio del traffico.
Quando aprì gli occhi, il
barbone non c'era più.
Si girò verso il muro.
La borsa, logora e lercia
più del solito, era appoggiata alla
base.
Dalla parte opposta della
barriera, intanto, si stava compiendo il destino della partita.
Ziggy era ormai a tu per
tu con Diego, troppo lontano per essere intercettato, abbastanza vicino da potere
disporre a proprio piacimento di quella porta spalancata.
Il tiro partì come un
missile, potente, preciso e distruttivo.
Quando colpì la parete
alle spalle del portiere questa si disintegrò con un boato, crollando.
L’esplosivo, sistemato
nella sacca del senzatetto, aveva fatto il suo lavoro.
I detenuti rimasero
paralizzati dallo spavento, come se quel gol fosse costato loro la fine di una
carriera sportiva, l’agognata coppa del mondo o altri cinquant’anni da trascorrere
sotto un cielo a scacchi. Il cuoco, incredulo dalla dimostrazione di tanta
potenza, si lasciò crollare sulla panchina con le mani fra i capelli. Era
disperato, perché quel giorno aveva puntato sui gialli la metà della sua
tredicesima.
Il miracolo si era
compiuto. Alle finestre mille mani impugnavano le sbarre, nei corridoi si erano
tutti fermati nella contemplazione di un religioso silenzio, nel refettorio
l’aiuto cuoco attraversava la sala impugnando il foglio della scommessa con il
suo capo. Uscì lasciando basiti i suoi colleghi e sfondando praticamente la
porta con una spallata.
I secondini, confusi dal
fumo e da quel boato che ancora rimbombava nelle orecchie, si organizzarono in
una disordinata risposta, accerchiando i giocatori in campo rimasti a
contemplare il buco nel muro come statue di sale. Inebetiti, ridevano e in
quello stato furono riaccompagnati in cella.
Quando la polvere si
depositò, quando la confusione fu domata e tutti i detenuti furono accompagnati
alle rispettive celle, sia Diego che Ziggy mancavano all’appello.
«Quindi l’hai ucciso
Federico?»
Sara, a braccetto con
Diego, stava contemplando l’albero di Natale del quartiere. Era sicuramente il
più alto in città, in provincia e probabilmente in tutta la regione. Alternava
palle decorate con luminarie: campanelle, stelle e forme geometriche, che
mutavano dal cubo al prisma, dal cono al parallelepipedo, sempre variando in uno spettacolo di colori accesi e variabilmente pulsanti.
Si disse che era
meraviglioso, si disse che era facile non esistere più, semplicemente
indossando delle parrucche e radendosi la barba a favore di un paio di baffi
posticci del tipo “nostalgia dell’ottocento”.
La spiaggia bianca ai
confini del mondo, il sole, il sale, la foresta in lontananza incendiata dalla
luce, le onde alte e spumose, il promontorio di sabbia a perdita d’occhio nel
mare e tanti, ma tanti piccoli e incantevoli ristorantini a poco prezzo, erano
lì, in quel paio di biglietti d’aereo sistemati nella tasca del cappotto.
Era tutto così semplice,
sarebbe solo bastato esibire il passaporto falso all’aeroporto.
Diego era abituato a non
sentirsi rispondere. Non se la prese nemmeno per quella volta.
Obbedì allo strattone e
la seguì, incontro al taxi che aveva appena parcheggiato a bordo strada.
L’autista scese e si mise
in quattro per sistemare i bagagli nel baule ed il portantino sul sedile.
All’interno Trump, contratto in una palla di peli ronfante.
Sara riservò un’ultima
occhiata all’albero di natale più spettacolare di tutta la regione e pensò che
era un peccato averlo rovinato.
Quell’inutile avvocato,
impiccato per i piedi ad uno dei rami più alti, avrebbe presto rovinato la
festa a bambini e genitori, e non aveva nemmeno più il suo prestigioso orologio
Cartier al polso.
Roberto Capocristi
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