Quando me lo dissero rimasi di
stucco, e fui ancora più sorpreso di sapere che l'esimio
collega, dottor Artemio Galandri specialista in endocrinologia e malattie del ricambio, si era avventurato con la moto da trial su un sentiero
troppo scosceso per la sua tecnica di guida approssimativa, era
caduto e aveva evitato che la sua Ossa TR300 gli rovinasse addosso.
La cosa che non era riuscito a evitare, invece, era che il ceppo di
un albero reciso si mettesse in mezzo, interrompendo bruscamente la
sua rotolata verso valle e proprio un attimo prima che un morbido
prato potesse attenuare le sue disavventure. Mi telefonò lui
personalmente, appena dopo l’intervento che gli aveva dato una
risistemata alla milza e con un occhio rosso vivo come quello di
Terminator:
«Mi
terresti aperto l’ambulatorio? Per i mutuati. Puoi scegliere tu
l’orario. Io ne avrò per almeno tre me…»
si interruppe, probabilmente in preda a una fitta di dolore, o messo a tacere dal rimprovero dell’infermiera.
Non mi sembrava possibile! Io,
giovane medico della mutua alle primissime armi, uno studio in
periferia e un numero di pazienti che si contavano sulla punta delle
dita, potevo solo essere lusingato dalla maestosa opportunità che mi
veniva offerta dal collega anziano. Anziano e imprevedibile, perché
tutto avrei pensato di lui, meno che alla sua età cavalcasse potenti motociclette alla ricerca di quel brivido speciale.
Scapolo, pieno di ambizioni e
speranzoso di accattivarmi la stima di qualche suo mutuato in
prospettiva futura, accettai l’incombenza, promettendogli che avrei
dedicato tre ore di ogni pomeriggio per
assistere ai suoi pazienti. Mi feci spiegare come era organizzato il
suo ambulatorio e attesi che la moglie mi portasse le chiavi. Lo fece
la sera stessa raggiungendomi a casa, e assieme al mazzo, fornì
anche un memorandum di prescrizioni utili al buon funzionamento del
lavoro, prescrizioni che comprendevano, fra le altre cose, la
routine necessaria per dotare l’ambiente della protezione antifurto
e di una serie di accorgimenti per il buon funzionamento della
videosorveglianza. Scoprii che, attraverso una telecamera interna, il
collega teneva sotto controllo l’afflusso dei pazienti nella sala
d’attesa, sapendosi regolare sulla durata e solennità di ogni
singola visita.
Il primo pomeriggio mi recai
all’ambulatorio con una ventina di minuti di anticipo rispetto
all’orario delle 14.30, quello storicamente fissato per l’apertura.
Con sorpresa vidi che la solita coda all’esterno si era ridotta a uno sparuto gruppetto di anziani, tutti con la loro brava richiesta
di prescrizione conservata in busta.
Non mi stupii, la voce
dell’incidente al vecchio medico doveva essersi diffusa attraverso
i pettegolezzi e per quel giorno molti malanni dovevano essere
miracolosamente guariti. Mi convinsi che presto avrebbero apprezzato
la mia serietà e preparazione, l’entusiasmo giovanile e, perché
no, la proverbiale cortesia.
La porta dell’ambulatorio si
aprì dopo qualche resistenza, ed ebbi l’impressione che i pazienti
stessero giudicando la mia manualità contando i secondi che
impiegavo per ruotare la chiave nella serratura. Appena vinta la
disputa con quel nottolino capriccioso, feci accomodare i pazienti
all’interno della sala di attesa. Erano in quattro, tre uomini e
una donna. Quest’ultima, dimostrando una certa consolidata
abitudine, andò a sedere sulla poltroncina all’angolo e, senza
guardare, raccolse il numero di una rivista di gossip e l’aprì con
sicurezza nelle pagine centrali, come se fosse tornata apposta per
finire l'articolo lasciato in sospeso quell’ultima volta.
Un altro, un signore obeso che portava sulle gambe almeno settant’anni e il
doppio di chili di peso, sedette occupando due poltroncine e lasciò
che la grossa testa, piena di capelli unti, appoggiasse contro il muro.
Non insistetti nel guardarlo, ma mi parve di vedere un alone di
sporco proprio dietro alla sua nuca. Gli altri si limitarono a lasciare
le richieste di prescrizione nell’apposita scatola e se ne andarono
senza cerimonie. Dalla finestra
dell’ambulatorio, li vidi allontanarsi. Uno dei due mimava la caduta dalla moto del
dottor Galandri e l’altro lo guardava, dispensando una faccia
preoccupata. Si allontanarono, con quello più anziano che indicava
all’altro la posizione della milza.
Non feci in tempo a invitare ad
entrare che già il primo paziente bussava alla porta. Lo feci
accomodare, facendomi trovare in camice dietro la scrivania.
«Buongiorno, in cosa posso
aiutarla?»
Sedette, lasciandosi andare
pesantemente. Vidi un po’ di pancia comparire fra la maglia e i
pantaloni e un’ernia di spigelio fare capolino. Mi sforzai di non
sembrare preoccupato, ma le probabilità che una simile patologia
potesse portare delle complicanze erano alte, almeno nei testi che avevo studiato. L’uomo sembrò leggermi nel
pensiero.
«Sono De Pasquale. Ho bisogno
di farmi consigliare uno specialista» esordì, indicando
l’appariscente bozzo sulla parete dell’addome. «Non sapevo che
il dottor Galandri fosse in ferie…»
«Ah, sì…» Mi astenni
dall’informarlo sull’incidente, sulla moto da trial e su tutte quelle
circostanze piuttosto buffe. L’occhio mi cadde sul monitor: a parte
la signora con il giornale di gossip, la sala d’aspetto si
presentava vuota come un ufficio postale dopo la chiusura. Mi
collegai sul sito del primo chirurgo che mi venne in mente, tenendo
in considerazione il criterio geografico.
«Questo è il dottor Mazzari.
Un giovane collega del quale ho una stima infinita.» Gli sporsi un
biglietto con il numero di telefono. «Lo chiami, prenda un
appuntamento con urgenza. Io lo sentirò questa sera stessa per
ragguagliarlo. Intanto lei eviti di fare sforzi e sollevare pesi…»
«Sono in pensione. Non ho
niente da sollevare!»
«In ogni caso, si riguardi…»
«È tutta la vita che mi
riguardo. Non vede come sono conciato?»
Evitai di abboccare nella
polemica. Mi alzai, tentai di disegnarmi in faccia un sorriso di
circostanza e lo congedai con una stretta di mano.
Fra l’uscita del primo e
l’arrivo della signora passò il tempo necessario a completare la lettura dell’articolo sulla cellulite di una certa
attrice. Approfittai per registrare la prestazione appena conclusa,
ammettendo con me stesso di non avere fatto alcuna fatica. La
paziente si sporse all’interno, con la borsetta stretta in grembo e
l’aria di volersi togliere il fastidio prima possibile. Notai
l’abbinamento strano fra una gonna turchese in fustagno ed una
camicetta gialla a pieghe. Appeso al collo un appariscente crocifisso
in oro ed un ciondolo con la rappresentazione di qualche madonna
nera. Ammisi la mia ignoranza in materia di religione e tentai di
affrontare la visita con piglio professionale. Prima ancora che
potessi salutarla arrivò la domanda che più temevo:
«Galandri come sta?»
Abbottonai il camice e mi misi
seduto. Sistemai la scatola dello sfigmomanometro parallela al filo
del piano di appoggio e feci aprire al computer la pagina con i
mutuati. Fui sorpreso ancora una volta dalla lunghezza della lista.
«Signora stia tranquilla, è in
buone mani.» Questa volta il sorriso mi uscì più ipocrita del
solito e vidi che gli occhi chiari della signora registrarono la
cosa con uno scatto.
«Allora non rientra subito?»
«Subito subito, no…»
Risposi, immaginandomi il collega sotto morfina e immobilizzato nel
letto del centro traumatologico, con la sola prospettiva di vedere
passare una nuvola ogni tanto attraverso lo spazio della finestra.
«Se tutto filerà liscio ne avrà per un paio di mesi.» Replicai,
sapendo di avere abbreviato di un bel po’ il tempo della prognosi.
La tristezza disegnò una ruga nuova sulla faccia che avevo davanti,
complementare al segno di espressione sulla fronte che voleva dire
ansia. Attesi un tempo che mi sembrava giusto perché la signora
potesse elaborare il lutto, quindi posi la domanda di rito.
«Posso aiutarla, signora?»
Vidi gli occhi azzurri perdersi
nella fantasia di colori rappresentata dalle scatole di farmaci
campione racchiusi nell’armadietto a vetro e poi scattare per
decine di volte nei vari angoli dell’ambulatorio, fino a fermarsi
su un particolare che mi era sfuggito. Stava contemplando il
crocifisso che il collega aveva esposto proprio sopra una
cassettiera. Attesi, per il dogmatico rispetto che si deve ai fedeli.
Io, ateo convinto e feroce
sostenitore dell’ortodossia scientifica, sentivo quel simbolo sacro
alle spalle come una minaccia alla mia stessa incolumità, come se da
un momento all’atro potesse staccarsi dalla parete e decapitarmi. Dopo qualche secondo riproposi la domanda.
«Posso aiutarla, signora?»
«Lei è religioso come il
dottore?»
Mi chiese, e io non seppi
mettere in ordine di gravità le due cose, ovvero che mi domandasse
se fossi religioso e poi che non mi considerasse un medico al pari
del collega. Fuori, intanto, era arrivato un nuovo paziente, seduto
nella poltroncina centrale accanto a una vistosa stampella lasciata
appoggiata al muro. Il pover’uomo aveva la gamba interrotta appena
sotto il ginocchio, con i pantaloni lasciati malamente strisciare in
terra. Ma il particolare più fastidioso era una netta deformazione
del cranio, schiacciato da un lato e allungato come quello di un
faraone. Nella fronte si notava uno sprofondamento della dimensione
di una moneta, che la telecamera in bianco e nero faceva assomigliare
a un buco aperto sul buio. Distolsi lo sguardo e mi dedicai alla
paziente.
«Diciamo che la religione non è
la mia principale preoccupazione…»
La signora si mostrò risentita.
«Ma nemmeno il dottore, sa?»
Incassai l’autorete, cercando
di mostrare un minimo di dignità. D’istinto portai la mano destra
al fonendoscopio appeso al collo e lo carezzai, come per sottolineare
il pari grado di istruzione nei confronti del collega anziano. La
signora mise sul piano della scrivania un ritaglio del cartoncino
delle sue pastiglie per l’ipertensione. Riconobbi il nome del
principio attivo e convenni che il collega ci andava pesante.
«Ha bisogno di una nuova
prescrizione, signora?»
«Sì…»
«Bene. Quando è stata l’ultima
volta che se l’è misurata?»
«E’ stato il dottore, un mese
fa.» sbottò.
«Allora la prego, si accomodi
sul lettino che la controlliamo nuovamente.»
Sistemò la borsetta sulla sedia
e sollevò la manica della camicia, avendo cura di arrotolarla con la
massima precisione. Si mise seduta sul lettino e sporse il braccio
con l’entusiasmo che si potrebbe adoperare per ricevere l’iniezione
letale. Finsi di non vedere, arrotolai il bracciale badando a non
chiudere troppo e soffiai aria all’interno. Con mia sorpresa la
colonnina dell’apparecchio scese tantissimo prima che potessi
avvertire il primo battito. Sganciai, sistemai la pompetta con
l’attenzione che si deve verso le cose degli altri e mi misi seduto
alla scrivania. La manica della camicia, intanto, ritornò al suo
stato originale con la medesima lentezza con cui era stata ripiegata.
«Signora, quanto ne prende di
questo farmaco?»
«E’ un diuretico.» Mi
rispose eludendo la domanda.
«È un doppio principio
attivo» spiegai. «Si tratta di un diuretico abbinato con un ACE
inibitore…»
«Il dottore ha detto che va
bene…»
«Lei, signora, ha la pressione
troppo bassa, ma credo che questa sia una buona notizia, no?»
«Una al giorno per tutti i
giorni…»
«100 su 60, alla sua età è un
po’…»
«Ho bisogno di due scatole!»
Fui tentato di rassegnarmi.
«Quante ne ha ancora a casa?»
«Una scatola intera.»
«Bene, signora. Da domani
dimezzi la dose, poi passi a trovarmi fra dieci giorni che valutiamo
la cosa…»
Arrivò uno sguardo carico di
odio, che insieme ad un ricatto morale si insinuò nella mia
coscienza facendomela prudere. Tenni duro: quella paziente si stava
avvelenando per curare una malattia che probabilmente non aveva.
«Ritorni fra una settimana.» Imposi, ritrattando sui tempi per non
affondare troppo duramente.
La signora se ne andò
riservandomi un saluto freddo.
Sospettai che sarebbe andata a
rivolgere le sue rimostranze direttamente al capezzale di Galandri.
Mi resi conto che avevo
cominciato con il passo sbagliato, che in sala di attesa c’era un uomo
che sembrava essere sopravvissuto all’impatto con un TIR, e che
qualcuno si era approfittato per soffiargli il posto. Alla porta un tipo con un
bruttissimo aspetto e la prospettiva che sarebbe stata una giornata
da dimenticare.
Avevo trovato la cartella
clinica dell’uomo in sala d’attesa.
L’avevo rimediata senza
problemi, digitando sulla ricerca ipertestuale del data-base la voce
“amputazione” abbinata alle parole “deformazione cranica”. Le
prime righe che lessi mi diedero l’idea di quello che stavo per
affrontare. Parlavano di un operaio edile di quarant’anni, caduto
dal terzo piano di un ponteggio fatto male. Aveva avuto la malasorte
di trovarsi con la gamba e la testa rimaste malamente incastrate fra
i tubi Innocenti. Nelle righe che seguivano, il collega aveva annotato gli
interventi chirurgici che si erano resi necessari, compreso il
sacrificio della gamba destra maciullata. Tuttavia qualcuno, forse
approfittando dell’handicap del poveretto, lo aveva anticipato,
presentandosi in ambulatorio al suo posto.
Alla vista di quel paziente mi
si srotolò dinanzi l’enciclopedia dei sintomi dello stress.
Pudicamente misi la cartella nel cassetto e lo esaminai
sommariamente.
Presentava una stempiatura
asimmetrica, degli eczemi arrossati sotto l’orecchio e sullo
zigomo, occhiaie pesanti e una magrezza sospetta. Il suo occhio
sinistro si contraeva continuamente, come se tentasse di
trasmettere un messaggio in codice morse. Inoltre un vago odore di
acido arrivò fino al mio naso. Poteva avere trent’anni o poco di
più. Di certo la vita lo aveva asfaltato.
«Non sono un suo paziente,
dottor Galandri.» Esordì, dimostrando di non avere idea di chi
fosse effettivamente il dottor Galandri. Per non caricare la
conversazione di dati inutili, omisi la storia dell’incidente in
moto e della sostituzione, cosa che io stavo cercando di esercitare
degnamente.
Lanciai un’occhiata al
monitor della videosorveglianza e mi resi conto che l’uomo amputato
se ne era andato.
«Vengo per mia moglie. Piange
sempre, non dorme da giorni e credo che questa volta stia crollando.
Ha bisogno di un medico. Sono sicuro, dottor Galandri, che lei la
conosce bene e potrà aiutarla a stare meglio.» Disse, e intanto
fissò il crocifisso alle mie spalle, come se fosse alla ricerca di
qualcosa di più dell’aiuto di un medico. Rimasi ad ascoltarlo
per tutto il tempo che passò a esporre i sintomi della sua
consorte. Non risposi e mi astenni dal commentare. Semplicemente
presi atto della cosa e mi immedesimai in quel caso.
Avrei voluto dirgli che ero il
sostituto di quel posto, e non il titolare. Avrei voluto chiedere
informazioni maggiori sulla sua consorte: se soffrisse o avesse
sofferto in passato di depressione o se fosse reduce da qualche
malattia importante. Tuttavia quella maschera di disperazione che mi
trovavo di fronte mi privò della lucidità necessaria.
La sala d’attesa continuava a essere vuota e l’ora della chiusura non era lontana. Decisi di
anticipare l’orario della serrata, ripromettendomi di tornare in
seguito. L’uomo doveva rientrare al lavoro, incontro probabilmente
alla sua unica e ultima ragione di vita.
Lo congedai con una stretta di
mano e decisi che non avrei fatto rimpiangere il mio collega.
Era un quartiere della prima
periferia, con tante vecchie case popolari ormai riscattate, delle
villette anni '50 ingentilite dal giardino e tanti muri ammuffiti,
memori della storia recente di tutta la città.
Come mi aveva spiegato il
marito, alla casa si arrivava virando a destra, appena dopo
l’esperimento fallito di una chiesa in stile moderno che evocava il
ricordo di una centrale nucleare. Vidi una fila di cassonetti che si
alternavano ai robusti fusti dei platani e poi il cancello, verde e
mimetizzato nell’ombra fresca. L’atmosfera mi sembrò tetra, ma
nulla a confronto del pomeriggio inutile trascorso all’ambulatorio
di Galandri.
Suonai, e i battenti vennero
sospinti verso l’interno da un motore elettrico. Percorsi a piedi
la strada lastricata in pietra.
Sui lati due file di cespugli
ben curati, la grossa mole di un pino marittimo e un albero di noce
proprio prima della facciata, che proiettava sulla terra morta la sua
ombra velenosa.
La casa aveva un tetto a
padiglione, con gli spioventi bassi mascherati da una pantalera
nodosa in legno di abete, la facciata trattata con un intonaco
graffiato color pistacchio e un grosso abbaino, imponente sulla
copertura in coppi. Sui quattro gradini che anticipavano l’ingresso, una traversa in ferro lavorato invitava l’ospite con le suole
infangate a pulirsi. Un cespuglio di ortensie poco lontano invadeva
il passaggio profumando i dintorni. Notai la vecchia grondaia, che a un certo punto secretava il suo percorso tuffandosi all’interno del
muro.
Trovai la porta di accesso
socchiusa. Spinsi il pesante battente e lasciai che il cigolio
precedesse il mio saluto.
Mi accolse la moglie, una bella
donna con meno di trent’anni, le curve appena castigate da una
camicia lasciata fuori dai pantaloni e lunghi capelli neri che
arrivavano alle spalle arricciandosi un po’. Aveva gli occhi
stanchi e un paio di righe arrossate sul lato del volto, come se le
lacrime vi avessero segnato la strada. Il giornale locale aperto sul
tavolo, che parlava dell’incidente occorso al collega Galandri, giustificava
la sua totale assenza di sorpresa nel vedere arrivare a casa sua uno
sconosciuto, armato con una borsa di pelle appena inaugurata e una faccia che doveva sembrare quella di un idiota. Lei non commentò,
indicò una sedia dove potessi accomodarmi e mi girò le spalle per
andare incontro ai mobili della cucina.
Che la casa fosse stata arredata
di recente lo si capiva, dall’odore di nuovo che mi aveva aggredito
le narici e da un impianto interno di sorveglianza che inquadrava in
un grosso monitor le numerose stanze. Mi chiese se volessi un caffè.
«No davvero, signora.
Grazie...Faccia come se avessi accettato.»
Attesi invano una controfferta,
magari un aperitivo. Non arrivò e la padrona di casa andò
ciondolando verso la camera da letto. Notai che, appena entrata,
l’inquadratura si disattivò, sostituita dal logo della ditta che
aveva installato l’impianto. Rimasero attivi gli altri quadri,
sempre vivi su tutte le stanze nella metà dello schermo. La parte
rimanente, invece, alternava le riprese su un ambiente e su quegli
altri.
Si stava cambiando, probabilmente, e io attesi.
Nel bianco e nero smunto delle
telecamere indiscrete, la vista di una cyclette nella camera
matrimoniale faceva a pugni con gli abiti appesi al manubrio: Un corridoio, con una lunga cassapanca sovrastata da un quadro
indecifrabile, pareva lunghissimo e uno studiolo, con un computer in
fondo che brillava su un programma aperto e un pianoforte a muro marca Kawai che
completava la rassegna, con la tastiera chiusa sotto il coperchio.
Sullo sfondo, un po’ in penombra, una serie di cesti in vimini
impilati.
Queste erano le immagini che la
videosorveglianza proponeva, mentre dalla camera si avvertivano
rumori delle ante dei mobili e dei cassetti.
Vidi la cameretta dei figli,
probabilmente al piano di sopra dietro l’abbaino. In un grosso
letto bianco con le sponde, due fratellini di due anni o poco più
stavano dormendo, teneramente abbracciati e con le coperte abbassate
sotto la vita. Uno portava i capelli lunghi, sciolti sul cuscino in
mille boccoli, l’altro succhiava teneramente il pollice. Godetti di
quello spettacolo di pace e amicizia incondizionata e non capii, non
capii proprio quali fossero i problemi che assillavano quella bella
signora.
Sbucò dalla camera con il passo
felpato. Una maglia bianca indosso e dei leggings grigi aderenti
costituivano la divisa che aveva scelto in quei pochi minuti. Notai i
capelli legati e per la prima volta le mani con le unghie morsicate.
Gli occhiali con le grosse lunette rotonde tentavano di ingannare
la tristezza di quel volto, alternando la montatura di tartaruga con
il grigiore della pelle.
«Quindi mio marito sarebbe
passato a cercarlo, nel suo studio?» Domandò.
Risposi con un po’ di
imbarazzo, accorgendomi troppo tardi che stavo gesticolando
eccessivamente. «È passato prima. Era preoccupato per il suo
stato di salute» mi corressi subito. «Per la sua…depressione.
Voglio dire, mi sembra di avere capito che è molto impegnato con il
lavoro e allora…»
«Già, il lavoro…»
Ignorai la vena polemica. «Anche
lui, a modo suo, è stressato, cioè mi è sembrato…» Dissi,
disintegrando il protocollo e la professionalità.
La vidi deglutire, spostare gli
occhiali e strofinarsi le palpebre. C’era qualcosa che consumava
quella giovane vita, e me ne stavo dispiacendo. Abituato a
vedere la sofferenza ogni giorno in puntuale rassegna, l’idea di
una giovane e bella mamma in preda al male oscuro mi spiazzava.
«Mio marito è un povero
illuso. Crede che con una medicina si possa risolvere tutto!»
L'assecondai. «Non è così
purtroppo. Lei dorme bene, signora?»
Un sorriso camuffò senza
riuscirci uno sguardo di compatimento. Ai suoi occhi dovevo essere
sembrato un povero ebete. Provai a mettere il medico davanti
all’uomo; di solito funzionava.
«Vedo molta tensione, i muscoli
del viso contratti e le spalle ipertoniche. Se mi permette il
paragone, mi sembra che si sia dimenticata l’attaccapanni nella
maglia.» Dissi, confidando nel successo della battuta che non
riscossi. «Adesso, se mi consente, misurerei la pressione, asculterei
il cuore e…»
«Dottore» mi interruppe
venendomi incontro. «Le cose sono due: la medicina, le medicine e i
medici non serviranno a nulla, mio marito è un patetico buffone e
lei mi sembra tutto, meno uno che sa il fatto suo.»
Incassai, portando la mano al
mento e sforzandomi di non sembrare nervoso. Un brivido mi attraversò
la schiena dal basso verso l’alto e le mani si gelarono in un
istante. Tutta l’ostilità della donna e la fredda inospitalità di
quella casa mi si riversarono addosso come una colata di cemento.
Tirai i remi in barca e mi
arresi senza combattere. Sarei tornato da dove ero venuto, con un
fallimento professionale e un viaggio non retribuito attraverso
l’ora di punta. Tutto sommato la donna non era in pericolo di vita,
dimostrava una certa, cinica lucidità e non presentava nessun sintomo
apparente di malattie senza appello. Mi alzai con la coscienza messa
a posto, più o meno come si rassetta la cucina all’arrivo di
un ospite inatteso. Il monitor della sorveglianza, intanto, proponeva
ancora l’inquadratura dei due angioletti al piano sopra. Quello
biondo con i boccoli si era messo a sedere sul letto, accanto al
fratellino che cercava con la mano una conferma della sua presenza.
Guardava nelle due direzioni e poi verso la telecamera. Sapevo che
quella tecnologia aveva il difetto di fornire delle riprese scadenti,
ma in quel caso il nero pece dei suoi occhi mi colse impreparato.
Quella donna, dopotutto, aveva
la prospettiva di crescere i suoi figli.
Facendo spallucce porsi la mano
per il saluto. «Signora, io non posso costringerla a farsi visitare.
Tuttavia mi dispiace per l’impressione non buona che suo marito
maturerà nei mie confronti…»
«Mio marito, come le ho detto,
è un povero idiota. Pensa che i problemi si annidino nella salute,
ritiene che ogni cosa abbia una spiegazione logica e che si debba
trovare una risposta a tutto nelle cose di questo mondo. Di quanto la
risposta possa essere stupida a lui non importa. A lui importa solo
di riempire un buco della sua conoscenza con un po’ di aria fritta
a buon mercato.»
«Non credo che la medicina lo
sia…»
«Di fronte ad un vero malato,
no…»
Mi congedai con una frase di
circostanza, pronunciata con l’entusiasmo adatto a leggere la
bolletta della luce. «È stato un piacere.»
«Avrei preferito parlare con
Galandri…»
Già, pensai. Galandri, con
quella flemma e finta cortesia, la sua ambivalenza di medico e
fedele, sempre con un piede in ambulatorio e le mani giunte a pregare
in chiesa. Era il medico che si meritavano e lo avrebbero avuto
nuovamente, fra tre mesi almeno beninteso.
Me ne andai senza più voltarmi,
liquidato come un seccatore e messo alla porta alla pari di un
mendicante. A mano a mano che mi allontanavo da quella casa, sentivo
il sangue irrorare nuovamente le vene e nascere una nuova prospettiva. Andai incontro agli ultimi raggi
di sole e provai sulla pelle la benedizione della loro carezza calda.
Rientrai all’ambulatorio dopo
avere confezionato una versione da fornire al marito quando fosse
tornato per i ragguagli. Dovevo sembrare nello stesso tempo duro e
ineccepibile, serio ma comprensivo:
«Sua moglie si è dimostrata
immatura, poco attenta alle sua salute e incapace di godere delle
gioie della sua giovane età e delle belle prospettive che la vita le
ha riservato. Per ora non mi preoccupa, ma presto questa sua apatia
potrebbe avere delle conseguenze sulla psicologia dei due bambini.
Non escluderei che un giorno possano correre qualche pericolo…Non
mi fraintenda, la prego. Non pericolo inteso in senso letterale,
quanto la possibilità che l’esaurimento della signora possa alla
lunga giustificare qualche disattenzione nei loro confronti…»
Ecco, questo avrei detto.
Formulai il discorso sull’auto,
approfittando dei semafori per ripeterlo a voce, infischiandomene
degli sguardi divertiti dei passanti. Alla successiva fermata
indossai le auricolari del cellulare, che mi autorizzavano a parlare
da solo senza sembrare un pazzo.
Dovevo passare all’ambulatorio,
compilare alcune prescrizioni, chiudere e rientrare a casa mia a
leccarmi le ferite. Passare la sera davanti a una birra a
scansionare l’orizzonte delle donne libere al pub, era la migliore
proiezione di ottuso ottimismo e gioia di vivere che in quel momento
potevo permettermi.
Entrai nello studio del collega
dalla porta posteriore.
La telecamera di sorveglianza
inquadrava l’uomo amputato, lo stesso che qualche ora prima aveva
rinunciato ad attendere. Portava la sua testa deforme come se fosse
stata staccata dal collo e impalata da qualche selvaggio a monito
del nemico, e fissava il muro con gli occhi spenti.
Un caso difficile per finire una
giornata di merda, mormorai.
Per affrontare la cosa con
piglio professionale ritornai alla lettura della cartella clinica,
interrotta dall’intrusione del marito nevrastenico. Era ancora
aperta sul monitor del computer, solo temporaneamente sostituita dal
nero imposto dallo screen saver. Cominciai la lettura dal principio:
Il telefono dell’ambulatorio
si mise a suonare. Risposi, riservando un’ulteriore penosa occhiata
al poveretto in attesa.
«Pronto…»
«Buonasera dottor Galandri.»
Riconobbi la voce. Era il marito
della donna depressa. Ancora non avevo capito che io non c’entravo
nulla con il nome che aveva appena pronunciato e si era appena
smentito, perché ricordo, aveva detto che sarebbe passato di
persona.
«Buonasera a lei. Sono stato
dalla sua signora quest’oggi..» La voce uscì un po’
stridula, suonando ipocrita come mai prima. L’uomo all’altro capo
del telefono mostrò preoccupazione.
«Come le è sembrata mia
moglie? Crede che sia preoccupante?»
«Per correttezza, però, le
devo dire che la visita non ha avuto luogo, e poi occorrerebbe che si
sottoponesse a degli esami del sangue…»
«Si è rifiutata di farsi
visitare?»
Colsi l’occasione al volo.
Avevo preparato un bel discorso e intendevo farne sfoggio. Come se
fosse scattato il risponditore di una segreteria telefonica, recitai.
«Sua moglie si è dimostrata
immatura, poco attenta alle sua salute e incapace di godere delle
gioie della sua giovane età e delle belle prospettive che la vita le
ha riservato. Per ora non mi preoccupa, ma presto questa sua apatia
potrebbe causare conseguenze sulla psicologia dei due bambini.
Non escluderei che un giorno possano correre qualche pericolo…Non
mi fraintenda, la prego. Non pericolo inteso in senso letterale,
quanto la possibilità che l’esaurimento della signora possa alla
lunga giustificare qualche disattenzione nei loro confronti…»
Silenzio.
«Pronto?»
Respiro nervoso e una
vibrazione che avrebbe potuto tranquillamente essere interpretata
come rabbia. Per un attimo temetti il peggio, e quell’attimo durò
meno di quanto avessi desiderato.
«Cosa ha detto, dottore?»
Indugiai. «Che sono preoccupato
per i suoi figli, più che per sua moglie…»
«Dottore, io e mia moglie
abbiamo un solo figlio. Lei non è stato nemmeno attento a quello che
ha visto. Ho la sensazione che, se la sua attitudine all’osservazione
è quella che ha dimostrato, i suoi pazienti saranno in serio
pericolo!»
Il bambino con i boccoli biondi
aveva negli occhi la profondità del buio, ma io l’avevo visto. Era
inquadrato nella camera di sorveglianza e si era mosso come l’altro.
Nessuno di quei due corpi poteva appartenere a una bambola, ne ero
sicuro. Nella cornetta un vociare confuso e un crescendo di parole
non sempre gentili, che lentamente si tramutavano in insulti. Non attaccai ma la mia percezione del tutto si
tuffò nelle profondità di un mare immaginario.
In attesa di trovare una formula
adatta per accomiatarmi da quel maleducato, seguitai la lettura della
cartella clinica del paziente in attesa: