martedì 26 marzo 2024

Omicidio all'Alta felicità




Nel mezzo dell’estate, migliaia di giovani si danno appuntamento al Festival Alta Felicità. Vengono da tutto il paese e da mezza Europa. Si sono sistemati al campeggio e riempiono l’arena degli spettacoli, ballano, si divertono e fanno amicizia.
Ariel, una giovane ragazza romana, è una di loro. Nell’intimità di una tenda che non sa a chi appartiene, si sveglia accanto al cadavere accoltellato di un ragazzo conosciuto la sera prima e fra i capogiri della notte brava e i momenti di lucidità, telefona al Comando dei Carabinieri di Susa e chiede di Elettra, appena promossa Capitano e famosa in tutta Italia per l’indagine sulla strage dei porno attori.
Per Elettra è l’inizio di una giornata frenetica, divisa fra l’esigenza di essere discreti, di non causare il panico tra la folla e la necessità di fermare un assassino che promette di lasciare una lunga scia di sangue dietro di sé.

 


venerdì 10 novembre 2023

Un questione di principio


 

A Bardonecchia è arrivata una comitiva di turisti particolari. È il cast completo di un film a luci rosse. Tecnici e attori hanno preso in affitto una grande villa e si sono chiusi dentro.


Il Tenente Elettra Keita, che da qualche mese comanda la locale Stazione dei Carabinieri, scopre che nella villa si è compiuta una strage e che i suoi quindici occupanti sono tutti morti, uccisi con una pistola impugnata dalla medesima mano. Non ci sono testimoni e non si trova l’arma.


Si mobilitano il reparto scientifico, gli specialisti del reparto investigativo, il medico legale e il responsabile del Comando di Susa  ma Elettra indaga perché vuole risolvere il caso usando il suo intuito e le sue capacità. 


Si sottrae ai rigidi protocolli e non rispetta la catena di comando. 

giovedì 9 marzo 2023

E così vorresti fare lo scrittore?

 




E così vorresti fare lo scrittore?

Se non ti esplode dentro
a dispetto di tutto,
non farlo
a meno che non ti venga dritto
dal cuore e dalla mente e dalla bocca
e dalle viscere,
non farlo
se devi startene seduto per ore
a fissare lo schermo del computer
o curvo sulla macchina da scrivere
alla ricerca delle parole,
non farlo

Charles Bukowski

mercoledì 18 gennaio 2023

Il piano di sotto

 


 


Gabriele Santopadre è un giovane attore di teatro. 

Grazie alla passione per la recitazione è guarito dalle balbuzie che lo perseguitavano da bambino e ora piace, ha successo e partecipa come protagonista a un musical che riempie i teatri di tutto il paese. Alla fine di ogni spettacolo e contravvenendo alle regole, si ritira nel sottopalco per fumarsi una sigaretta, nell’attesa che il corpo di ballo completi la sua esibizione e che lui possa tornare in scena per chiudere la serata con un lungo monologo.

Proprio durante la solita pausa, al piano di sotto, viene avvicinato da Rachele, una donna bella e molto ricca, nota in città per essere la vedova di un collezionista d’arte di fama assoluta e per avere continuato l’attività del marito defunto con il massimo profitto. Complice il rapporto ancora labile con la giovane moglie Giulia, colpevole di avergli rovinato svariati anni di vita cedendo all’abuso di alcol, si lascia sedurre, sebbene Giulia, pur fragile e in preda a labili certezze, sia guarita dal suo vizio.

L’incubo di Gabriele Santopadre comincia quella sera. Qualcuno disposto a tutto per recuperare alcuni preziosi quadri andati apparentemente distrutti, gli chiede di continuare a tradire la moglie frequentando la bella collezionista d’arte, fino a che non riuscirà a procurarsi informazioni utili per sottrarre dal loro probabile nascondiglio le preziose tele. 



mercoledì 9 novembre 2022

Il sostituto

 





In trazione con la gamba rotta.
Quando me lo dissero rimasi di stucco, e fui ancora più sorpreso di sapere che l'esimio collega, dottor Artemio Galandri specialista in endocrinologia e malattie del ricambio, si era avventurato con la moto da trial su un sentiero troppo scosceso per la sua tecnica di guida approssimativa, era caduto e aveva evitato che la sua Ossa TR300 gli rovinasse addosso. La cosa che non era riuscito a evitare, invece, era che il ceppo di un albero reciso si mettesse in mezzo, interrompendo bruscamente la sua rotolata verso valle e proprio un attimo prima che un morbido prato potesse attenuare le sue disavventure. Mi telefonò lui personalmente, appena dopo l’intervento che gli aveva dato una risistemata alla milza e con un occhio rosso vivo come quello di Terminator:
«Mi terresti aperto l’ambulatorio? Per i mutuati. Puoi scegliere tu l’orario. Io ne avrò per almeno tre me…» si interruppe, probabilmente in preda a una fitta di dolore, o messo a tacere dal rimprovero dell’infermiera.
Non mi sembrava possibile! Io, giovane medico della mutua alle primissime armi, uno studio in periferia e un numero di pazienti che si contavano sulla punta delle dita, potevo solo essere lusingato dalla maestosa opportunità che mi veniva offerta dal collega anziano. Anziano e imprevedibile, perché tutto avrei pensato di lui, meno che alla sua età cavalcasse potenti motociclette alla ricerca di quel brivido speciale.
Scapolo, pieno di ambizioni e speranzoso di accattivarmi la stima di qualche suo mutuato in prospettiva futura, accettai l’incombenza, promettendogli che avrei dedicato tre ore di ogni pomeriggio per assistere ai suoi pazienti. Mi feci spiegare come era organizzato il suo ambulatorio e attesi che la moglie mi portasse le chiavi. Lo fece la sera stessa raggiungendomi a casa, e assieme al mazzo, fornì anche un memorandum di prescrizioni utili al buon funzionamento del lavoro, prescrizioni che comprendevano, fra le altre cose, la routine necessaria per dotare l’ambiente della protezione antifurto e di una serie di accorgimenti per il buon funzionamento della videosorveglianza. Scoprii che, attraverso una telecamera interna, il collega teneva sotto controllo l’afflusso dei pazienti nella sala d’attesa, sapendosi regolare sulla durata e solennità di ogni singola visita.

Il primo pomeriggio mi recai all’ambulatorio con una ventina di minuti di anticipo rispetto all’orario delle 14.30, quello storicamente fissato per l’apertura. Con sorpresa vidi che la solita coda all’esterno si era ridotta a uno sparuto gruppetto di anziani, tutti con la loro brava richiesta di prescrizione conservata in busta.
Non mi stupii, la voce dell’incidente al vecchio medico doveva essersi diffusa attraverso i pettegolezzi e per quel giorno molti malanni dovevano essere miracolosamente guariti. Mi convinsi che presto avrebbero apprezzato la mia serietà e preparazione, l’entusiasmo giovanile e, perché no, la proverbiale cortesia.
La porta dell’ambulatorio si aprì dopo qualche resistenza, ed ebbi l’impressione che i pazienti stessero giudicando la mia manualità contando i secondi che impiegavo per ruotare la chiave nella serratura. Appena vinta la disputa con quel nottolino capriccioso, feci accomodare i pazienti all’interno della sala di attesa. Erano in quattro, tre uomini e una donna. Quest’ultima, dimostrando una certa consolidata abitudine, andò a sedere sulla poltroncina all’angolo e, senza guardare, raccolse il numero di una rivista di gossip e l’aprì con sicurezza nelle pagine centrali, come se fosse tornata apposta per finire l'articolo lasciato in sospeso quell’ultima volta. Un altro, un signore obeso che portava sulle gambe almeno settant’anni e il doppio di chili di peso, sedette occupando due poltroncine e lasciò che la grossa testa, piena di capelli unti, appoggiasse contro il muro. Non insistetti nel guardarlo, ma mi parve di vedere un alone di sporco proprio dietro alla sua nuca. Gli altri si limitarono a lasciare le richieste di prescrizione nell’apposita scatola e se ne andarono senza cerimonie. Dalla finestra dell’ambulatorio, li vidi allontanarsi. Uno dei due mimava la caduta dalla moto del dottor Galandri e l’altro lo guardava, dispensando una faccia preoccupata. Si allontanarono, con quello più anziano che indicava all’altro la posizione della milza.
Non feci in tempo a invitare ad entrare che già il primo paziente bussava alla porta. Lo feci accomodare, facendomi trovare in camice dietro la scrivania.
«Buongiorno, in cosa posso aiutarla?»
Sedette, lasciandosi andare pesantemente. Vidi un po’ di pancia comparire fra la maglia e i pantaloni e un’ernia di spigelio fare capolino. Mi sforzai di non sembrare preoccupato, ma le probabilità che una simile patologia potesse portare delle complicanze erano alte, almeno nei testi che avevo studiato. L’uomo sembrò leggermi nel pensiero.
«Sono De Pasquale. Ho bisogno di farmi consigliare uno specialista» esordì, indicando l’appariscente bozzo sulla parete dell’addome. «Non sapevo che il dottor Galandri fosse in ferie…»
«Ah, sì…» Mi astenni dall’informarlo sull’incidente, sulla moto da trial e su tutte quelle circostanze piuttosto buffe. L’occhio mi cadde sul monitor: a parte la signora con il giornale di gossip, la sala d’aspetto si presentava vuota come un ufficio postale dopo la chiusura. Mi collegai sul sito del primo chirurgo che mi venne in mente, tenendo in considerazione il criterio geografico.
«Questo è il dottor Mazzari. Un giovane collega del quale ho una stima infinita.» Gli sporsi un biglietto con il numero di telefono. «Lo chiami, prenda un appuntamento con urgenza. Io lo sentirò questa sera stessa per ragguagliarlo. Intanto lei eviti di fare sforzi e sollevare pesi…»
«Sono in pensione. Non ho niente da sollevare!»
«In ogni caso, si riguardi…»
«È tutta la vita che mi riguardo. Non vede come sono conciato?»
Evitai di abboccare nella polemica. Mi alzai, tentai di disegnarmi in faccia un sorriso di circostanza e lo congedai con una stretta di mano.
Fra l’uscita del primo e l’arrivo della signora passò il tempo necessario a completare la lettura dell’articolo sulla cellulite di una certa attrice. Approfittai per registrare la prestazione appena conclusa, ammettendo con me stesso di non avere fatto alcuna fatica. La paziente si sporse all’interno, con la borsetta stretta in grembo e l’aria di volersi togliere il fastidio prima possibile. Notai l’abbinamento strano fra una gonna turchese in fustagno ed una camicetta gialla a pieghe. Appeso al collo un appariscente crocifisso in oro ed un ciondolo con la rappresentazione di qualche madonna nera. Ammisi la mia ignoranza in materia di religione e tentai di affrontare la visita con piglio professionale. Prima ancora che potessi salutarla arrivò la domanda che più temevo:
«Galandri come sta?»
Abbottonai il camice e mi misi seduto. Sistemai la scatola dello sfigmomanometro parallela al filo del piano di appoggio e feci aprire al computer la pagina con i mutuati. Fui sorpreso ancora una volta dalla lunghezza della lista.
«Signora stia tranquilla, è in buone mani.» Questa volta il sorriso mi uscì più ipocrita del solito e vidi che gli occhi chiari della signora registrarono la cosa con uno scatto.
«Allora non rientra subito?»
«Subito subito, no…» Risposi, immaginandomi il collega sotto morfina e immobilizzato nel letto del centro traumatologico, con la sola prospettiva di vedere passare una nuvola ogni tanto attraverso lo spazio della finestra. «Se tutto filerà liscio ne avrà per un paio di mesi.» Replicai, sapendo di avere abbreviato di un bel po’ il tempo della prognosi. La tristezza disegnò una ruga nuova sulla faccia che avevo davanti, complementare al segno di espressione sulla fronte che voleva dire ansia. Attesi un tempo che mi sembrava giusto perché la signora potesse elaborare il lutto, quindi posi la domanda di rito.
«Posso aiutarla, signora?»
Vidi gli occhi azzurri perdersi nella fantasia di colori rappresentata dalle scatole di farmaci campione racchiusi nell’armadietto a vetro e poi scattare per decine di volte nei vari angoli dell’ambulatorio, fino a fermarsi su un particolare che mi era sfuggito. Stava contemplando il crocifisso che il collega aveva esposto proprio sopra una cassettiera. Attesi, per il dogmatico rispetto che si deve ai fedeli.
Io, ateo convinto e feroce sostenitore dell’ortodossia scientifica, sentivo quel simbolo sacro alle spalle come una minaccia alla mia stessa incolumità, come se da un momento all’atro potesse staccarsi dalla parete e decapitarmi. Dopo qualche secondo riproposi la domanda.
«Posso aiutarla, signora?»
«Lei è religioso come il dottore?»
Mi chiese, e io non seppi mettere in ordine di gravità le due cose, ovvero che mi domandasse se fossi religioso e poi che non mi considerasse un medico al pari del collega. Fuori, intanto, era arrivato un nuovo paziente, seduto nella poltroncina centrale accanto a una vistosa stampella lasciata appoggiata al muro. Il pover’uomo aveva la gamba interrotta appena sotto il ginocchio, con i pantaloni lasciati malamente strisciare in terra. Ma il particolare più fastidioso era una netta deformazione del cranio, schiacciato da un lato e allungato come quello di un faraone. Nella fronte si notava uno sprofondamento della dimensione di una moneta, che la telecamera in bianco e nero faceva assomigliare a un buco aperto sul buio. Distolsi lo sguardo e mi dedicai alla paziente.
«Diciamo che la religione non è la mia principale preoccupazione…»
La signora si mostrò risentita. «Ma nemmeno il dottore, sa?»
Incassai l’autorete, cercando di mostrare un minimo di dignità. D’istinto portai la mano destra al fonendoscopio appeso al collo e lo carezzai, come per sottolineare il pari grado di istruzione nei confronti del collega anziano. La signora mise sul piano della scrivania un ritaglio del cartoncino delle sue pastiglie per l’ipertensione. Riconobbi il nome del principio attivo e convenni che il collega ci andava pesante.
«Ha bisogno di una nuova prescrizione, signora?»
«Sì…»
«Bene. Quando è stata l’ultima volta che se l’è misurata?»
«E’ stato il dottore, un mese fa.» sbottò.
«Allora la prego, si accomodi sul lettino che la controlliamo nuovamente.»
Sistemò la borsetta sulla sedia e sollevò la manica della camicia, avendo cura di arrotolarla con la massima precisione. Si mise seduta sul lettino e sporse il braccio con l’entusiasmo che si potrebbe adoperare per ricevere l’iniezione letale. Finsi di non vedere, arrotolai il bracciale badando a non chiudere troppo e soffiai aria all’interno. Con mia sorpresa la colonnina dell’apparecchio scese tantissimo prima che potessi avvertire il primo battito. Sganciai, sistemai la pompetta con l’attenzione che si deve verso le cose degli altri e mi misi seduto alla scrivania. La manica della camicia, intanto, ritornò al suo stato originale con la medesima lentezza con cui era stata ripiegata.
«Signora, quanto ne prende di questo farmaco?»
«E’ un diuretico.» Mi rispose eludendo la domanda.
«È un doppio principio attivo» spiegai. «Si tratta di un diuretico abbinato con un ACE inibitore…»
«Il dottore ha detto che va bene…»
«Lei, signora, ha la pressione troppo bassa, ma credo che questa sia una buona notizia, no?»
«Una al giorno per tutti i giorni…»
«100 su 60, alla sua età è un po’…»
«Ho bisogno di due scatole!»
Fui tentato di rassegnarmi. «Quante ne ha ancora a casa?»
«Una scatola intera.»
«Bene, signora. Da domani dimezzi la dose, poi passi a trovarmi fra dieci giorni che valutiamo la cosa…»
Arrivò uno sguardo carico di odio, che insieme ad un ricatto morale si insinuò nella mia coscienza facendomela prudere. Tenni duro: quella paziente si stava avvelenando per curare una malattia che probabilmente non aveva. «Ritorni fra una settimana.» Imposi, ritrattando sui tempi per non affondare troppo duramente.
La signora se ne andò riservandomi un saluto freddo.
Sospettai che sarebbe andata a rivolgere le sue rimostranze direttamente al capezzale di Galandri.
Mi resi conto che avevo cominciato con il passo sbagliato, che in sala di attesa c’era un uomo che sembrava essere sopravvissuto all’impatto con un TIR, e che qualcuno si era approfittato per soffiargli il posto. Alla porta un tipo con un bruttissimo aspetto e la prospettiva che sarebbe stata una giornata da dimenticare.

Avevo trovato la cartella clinica dell’uomo in sala d’attesa.
L’avevo rimediata senza problemi, digitando sulla ricerca ipertestuale del data-base la voce “amputazione” abbinata alle parole “deformazione cranica”. Le prime righe che lessi mi diedero l’idea di quello che stavo per affrontare. Parlavano di un operaio edile di quarant’anni, caduto dal terzo piano di un ponteggio fatto male. Aveva avuto la malasorte di trovarsi con la gamba e la testa rimaste malamente incastrate fra i tubi Innocenti. Nelle righe che seguivano, il collega aveva annotato gli interventi chirurgici che si erano resi necessari, compreso il sacrificio della gamba destra maciullata. Tuttavia qualcuno, forse approfittando dell’handicap del poveretto, lo aveva anticipato, presentandosi in ambulatorio al suo posto.
Alla vista di quel paziente mi si srotolò dinanzi l’enciclopedia dei sintomi dello stress. Pudicamente misi la cartella nel cassetto e lo esaminai sommariamente.
Presentava una stempiatura asimmetrica, degli eczemi arrossati sotto l’orecchio e sullo zigomo, occhiaie pesanti e una magrezza sospetta. Il suo occhio sinistro si contraeva continuamente, come se tentasse di trasmettere un messaggio in codice morse. Inoltre un vago odore di acido arrivò fino al mio naso. Poteva avere trent’anni o poco di più. Di certo la vita lo aveva asfaltato.
«Non sono un suo paziente, dottor Galandri.» Esordì, dimostrando di non avere idea di chi fosse effettivamente il dottor Galandri. Per non caricare la conversazione di dati inutili, omisi la storia dell’incidente in moto e della sostituzione, cosa che io stavo cercando di esercitare degnamente.
Lanciai un’occhiata al monitor della videosorveglianza e mi resi conto che l’uomo amputato se ne era andato.
«Vengo per mia moglie. Piange sempre, non dorme da giorni e credo che questa volta stia crollando. Ha bisogno di un medico. Sono sicuro, dottor Galandri, che lei la conosce bene e potrà aiutarla a stare meglio.» Disse, e intanto fissò il crocifisso alle mie spalle, come se fosse alla ricerca di qualcosa di più dell’aiuto di un medico. Rimasi ad ascoltarlo per tutto il tempo che passò a esporre i sintomi della sua consorte. Non risposi e mi astenni dal commentare. Semplicemente presi atto della cosa e mi immedesimai in quel caso.
Avrei voluto dirgli che ero il sostituto di quel posto, e non il titolare. Avrei voluto chiedere informazioni maggiori sulla sua consorte: se soffrisse o avesse sofferto in passato di depressione o se fosse reduce da qualche malattia importante. Tuttavia quella maschera di disperazione che mi trovavo di fronte mi privò della lucidità necessaria.
La sala d’attesa continuava a essere vuota e l’ora della chiusura non era lontana. Decisi di anticipare l’orario della serrata, ripromettendomi di tornare in seguito. L’uomo doveva rientrare al lavoro, incontro probabilmente alla sua unica e ultima ragione di vita.
Lo congedai con una stretta di mano e decisi che non avrei fatto rimpiangere il mio collega.


Era un quartiere della prima periferia, con tante vecchie case popolari ormai riscattate, delle villette anni '50 ingentilite dal giardino e tanti muri ammuffiti, memori della storia recente di tutta la città.
Come mi aveva spiegato il marito, alla casa si arrivava virando a destra, appena dopo l’esperimento fallito di una chiesa in stile moderno che evocava il ricordo di una centrale nucleare. Vidi una fila di cassonetti che si alternavano ai robusti fusti dei platani e poi il cancello, verde e mimetizzato nell’ombra fresca. L’atmosfera mi sembrò tetra, ma nulla a confronto del pomeriggio inutile trascorso all’ambulatorio di Galandri.
Suonai, e i battenti vennero sospinti verso l’interno da un motore elettrico. Percorsi a piedi la strada lastricata in pietra.
Sui lati due file di cespugli ben curati, la grossa mole di un pino marittimo e un albero di noce proprio prima della facciata, che proiettava sulla terra morta la sua ombra velenosa.
La casa aveva un tetto a padiglione, con gli spioventi bassi mascherati da una pantalera nodosa in legno di abete, la facciata trattata con un intonaco graffiato color pistacchio e un grosso abbaino, imponente sulla copertura in coppi. Sui quattro gradini che anticipavano l’ingresso, una traversa in ferro lavorato invitava l’ospite con le suole infangate a pulirsi. Un cespuglio di ortensie poco lontano invadeva il passaggio profumando i dintorni. Notai la vecchia grondaia, che a un certo punto secretava il suo percorso tuffandosi all’interno del muro.
Trovai la porta di accesso socchiusa. Spinsi il pesante battente e lasciai che il cigolio precedesse il mio saluto.
Mi accolse la moglie, una bella donna con meno di trent’anni, le curve appena castigate da una camicia lasciata fuori dai pantaloni e lunghi capelli neri che arrivavano alle spalle arricciandosi un po’. Aveva gli occhi stanchi e un paio di righe arrossate sul lato del volto, come se le lacrime vi avessero segnato la strada. Il giornale locale aperto sul tavolo, che parlava dell’incidente occorso al collega Galandri, giustificava la sua totale assenza di sorpresa nel vedere arrivare a casa sua uno sconosciuto, armato con una borsa di pelle appena inaugurata e una faccia che doveva sembrare quella di un idiota. Lei non commentò, indicò una sedia dove potessi accomodarmi e mi girò le spalle per andare incontro ai mobili della cucina.
Che la casa fosse stata arredata di recente lo si capiva, dall’odore di nuovo che mi aveva aggredito le narici e da un impianto interno di sorveglianza che inquadrava in un grosso monitor le numerose stanze. Mi chiese se volessi un caffè.
«No davvero, signora. Grazie...Faccia come se avessi accettato.»
Attesi invano una controfferta, magari un aperitivo. Non arrivò e la padrona di casa andò ciondolando verso la camera da letto. Notai che, appena entrata, l’inquadratura si disattivò, sostituita dal logo della ditta che aveva installato l’impianto. Rimasero attivi gli altri quadri, sempre vivi su tutte le stanze nella metà dello schermo. La parte rimanente, invece, alternava le riprese su un ambiente e su quegli altri.
Si stava cambiando, probabilmente, e io attesi.
Nel bianco e nero smunto delle telecamere indiscrete,  la vista di una cyclette nella camera matrimoniale faceva a pugni con gli abiti appesi al manubrio: Un corridoio, con una lunga cassapanca sovrastata da un quadro indecifrabile, pareva lunghissimo e uno studiolo, con un computer in fondo che brillava su un programma aperto e un pianoforte a muro marca Kawai che completava la rassegna, con la tastiera chiusa sotto il coperchio. Sullo sfondo, un po’ in penombra, una serie di cesti in vimini impilati.
Queste erano le immagini che la videosorveglianza proponeva, mentre dalla camera si avvertivano rumori delle ante dei mobili e dei cassetti.
Vidi la cameretta dei figli, probabilmente al piano di sopra dietro l’abbaino. In un grosso letto bianco con le sponde, due fratellini di due anni o poco più stavano dormendo, teneramente abbracciati e con le coperte abbassate sotto la vita. Uno portava i capelli lunghi, sciolti sul cuscino in mille boccoli, l’altro succhiava teneramente il pollice. Godetti di quello spettacolo di pace e amicizia incondizionata e non capii, non capii proprio quali fossero i problemi che assillavano quella bella signora.
Sbucò dalla camera con il passo felpato. Una maglia bianca indosso e dei leggings grigi aderenti costituivano la divisa che aveva scelto in quei pochi minuti. Notai i capelli legati e per la prima volta le mani con le unghie morsicate. Gli occhiali con le grosse lunette rotonde tentavano di ingannare la tristezza di quel volto, alternando la montatura di tartaruga con il grigiore della pelle.
«Quindi mio marito sarebbe passato a cercarlo, nel suo studio?» Domandò.
Risposi con un po’ di imbarazzo, accorgendomi troppo tardi che stavo gesticolando eccessivamente. «È passato prima. Era preoccupato per il suo stato di salute» mi corressi subito. «Per la sua…depressione. Voglio dire, mi sembra di avere capito che è molto impegnato con il lavoro e allora…»
«Già, il lavoro…»
Ignorai la vena polemica. «Anche lui, a modo suo, è stressato, cioè mi è sembrato…» Dissi, disintegrando il protocollo e la professionalità.
La vidi deglutire, spostare gli occhiali e strofinarsi le palpebre. C’era qualcosa che consumava quella giovane vita, e me ne stavo dispiacendo. Abituato a vedere la sofferenza ogni giorno in puntuale rassegna, l’idea di una giovane e bella mamma in preda al male oscuro mi spiazzava.
«Mio marito è un povero illuso. Crede che con una medicina si possa risolvere tutto!»
L'assecondai. «Non è così purtroppo. Lei dorme bene, signora?»
Un sorriso camuffò senza riuscirci uno sguardo di compatimento. Ai suoi occhi dovevo essere sembrato un povero ebete. Provai a mettere il medico davanti all’uomo; di solito funzionava.
«Vedo molta tensione, i muscoli del viso contratti e le spalle ipertoniche. Se mi permette il paragone, mi sembra che si sia dimenticata l’attaccapanni nella maglia.» Dissi, confidando nel successo della battuta che non riscossi. «Adesso, se mi consente, misurerei la pressione, asculterei il cuore e…»
«Dottore» mi interruppe venendomi incontro. «Le cose sono due: la medicina, le medicine e i medici non serviranno a nulla, mio marito è un patetico buffone e lei mi sembra tutto, meno uno che sa il fatto suo.»
Incassai, portando la mano al mento e sforzandomi di non sembrare nervoso. Un brivido mi attraversò la schiena dal basso verso l’alto e le mani si gelarono in un istante. Tutta l’ostilità della donna e la fredda inospitalità di quella casa mi si riversarono addosso come una colata di cemento.
Tirai i remi in barca e mi arresi senza combattere. Sarei tornato da dove ero venuto, con un fallimento professionale e un viaggio non retribuito attraverso l’ora di punta. Tutto sommato la donna non era in pericolo di vita, dimostrava una certa, cinica lucidità e non presentava nessun sintomo apparente di malattie senza appello. Mi alzai con la coscienza messa a posto, più o meno come si rassetta la cucina all’arrivo di un ospite inatteso. Il monitor della sorveglianza, intanto, proponeva ancora l’inquadratura dei due angioletti al piano sopra. Quello biondo con i boccoli si era messo a sedere sul letto, accanto al fratellino che cercava con la mano una conferma della sua presenza. Guardava nelle due direzioni e poi verso la telecamera. Sapevo che quella tecnologia aveva il difetto di fornire delle riprese scadenti, ma in quel caso il nero pece dei suoi occhi mi colse impreparato.
Quella donna, dopotutto, aveva la prospettiva di crescere i suoi figli.
Facendo spallucce porsi la mano per il saluto. «Signora, io non posso costringerla a farsi visitare. Tuttavia mi dispiace per l’impressione non buona che suo marito maturerà nei mie confronti…»
«Mio marito, come le ho detto, è un povero idiota. Pensa che i problemi si annidino nella salute, ritiene che ogni cosa abbia una spiegazione logica e che si debba trovare una risposta a tutto nelle cose di questo mondo. Di quanto la risposta possa essere stupida a lui non importa. A lui importa solo di riempire un buco della sua conoscenza con un po’ di aria fritta a buon mercato.»
«Non credo che la medicina lo sia…»
«Di fronte ad un vero malato, no…»
Mi congedai con una frase di circostanza, pronunciata con l’entusiasmo adatto a leggere la bolletta della luce. «È stato un piacere.»
«Avrei preferito parlare con Galandri…»
Già, pensai. Galandri, con quella flemma e finta cortesia, la sua ambivalenza di medico e fedele, sempre con un piede in ambulatorio e le mani giunte a pregare in chiesa. Era il medico che si meritavano e lo avrebbero avuto nuovamente, fra tre mesi almeno beninteso.
Me ne andai senza più voltarmi, liquidato come un seccatore e messo alla porta alla pari di un mendicante. A mano a mano che mi allontanavo da quella casa, sentivo il sangue irrorare nuovamente le vene e nascere una nuova prospettiva. Andai incontro agli ultimi raggi di sole e provai sulla pelle la benedizione della loro carezza calda.

Rientrai all’ambulatorio dopo avere confezionato una versione da fornire al marito quando fosse tornato per i ragguagli. Dovevo sembrare nello stesso tempo duro e ineccepibile, serio ma comprensivo:
«Sua moglie si è dimostrata immatura, poco attenta alle sua salute e incapace di godere delle gioie della sua giovane età e delle belle prospettive che la vita le ha riservato. Per ora non mi preoccupa, ma presto questa sua apatia potrebbe avere delle conseguenze sulla psicologia dei due bambini. Non escluderei che un giorno possano correre qualche pericolo…Non mi fraintenda, la prego. Non pericolo inteso in senso letterale, quanto la possibilità che l’esaurimento della signora possa alla lunga giustificare qualche disattenzione nei loro confronti…» Ecco, questo avrei detto.
Formulai il discorso sull’auto, approfittando dei semafori per ripeterlo a voce, infischiandomene degli sguardi divertiti dei passanti. Alla successiva fermata indossai le auricolari del cellulare, che mi autorizzavano a parlare da solo senza sembrare un pazzo.
Dovevo passare all’ambulatorio, compilare alcune prescrizioni, chiudere e rientrare a casa mia a leccarmi le ferite. Passare la sera davanti a una birra a scansionare l’orizzonte delle donne libere al pub, era la migliore proiezione di ottuso ottimismo e gioia di vivere che in quel momento potevo permettermi.

Entrai nello studio del collega dalla porta posteriore.
La telecamera di sorveglianza inquadrava l’uomo amputato, lo stesso che qualche ora prima aveva rinunciato ad attendere. Portava la sua testa deforme come se fosse stata staccata dal collo e impalata da qualche selvaggio a monito del nemico, e fissava il muro con gli occhi spenti.
Un caso difficile per finire una giornata di merda, mormorai.
Per affrontare la cosa con piglio professionale ritornai alla lettura della cartella clinica, interrotta dall’intrusione del marito nevrastenico. Era ancora aperta sul monitor del computer, solo temporaneamente sostituita dal nero imposto dallo screen saver. Cominciai la lettura dal principio:
incidente occorso sul luogo di lavoro – cantiere edile in Via Manzoni 89 - Caduta dall’alto con conseguente frantumazione della gamba sinistra sotto il ginocchio. Frattura cranica scomposta e alterazione della massa cerebrale. Intervento chirurgico per l’amputazione dell’arto e riduzione delle fratture craniche. Insorgenza di stato comatoso durante il decorso post-oper…”
Il telefono dell’ambulatorio si mise a suonare. Risposi, riservando un’ulteriore penosa occhiata al poveretto in attesa.
«Pronto…»
«Buonasera dottor Galandri.»
Riconobbi la voce. Era il marito della donna depressa. Ancora non avevo capito che io non c’entravo nulla con il nome che aveva appena pronunciato e si era appena smentito, perché ricordo, aveva detto che sarebbe passato di persona.
«Buonasera a lei. Sono stato dalla sua signora quest’oggi..» La voce  uscì un po’ stridula, suonando ipocrita come mai prima. L’uomo all’altro capo del telefono mostrò preoccupazione.
«Come le è sembrata mia moglie? Crede che sia preoccupante?»
«Per correttezza, però, le devo dire che la visita non ha avuto luogo, e poi occorrerebbe che si sottoponesse a degli esami del sangue…»
«Si è rifiutata di farsi visitare?»
Colsi l’occasione al volo. Avevo preparato un bel discorso e intendevo farne sfoggio. Come se fosse scattato il risponditore di una segreteria telefonica, recitai.
«Sua moglie si è dimostrata immatura, poco attenta alle sua salute e incapace di godere delle gioie della sua giovane età e delle belle prospettive che la vita le ha riservato. Per ora non mi preoccupa, ma presto questa sua apatia potrebbe causare conseguenze sulla psicologia dei due bambini. Non escluderei che un giorno possano correre qualche pericolo…Non mi fraintenda, la prego. Non pericolo inteso in senso letterale, quanto la possibilità che l’esaurimento della signora possa alla lunga giustificare qualche disattenzione nei loro confronti…»
Silenzio.
«Pronto?»
Respiro nervoso e una vibrazione che avrebbe potuto tranquillamente essere interpretata come rabbia. Per un attimo temetti il peggio, e quell’attimo durò meno di quanto avessi desiderato.
«Cosa ha detto, dottore?»
Indugiai. «Che sono preoccupato per i suoi figli, più che per sua moglie…»
«Dottore, io e mia moglie abbiamo un solo figlio. Lei non è stato nemmeno attento a quello che ha visto. Ho la sensazione che, se la sua attitudine all’osservazione è quella che ha dimostrato, i suoi pazienti saranno in serio pericolo!»
Il bambino con i boccoli biondi aveva negli occhi la profondità del buio, ma io l’avevo visto. Era inquadrato nella camera di sorveglianza e si era mosso come l’altro. Nessuno di quei due corpi poteva appartenere a una bambola, ne ero sicuro. Nella cornetta un vociare confuso e un crescendo di parole non sempre gentili, che lentamente si tramutavano in insulti. Non attaccai ma la mia percezione del tutto si tuffò nelle profondità di un mare immaginario.
In attesa di trovare una formula adatta per accomiatarmi da quel maleducato, seguitai la lettura della cartella clinica del paziente in attesa:
“…insorgenza di stato comatoso durante il decorso post-operatorio e successivo decesso per infezione polmonare…”
DECESSO
Era scritto proprio così.
Rilessi:
DECESSO
Controllai la cartella e lanciai un’occhiata al monitor della sorveglianza.
Sulla sedia c'era un uomo dichiarato morto. 
Risi, sorprendendomi del grugnito che produssi e pensai a Galandri, alla sua inattitudine alla guida della motocicletta, alla sua lucidità che evidentemente cominciava a latitare. La cornetta del vecchio telefono continuava a latrare, collegata a quel filo a attorcigliato. Chissà quante speranze, confidenze e tristi notizie avevano attraversato negli anni quella spirale.
«Lei dottore è un incapace! Non ha saputo convincere mia moglie a farsi visitare…O non ha voluto? Forse è solo un inguaribile pelandrone, un mangiapane a tradimento…Dottore, mi sta ascoltando?»

Fui come ipnotizzato dalla scena in sala d’aspetto.

L’uomo deceduto aveva sollevato la testa verso la telecamera e adesso la fissità delle sue orbite nere mi stava raggelando il sangue. Improvvisamente lo vidi alzarsi. Maneggiava quella stampella come un fucile, pronto a esplodere un colpo attraverso il muro che ci divideva.
«Mia moglie ha bisogno di qualcuno che l’aiuti! Mia moglie è in preda alle allucinazioni! Deve prendere delle medicine, qualcosa che la faccia smettere di delirare…Dottore, si rende conto che lei vede un secondo bambino accanto al nostro? Che vede i fantasmi?»
Fu l’unica parola che distinsi in mezzo a quel delirio, uscito dalla cornetta come se la puntina di un giradischi senza amplificatore stesse solcando un brutto disco: fantasmi.
Il buio delle orbite che stavo fissando si estese fino ad occupare l’intero schermo.

Quando l’immagine finalmente si ricompose, vidi l’uomo senza gamba andarsene attraverso il muro.

© diritti riservati

sabato 29 ottobre 2022

Città in Giallo - Bardonecchia




 









Bardonecchia 1 - La regola del sette.

Elettra Keita è un tenente dei Carabinieri. Apparentemente è in vacanza a Bardonecchia ma in realtà sta indagando. 
Nessuno sospetta di nulla ma in certi ambienti legati all’esoterismo si dice che dal 1986, e ogni sette anni, una giovane ragazza, anche solo di passaggio, scompare. 
Abituata a muoversi negli ambienti del terrorismo e del narcotraffico, Elettra si limita a guardarsi intorno, perché le prove sull’esistenza stessa dei delitti sono labili e perché il suo comando ritiene che l’indagine sia una pura formalità, una vacanza premio per rilassarsi dopo avere corso molti pericoli in azione, e infine l’occasione per mettere a tacere i pettegolezzi.


Bardonecchia 2 - Invisibile

È  tutto vero. 
Da molti anni, ogni sette, una giovane ragazza che si trova a Bardonecchia, scompare.
Il maniaco si è manifestato ed è molto pericoloso. Elettra e il suo compagno Piero sono confusi e qualche volta la rabbia sostituisce la ragione. L’autunno procede e l’indagine è a un punto di stallo. Conosci il tuo nemico, dice la saggezza orientale. Leggendo queste pagine, conosceremo la genesi del mostro e solo con molta attenzione, il suo punto debole.

 Bardonecchia 3 - Prova a prendermi

«No. Questa è tutta un’altra storia» dice. All’inizio, la lacrima che cola fino al mento è ambigua ma il dubbio dura poco. «Abbracciami!»

La stretta è così forte che si mettono a scricchiolare.
È sempre così alla fine delle storie perché è logico: ogni cosa deve concludersi e quella di Wosh, delle ragazze rapite e degli amanti con troppi guai, si concluderà quella notte.
Come, lo scopriremo.

lunedì 24 ottobre 2022

Due piani sottoterra

 






La radio non fa altro che gracchiare.
Emette suoni incomprensibili e un fruscio di fondo che ha sostituito gradualmente quegli inviti alla calma e quei piccoli suggerimenti per sopravvivere che all’inizio si erano rivelati utili. Da mesi, ormai, consuma le batterie dando voce a quello stormo di mosche che sembra abitare dentro di lei.
Credo che sia passato un anno da allora, o forse più.
Ho smesso di tenere il conto dei giorni da un bel po’.
Per farlo, allineavo nel corridoio centrale delle scatole di dentifricio. Simulavo le tacche che i detenuti fanno sul muro della cella, almeno nelle centinaia di film sulle carceri che mi è capitato di vedere. Mi sono fermata alla trecentoundicesima confezione, un massima protezione che promette gengive sanissime e alito a prova di bacio. Girandola sul retro, garantisce anche di fare a pezzi la placca come se la prendesse a picconate.
Il giorno seguente ho smesso di allineare le scatole. Punto.
Ero rimasta a dormire nel cantuccio caldo (la mia scatola) che avevo avuto modo di creare nel magazzino della mobilia. Armadio con il cambio d’abito e biancheria, cassettiera versione arte povera e comodino impiallacciato ciliegio. Abat jour con luce led multicolore e sveglia con suoneria dolce di ispirazione naturale. Per i primi giorni avevo scelto il canto di una capinera all’alba, o così almeno dicevano le istruzioni in ventiquattro lingue, thai compreso. Doga in legno, materasso in lattice e materasso a molle. Ho scelto quest’ultimo sostituendo quello in lattice che avevo messo su per primo. Mi ricordava quello che avevo a casa mia, comodo quanto bastava per allontanare gli incubi e collaudato più volte assieme a Michelangelo.
Che forza quell’uomo!
Portava il nome di un grande scultore perché era bello come una statua. Aveva il fisico dello Schiavo morente, il portamento del David e lo sguardo da duro del Mosè, con quel volto di pietra incorniciato da una barba perfetta che lo faceva somigliare ad un dio greco.
Michelangelo aveva un sorriso che ti incantava, la pazienza di un santo e la fermezza di un leader. Non metteva mai una parola al posto sbagliato, sapeva scrivere, cantare e suonare la chitarra. Odorava di buono e dormiva come un sasso per sette ore e mezzo a notte. Quando si alzava dal letto non lo sentivi e capivi che il giorno era nato dal profumo del caffè caldo che attraversava la casa, fino a venire a bussare alla porta della camera. Aveva un lavoro che gli piaceva e non si lamentava mai. Correva, sollevava pesi come fossero fuscelli e piaceva ai bambini.
Michelangelo era così bello che le donne me lo volevano portare via, ma lui non le degnava nemmeno di uno sguardo. Michelangelo faceva la doccia tutte le mattine e non lasciava mai una cosa fuori posto.
Michelangelo leggeva, guardava i film d’autore e si interessava di politica.
Michelangelo sapeva fare cigolare le molle del letto.
Tutto questo sapeva fare, ma smise.

Si vide costretto a farlo nel giorno che fu incenerito dalla bomba.

Erano le undici del mattino di una bella giornata estiva e da due mesi mi stavo occupando del magazzino.
L’incarico di magazziniere all’ipermercato non era ambito.
La struttura, un capannone di dubbia bellezza che era spuntato come un fungo nella periferia della città, aveva dovuto sviluppare i suoi tentacoli verso l’alto, dove avevano trovato posto i reparti di abbigliamento, arredo e bricolage, e verso il basso, con la costruzione di un parcheggio sotterraneo da duecento posti e del magazzino ancora più giù, due piani sottoterra.
I progettisti non avevano avuto scelta.
Nato su di un’area dismessa e non particolarmente estesa, l’ipermercato non aveva potuto sfogare in orizzontale tutte le sue propaggini. Un severo muro in mattoni rossi, testimone dell’archeologia industriale che faceva sembrare quella parte di città ad un museo dei ricordi, circondava la zona e si affacciava sulle strade che cingevano tutto il perimetro.
Allora avevano scavato e ingozzato tutta la terra di cemento. Sul lato est era stato ricavato un grosso vano per il montacarichi, attraverso il quale le merci, scaricate nel cortile, scendevano per essere stivate e salivano quando il capo reparto decideva di rimpinguare gli scaffali.
Quel giorno, un TIR aveva scaricato un paio di centinaia di scatoloni di cibo per gatti sul retro. Ugo, l’addetto al muletto, aveva imbarcato sul montacarichi i colli, che io facevo scendere di due piani e poi li movimentavo con il mio carrello elettrico, li portavo agli scaffali, svuotavo i cartoni e poi rispedivo alla luce del giorno gli involucri vuoti. Con l’ultimo giro di ascensore salii anch’io, abbandonando il girone dei dannati per i dieci minuti che la pausa sindacale mi concedeva.
Ugo era simpatico, non negava mai una sigaretta e aveva sempre aneddoti da raccontare.
Non ci provava con me, manifestava una timidezza sottopelle alla quale sopperiva con un buonumore talvolta eccessivo e con un repertorio di battute che parevano studiate a tavolino la sera prima.
Quel giorno, quando mi vide sbucare dal sottosuolo con gli occhi stretti a fessura per sopportare la luce del sole, mi accolse con un sorriso e una Chesterfield elegantemente sfilata dal pacchetto, tentatrice come il diavolo in persona. La presi e la misi in bocca senza neanche ringraziare. Appoggiata al muro, con il braccio dietro la schiena e la gamba ripiegata contro la parete, attesi che Ugo azionasse lo zippo e poi tirai con soddisfazione la prima boccata. Il cielo era così limpido che ci si poteva perdere come in un sogno e dalla strada sembrava non provenire alcun rumore. Il TIR, che aveva appena scaricato la sua consegna, fece una manovra da applausi per invertire la marcia e guadagnarsi di prepotenza il suo posto nel traffico. Ugo fini di trascinare l’ultima delle scatole vuote contro il perimetro, nel posto esatto in cui lo smaltimento rifiuti si aspettava di trovarle, poi mi venne incontro che la Chesterfield era già a metà.
«Dai, che domani e sabato!»
Già, l’aspetto positivo di lavorare al magazzino era quello che al sabato si stava solo mezza giornata.
Non avrei voluto buttarla sul tempo, ma alla fine lo feci. «Se rimane così caldo e stabile, io e Michi ce ne andiamo in montagna. Vogliamo tornare giù con una tintarella che levati!»
«Me lo devi fare conoscere…»
«Chi?»
«Il tuo fidanzato, Michi.»
«Ma dai Ugo, è talmente figo che ti metterebbe in imbarazzo, tu con quel pancione da birra!» Gli diedi un colpo sul ventre che suonò come una grancassa. Lo prendevo sempre in giro e la cosa sembrava divertirlo.
«Lo sfido a braccio di ferro.» Si carezzò il grosso bicipite, un po’ flaccido per la verità. «Lo mando a casa in lacrime e con una sculacciata, il tuo Michi…»
«Non sono quelli i muscoli che contano in un uomo, dovresti saperlo alla tua età…»
Si atteggiò a duro di Hollywood, mi sbuffò in faccia il fumo e fece un’espressione che nelle sue intenzioni doveva essere cattiva. «Attenzione a come parli, collega! Io qua sotto ho un muscolo che tutto il mondo invidia…»
Risi. «Può darsi. Non insisto, non lo voglio vedere…»
«Hai presente l’obelisco, quello nel bel centro della rotonda?»
Indicai un punto a caso verso nord. «Quello…là?»
«Esatto, collega, solo per farti un’idea…»
«Wow!»
«E’ quello che dicono tutte, wow…»
Mentre mi sforzavo di ricordare se l’obelisco della rotonda finisse a punta, a tronco di cono o con una semisfera, vidi uno dei principali azionisti dell’ipermercato. Aveva appena varcato il cancello con la sua Porsche Cayenne, con più pelle nelle sellerie che in una mandria di montoni. Non so come, ma mi venne in mente che l’obelisco aveva in cima uno spunzone, tipo quello dei soldati austro-ungarici della prima guerra mondiale. La cosa mi fece ridere.
«Stai ridendo in faccia al capo? Non so se sia una buona idea ai tempi del job act, collega!»
«No Ugo, tranquillo. Stavo pensando al tuo obelisco…»
«Stronza!»
«Ma dai, scherzavo!»
Mi mise nuovamente il pacchetto sotto il naso. «Sigaretta?»
«Un’altra? No davvero, Ugo…mi vorrai mica uccidere?» Non rispose, si cacciò la bionda in bocca e guardò preoccupato le evoluzioni del Cayenne. Il SUV parcheggiò sotto l’unica pianta di tutto il complesso: un privilegio riservato ai padroni.
«Ok, Ugo. Vado sotto a mettere a registro l’ultima consegna.»
«Quella dei croccantini.»
«Già, e tieni a bada il tuo obelisco, che fra poco arriva il furgone con l’intimo femminile. Tante piccole scatole per la gioia di mamma e papà.»
«Specialmente dei papà!»
«Levati!» Ordinai, con un fare imperativo. Ugo ci rimase veramente di sasso. Lo spinsi via con una tale determinazione che i suo cento chili mi sembrarono nulla.
«Si può sapere che ti prende?»
«Guarda là…»
Si girò e non vide nulla. «Hai le allucinazioni, collega?»
«Ma no, là. Dietro il paraurti della Porsche…»
Ugo tiro fuori il suo aspetto femminile. «Tre mi-ci-ni te-ne-rissi - mi!»
«Quattro.»
«Quattro!» Indicò uno scricciolo in color ruggine che si aggirava intorno all’aiuola, tutto orecchie e con la coda dritta, fino a che un suo fratellino, grigio cenere con qualche striatura più scura, lo colse di sorpresa facendogli lo sgambetto. Gli altri due, non più grossi di un paio di palle da tennis ed entrambi di un colore arancione tendente al biondo, sembravano avere ingaggiato una contesa di importanza vitale per il futuro della nazione.
«E chi ce gli avrà portati?»
Pensai ad un paio di ipotesi. «Qualche stronzo che gli ha abbandonati» risposi. «Ugo, vai tu a prenderli prima che qualche camion li schiacci!»
Fece due passi e venne colto dal dubbio. «E poi che ci facciamo? »
«Che ne so! Levali di lì, presto!» Mentre il muso di un MAN con rimorchio si era appena affacciato al cancello. Sembrava un mostro stermina gatti, mandato da un altro pianeta per non lasciare nessun felino in vita sulla faccia della terra. Con tutte quelle ruote avrebbe fatto una strage.
«Vai, che cosa aspetti!»
Ugo obbedì e, prima che il TIR si fosse messo a rombare nel cortile facendo tremare tutto, i micini erano in salvo, due per ogni braccio.
Mi venne incontro di corsa e fu intercettato da un’occhiata velenosa del capo. Aveva smesso di parlare con una dell’amministrazione; minigonna vertiginosa, occhiali palesemente finti e meches rosse che dovevano esserle costate tutti gli straordinari.
Il capo non aveva visto i gatti ma, mosso da un istinto omicida (qualcosa che doveva appartenere alla sola categoria dei dirigenti/azionisti/figli di gran troia), venne incontro a me, mentre Ugo, con le braccia tutte graffiate, mi porgeva sedici, pericolosissime zampe taglienti.
«Che intenzioni hai?»
«Li porto sotto con me, per oggi. Poi stasera troverò una sistemazione. Tu che hai le spalle larghe coprimi, distrai il capo e lascia che il montacarichi scenda. Ok?»
«Perché dovrei distrarre il capo?»
«Inventati qualcosa. Lamentati del muletto che ha le gomme sgonfie.»
«Ma non ha le gomme sgonfie!»
Il capo stava arrivando. Avanzava come un pistolero sotto il sole infuocato della tarda mattina. Mi girai, strinsi i micetti al seno e scappai trotterellando in direzione dell’ascensore. Premetti il tasto -2 e attesi la chiusura delle porte.
L’impianto verificò il peso e dopo qualche secondo cominciò a fare scorrere le porte in chiusura. Per la sua dimensione e a causa della lentezza degli ingranaggi, la chiusura avvenne molto lentamente.
Ero al centro esatto della cabina e contavo sul fatto che il capo non mi potesse vedere, inondato da quella luce che lo faceva assomigliare a un miraggio. Nei lunghi secondi che le porte impiegarono per sigillarsi l’una con l’altra, vidi Ugo avvicinarsi al capo porgendo la mano e lui fare altrettanto. Vidi anche che aveva un paio di graffi che saltavano all’occhio come il rossetto sulla bocca di un uomo e vidi la Porsche, placida all’ombra dell’unico albero.

Improvvisamente l’orizzonte si riempì di un lampo apocalittico, che non mi accecò solo perché in quel momento avevo la testa china a contemplare gli occhi azzurri delle creature. Fu come il flash di una macchina fotografica, ma moltiplicato per dieci milioni. La cabina si illuminò che vidi ogni singola vite, la logora membrana che rivestiva il pavimento con le sue numerose rughe e fenditure, le cuciture dei jeans, i lacci consunti delle mie scarpe e forse gli acari che li abitavano. Vidi lo sporco che si era insinuato negli interstizi e la mappa che il telaio descriveva sotto il piano di appoggio. La luce che inondò tutto si restrinse assieme alle porte che si chiudevano e poi si spense quando i battenti erano ancora aperti su quello che rimaneva del mondo. Fuori c’erano Ugo, la segretaria con le meches, il dirigente azionista, la Porsche e il TIR con tutte quelle ruote. Nel volgere di un secondo o forse meno, furono circondati dalle fiamme assieme all’unico albero e al mucchio di scatoloni vuoti, che divampò come la testa di un fiammifero.
La bordata di aria rovente arrivò dopo poco assieme ad un rumore infernale. La minima parte di essa, quella che era riuscita ad infilarsi nei pochi centimetri superstiti dell’apertura, entrò come un proiettile e per poco non mi decapitò. Sopravvissi perché l’ascensore stava già scendendo e perché era robusto quanto bastava per sopportare enormi sollecitazioni. Passai attraverso il parcheggio sotterraneo ed intravidi delle fiamme invadere il locale con la velocità di un uragano. Le auto saltavano in aria come petardi e delle lingue di fuoco stavano coinvolgendo i pilastri in un abbraccio mortale.
Scesi ancora.
A un metro da fine corsa i cavi che sorreggevano la cabina cedettero, e quest’ultima fece la parte residua del percorso precipitando. Si assestò sui molloni di arresto che sembravo finita in una centrifuga, con quattro felini impazziti che roteavano camminando sulle pareti come ragni. Per l’automatismo di molti anni le porte si aprirono per l’ultima volta, i gatti presero a correre alla ricerca di un riparo ed io trovai la lucidità di uscire un attimo prima che le porte si chiudessero, questa volta per sempre.
Faceva un caldo d’inferno nel magazzino.
L’incendio al piano sopra aveva arroventato la soletta e molti dei tubi elettrici assicurati al soffitto si stavano sciogliendo. Il fumo cominciò a insinuarsi nelle fenditure e le sirene dell’impianto antincendio, ormai alimentato dal gruppo elettrogeno che era partito spontaneamente assieme all’impianto per il ricircolo dell’aria, cominciarono a ululare assieme a una pioggia di acqua.
Durò tutto pochi minuti, fino a quando l’intera struttura del supermercato collassò in un frastuono tremante, precipitando sulle auto in fiamme e seppellendo per sempre quel posto.
Di colpo il fumo cessò di filtrare, il soffitto cominciò a raffreddare e tre piani di macerie sulla mia testa si prestarono a difendermi dalle radiazioni.
Corsi per i corridoi rischiando di ammazzarmi.
Lo feci gridando come una pazza e schivando gli scatoloni che precipitavano dagli scaffali disintegrandosi sul pavimento. Mi fermai, controllata da un residuo di buon senso, quando vidi un’intera fornitura di acido muriatico che si era schiacciata al suolo facendo aprire una decina di flaconi. Ora il liquido stava scorrendo in direzione degli utensili da meccanico lasciando un fumo acre e irrespirabile nell’aria. In alto, le scatole con le scarpiere da montare, pendevano minacciosamente verso lo scaffale dirimpetto, pieno fino al soffitto di accessori per il bagno. Se le scarpiere fossero cadute, pensai, avrebbero potuto innescare un effetto domino capace di distruggere l’enorme magazzino.
Il buio era durato lo spazio di un attimo.
Arrivò come portato dall’esplosione e venne subito affrontato dalla debole luce delle lampade di emergenza e poi dall’intervento del gruppo elettrogeno, che si era acceso automaticamente e aveva scelto la metà delle lampadine da alimentare. Ora tutto il magazzino sembrava una miniera, con polvere, odori aggressivi e cigolii sinistri di provenienza misteriosa.
Ma c’era l’aria.
L’ambiente era dotato di un impianto di ricircolo. Era stato realizzato durante la costruzione dell’ipermercato, assunto come obbligo inderogabile per avere le autorizzazioni contro la volontà dei padroni che ne avrebbero fatto volentieri a meno. Il magazzino non aveva finestre e l’aria che poteva essere prelevata dall’esterno era stata considerata insufficiente dai tecnici sanitari.
Questo voleva dire una cosa, che io non stavo respirando l’aria contaminata dalla radiazioni.
Ma erano radiazioni? Ma quell’esplosione alla quale avevo assistito era stata causa di un atto di guerra?
Magari era solo saltata in aria una raffineria o un impianto chimico.
Sapevo che non esisteva nulla di simile nel centro della città, da dove la luce aveva scaturito la sua forza devastatrice. Laggiù c’erano solo uffici, negozi e show room. C’erano poche librerie, molti ristoranti e una teoria senza fine di bar e sale da ballo. Un paio di caserme, questure con l’eterna fila di immigrati alla porta, musei e abitazioni, nulla che potesse esplodere scatenando dieci megatoni di potenza.
Rimandando il momento per piangere andai al settore elettrodomestici.
Dal momento che il mio telefono dava un laconico segnale di assenza di servizio, cercai una radio.
C’erano impianti di ogni tipo; sintonizzatori pieni di pretese che avevano una manopola enorme per cercare la stazione, apparecchi che funzionavano solo con un segnale satellitare, lettori cd ed mp3 con minacciose casse incorporate, strani cubi con poca potenza e con la promessa di deliziare il cliente all’ascolto.
La radio, come la intendevo io, piccola, maneggevole e con l’antenna retrattile non più lunga di dieci centimetri, la trovai solo dopo avere aperto una dozzina di scatoloni imbottiti di polistirolo.
L’accesi e la misi al lavorare su tutto il range di frequenze.
Nulla.
Ero sepolta viva sotto il palazzo e fuori, probabilmente, non era sopravvissuto nessuno.

L’esperimento con un televisore, che attaccai alla rete della corrente elettrica, fu altrettanto frustrante. Pur conoscendo piuttosto bene il magazzino, la disperazione, la stanchezza e la sincera paura di essere sul punto di morire, fecero in modo che impiegassi ore per cercare un decoder digitale e un’antenna posticcia, e quando le trovai ebbi la conferma di quello che già sapevo.
Neve.
Neve e disturbi di segnale sugli oltre duecento canali.
Non esistevano più i ripetitori, spazzati via dalla furia dell’esplosione come fuscelli, sciolti nel calore e cotti nel loro stesso brodo. A quel punto, che erano le otto di sera, crollai in ginocchio sotto lo schermo acceso del quarantadue pollici e cominciai a piangere.
Mi svegliai dopo molte ore con la TV accesa sulla sua ipnotica trasmissione fatta di nulla e la radio che scatarrava un messaggio registrato che pareva un appello alla calma e alla fiducia, ma trasmesso da un’altra dimensione.

Avevo dormito con la mano che faceva da cuscino e avevo sognato Michelangelo.
Era venuto a prendermi, materializzandosi davanti a me dalla cenere che un vento caldo aveva ammucchiato ai miei piedi. Si era composta una figura parziale, che respirava emettendo sbuffi di fumo e che tentava di parlare senza riuscire a farlo. Era brutto, puzzava di bruciato e la sua vicinanza inaridiva la gola fino a farmi tossire. Quando si accorgeva che dal mio sguardo non traspariva più l’amore che era abituato a vedere, si trasformava nuovamente in polvere e tentava immediatamente di ricomporsi in qualcosa di migliore. La cosa durò fino a che il mio sudore non formò una pozzanghera sul fondo della schiena.
Sognai anche i miei genitori, che erano andati al mare e che si erano scottati profondamente. Mia madre aveva la pelle del volto brunita e gonfiata come quella di un pollo arrosto e mio padre si staccava interi lembi di epidermide provocando l’emorragia di una sostanza giallastra. Respiravano emettendo suoni gutturali e si grattavano la testa in continuazione facendo cadere i capelli. Mio padre era diventato calvo in poco tempo, mentre mia madre conservava delle ciocche lunghe e precarie che, di tanto in tanto, si staccavano e finivano sulle spalle.
La cosa che feci, ancor prima di accorgermi che l’anello di fidanzamento che portavo al dito mi aveva marchiato la faccia come la coscia di un vitello, fu quella di controllare se i miei capelli esistevano ancora. Erano al loro posto, lunghi, forti, neri e ancora profumati dello shampoo ai frutti che avevo generosamente spalmato la mattina prima, quando la città esisteva ancora. Non avevo nausea, anzi. Un languorino di fame si era instaurato nel mio stomaco, e non solo a me, evidentemente.
Uno dei quattro gattini che avevo portato là sotto e che nell’ascensore erano impazziti come se fossero in un frullatore, era qualche metro oltre e aspettava che mi alzassi. Era una femmina, color ruggine con tante macchie disordinate a marezzare il pelo corto. Annusava l’aria come un segugio ed indietreggiava di un passo ad ogni mio movimento, per poi ritornare al suo posto dopo avere atteso qualche secondo.
La battezzai Baba Vanga.
Come la famosa veggente Bulgara, aveva visto la fine del mondo ed era rimasta cieca.

Spinta dall’abitudine, mi lavai i denti nonostante lo sconforto, e lo feci subito, fin dal primo giorno. Fu in quell’occasione che misi la prima scatola di dentifricio per compilare il mio personalissimo calendario.
Dopo avere sistemato la terza - antiplacca azione completa - comparvero gli altri gatti, evidentemente troppo affamati per temermi. Volevano mangiare e avevano trovato il coraggio di affrontarmi, anche se nelle loro convinzioni ero probabilmente la responsabile dell’ecatombe alla quale si erano sottratti per un soffio. Erano evidentemente dimagriti, prossimi al punto di non ritorno ma nonostante tutto, vistosamente cresciuti.
Se avevano potuto dissetarsi, attingendo alla pozza di acqua minerale che si era formata ai piedi di uno scatolone rimasto schiacciato dal crollo di uno scaffale, era certo che non avevano trovato cibo. Li avevo cercati invano a partire dal secondo giorno, dopo avere pianto abbastanza da sentire bruciare gli occhi e dopo essermi nutrita per tutto quel tempo con un pacco di crackers, trangugiato assieme a un succo di arancia che avevo strappato ad una grossa confezione di nylon. Mi ero aggirata nel labirinto di scatoloni per molte ore, con Vanga al seguito, cieca come una talpa ma già abituata ad orientarsi ascoltando il rumore dei miei passi.
Dopo ore di inutile ricerca li avevo immaginati schiacciati sotto la montagna di scatoloni con la cancelleria, che era collassata invadendo la porzione sud del magazzino. Facendolo, aveva coinvolto nel suo destino le scorte di concime naturale in sacchi, il terriccio per piante ed una serie di cazzuole, vanghe e decespugliatori che avrebbero fatto la felicità di qualsiasi pensionato. Solo dopo mi accorsi che avevano usato il terriccio per fare i loro bisogni. A quel punto, mi convinsi di lasciare tutto com’era e di attendere la loro iniziativa.

In quei giorni avevo sperato in qualche notizia dalla TV o dalla radio, che rimaneva ininterrottamente sintonizzata sulla stazione “The day after”. Dopo il messaggio registrato che pareva essersi esaurito, trasmetteva solamente fruscii indecifrabili e, di tanto in tanto, emetteva un incomprensibile singhiozzo elettrico. La hit parade, il dibattito elettorale, il gossip o le news dal mondo, non arrivavano mai.
Era stata la guerra, il concretizzarsi di anni di paure e paranoie, la definitiva consacrazione del decadimento dell’umanità, il sigillo messo su epoche di meschinità e vuoto di ideali. Fu così improvvisa e violenta che colse la gente nelle sue faccende quotidiane. Nessun rifugio, sirena d’allarme o appello alla calma. Non c’erano state edizioni straordinarie del telegiornale, interruzioni delle trasmissioni o veloci passaparola via internet. Forse non si erano nemmeno levati in volo gli aerei che avrebbero dovuto tentare di difenderci. Magari chissà, qualche generale era stato sorpreso nel suo ufficio a firmare un documento poco importante solo un attimo prima che una tempesta di vetri infranti nettasse la carne dal suo volto come un esercito di formiche rosse.
Il cielo era stato invaso da un nugolo di avvoltoi, pronti a precipitare sull’obiettivo che una sequenza alfanumerica aveva inserito nella loro memoria, e poi BUM! Intere metropoli cancellate dalla faccia della terra nel tempo di un sospiro rovente. Fuoco, vento ai trecento all’ora e sismi artificiali. Vista da lontano, dalle campagne, l’apocalisse nucleare doveva essere apparsa come centinaia di tornado illuminati dall’energia di mille lampi e proiettati oltre le nuvole ad insultare lo spazio.
BUM! Ed erano spariti milioni di corpi, inceneriti, soffocati, spezzettati in un’infinità di frammenti, mal digeriti dalla voracità del fungo atomico. Qualcuno doveva essersi accorto dell’inesorabile avanzare del vento, che si caricava dei cocci di quella che era stata una città, e che gli veniva incontro così veloce da non avere nemmeno il tempo di immaginarsi un rifugio. Qualcun altro aveva solo sentito una vampata di calore e poi aveva visto la sua anima dimenarsi sorpresa in una nuvola di vapore. Qualcuno era rimasto cieco e inebetito ad attendere che quel carro armato di satana lo travolgesse sotto i suoi cingoli. Era stata la guerra, e chi l’aveva decisa doveva essere al sicuro in un rifugio sotterraneo, circondato da viveri, medicinali e generi di prima necessità. Più o meno come me.

Qualche volta tentavo di organizzarmi, recuperando dal magazzino abiti puliti, coperte e prodotti per l’igiene personale.
In particolare, come se la cosa avesse potuto offrirmi qualche protezione dalle radiazioni nucleari, mi ero lavata continuamente con un disinfettante trovato nelle scorte della parafarmacia e avevo ingurgitato vitamine e pastiglie per a base di iodio. Mi ero anche guardata la gola allo specchio, ma non sembrava avere nulla di anormale. Al secondo giorno di trattamento, il mio intestino si ribellò e passai un’ora in bagno, con la porta spalancata sul magazzino e Vanga che mi aspettava di fuori, tentando di interpretare il mio stato di salute.
Ma in fondo stavo bene.
Avevo solo l’anima a pezzi, le palpebre consumate dalle lacrime e la consapevolezza che il sonno fosse solo portatore di terribili incubi.
Dopo qualche giorno, dopo avere dato da mangiare ai quattro gatti, andai nel vano dove era alloggiato il generatore di corrente e vidi che girava come un orologio. Stava attingendo del gasolio da un grosso serbatoio che avevano alloggiato sotto terra. Nelle intenzioni dei costruttori doveva servire a tenere vivo l’ipermercato qualora si fosse verificato un guasto all’impianto di fornitura del gas, e adesso stava tenendo viva me, dandomi la luce e facendo circolare l’aria attraverso i filtri.
Dopo il sopralluogo mi accorsi che Vanga mi aveva seguita fino a lì e che sembrava volesse darmi il suo parere tecnico sul buon funzionamento dell’impianto. I suoi occhi inespressivi fissavano un punto lontano qualche metro da me, correggendo la traiettoria a seconda dell’intensità del mio respiro. Per aiutarla parlai, e lei indirizzò il nasino, marrone con piccole macchie nere, esattamente nella mia direzione. Tornando indietro decisi di fare il giro lungo del magazzino e approfittai per spegnere le luci inutili. A ogni mucchio di scatole, a ogni scaffale in ferro, illustravo la merce come se stessi conferendo con un rappresentante. Vanga si sedeva e mi ascoltava con attenzione e quella fu la prima volta che mi concessi un sorriso.
Ancora nessuna caduta dei capelli, dolore al ventre o segni di debolezza organica. Anche i tre fratellini sembravano stare bene.
Si erano organizzati un loro piccolo villaggio, approfittando di una serie di scatoloni di viveri che avevo trascinato fino al mio alloggio, un giaciglio fatto con il telaio di un letto montato di malavoglia, un materasso in lattice e la scrivania del magazzino apparecchiata per i pasti. Solo dopo aggiunsi un tocco di classe, montandomi dei mobili senza nemmeno consultare le istruzioni. Mi ero liberata dei timbri che tenevo nei cassetti, dei registri e di alcuni formulari in carta copiativa e avevo messo al loro posto una serie di posate recuperate nel settore casalinghi, senza naturalmente badare al prezzo.
Fu in quell’occasione che decisi di dare un nome ai tre sopravvissuti. Due di loro mostravano orgogliosi dei testicoli appena spuntati, la terza era una femmina e andava a dare manforte a Vanga. La femmina vedente, stava masticando con impegno il bordo di uno scatolone. Non che avesse fame, perché non le facevo mancare niente, semplicemente si divertiva a staccare dei brandelli di cartone con i denti, per poi disfarsene scuotendo la testa.
La chiamai Morsica.
Gli altri due, maschiacci impertinenti e un po’ grossolani, se le stavano dando di santa ragione, attenti a non cadere dallo scatolone che avevano eletto a loro ring.
Quello rosso con la pettorina bianca lo chiamai Rocky. Quello grigio, Apollo.
Mi accorsi che avevo le labbra atteggiate a sorriso, che ero viva ed il momento di dormire era ancora lontano.

Forse fuori si aggiravano orde di zombie con la pelle che si staccava a brandelli dal volto, con i ventri gonfi in modo abnorme e il colorito del viso preso in prestito al bianco. Qualcuno di loro stava defecando i suoi stessi intestini, altri bruciavano in quel forno a microonde che era diventato il mondo, altri ancora imploravano che finisse tutto, rivolgendo le loro preghiere ad un cielo con il colore della cenere.
Rocky smise di picchiarsi con il suo fratellino e si sedette sulla scatola a guardarmi. Gli altri lo imitarono, compresa Vanga, che aveva smesso di farsi il bidet. Anche loro, forse, si stavano immaginando il mondo.
Sola, immersa in una bolla di chiarore polveroso al centro di un enorme magazzino, mi misi a riflettere e mi resi conto che le confezioni di dentifricio, allineate al limitare della luce, erano ormai sette.
Mi alzai, presi un’ottava scatola e la misi di traverso su quelle altre.
Coraggio, mi dissi, domani sarà venerdì.

Quattordici confezioni di dentifricio. Non aveva senso parlare di giorni.
I giorni hanno un principio, una fine ed il sole nel cielo che descrive un arco più o meno accentuato. I giorni hanno un cuore pulsante che accelera nell’occasione di certi, speciali avvenimenti e rallenta in prossimità della notte. I giorni sono fatti di speranze, di occhi che si perdono in panorami immensi o che lacrimano nel baluginare del sole che saluta, proiettando la sua ultima immagine nell’illusione di un tramonto. I giorni hanno vita e morte, amore, odio e sentimenti contrastanti. Sono caldi, sono freddi, asciutti o bagnati. Qualche volta il vento ne spettina i contorni, altre volte la noiosa omologazione al grigio se ne impossessa, rimandando al giorno seguente il carnevale di colori. I giorni hanno un nome, un numero e una storia. Appartengono a un calendario che abbina loro un santo e possono avere il marchio dell’infamia o della gioia. Si possono dimenticare o ricordare, possono essere giusti o sbagliati, interminabili o semplicemente troppo corti per fare quello che si aveva in mente. Sotto tre piani di macerie, merce, corpi senza vita e polvere, schiacciati come una serpe sull’autostrada dall’olocausto nucleare, i giorni hanno un valore relativo, scanditi da un volgare orologio a batterie che rappresenta un datario a cifre digitali e, beffardamente, le previsioni di tendenza meteo. Oggi parlano di sole pieno, anche se temo che là fuori, un’eterna notte si sia impossessata di ogni cosa. Radio e TV non dicono niente.

I gatti, cresciuti di un bel po’ dal giorno del giudizio, non mi lasciano un attimo da sola.
Su quattro che sono, almeno due sono sempre a mia disposizione.
Vanga, per esempio, si assenta solo per andare in bagno e Rocky è un gran coccolone. Si avviluppa attorno al collo come una sciarpa e infonde la sua generosa dose di robuste fusa. Alle volte la cerimonia dura per mezz’ora e oltre, altre si mixa con il sonno che mi coglie di sorpresa.
In quell’occasione, mi sono accorta, il dormire non produce i soliti incubi.
Ho la sensazione che Rocky assorba i brutti sogni, li metabolizzi e li trasformi in qualcosa di inerte.
È un terapeuta con la specializzazione in psicologia. Se dovessi ammalarmi sarà il primo a prenderne atto.
Apollo è giocherellone e dispettoso. Tende agguati dietro gli scatoloni, sculetta sotto gli scaffali in attesa che la sua vittima attraversi ignara il suo spazio, sveglia chiunque stia dormendo e morde. Le code, le orecchie, la schiena. Tutto quello che passa a portata di zanne, lui lo addenta.
Morsica, la gatta appassionata del cartone, è fra tutti la più discreta. Si avvicina solo quando pensa di non essere vista e mangia con meno voracità rispetto agli altri. Fra tutti è quella che ha capito per prima la cecità di Vanga e per questo con lei non ingaggia mai lotte o dispute.
Al quindicesimo giorno, stanca di carne in scatola, tonno in scatola, ananas in scatola e pesche sciroppate in scatola, andai alla ricerca di un fornelletto a gas. Esisteva ma andava caricato. La prospettiva mi creò ansia. Ero sopravvissuta a una prima esplosione per miracolo e non volevo provocarne una seconda, congelarmi le mani con una fuoriuscita o banalmente intossicarmi. Fra le poche cose che non si trovavano la sotto, le armi erano fra quelle. Non potevo permettermi di ferirmi in modo grave e cominciare ad agonizzare senza la prospettiva di potermi suicidare. La mia attenzione, pertanto, venne attirata da una piastra elettrica, che occhieggiava dietro le scorte di pentole in alluminio nella sua bella scatola con ricettario incorporato.

Quella sera cucinai dei fagioli facendoli cuocere dentro un bel soffritto di cipolle. Lo sfrigolio in padella allontanò i gatti per un momento, compresa Vanga. Mi accorsi solo dopo che stava annusando l’aria alle mie spalle per capire di quanto cattivo gusto fossero dotati gli umani in materia di cibo. Per riconquistare la sua fiducia, aprii una scatoletta con crostacei e pesce dell’oceano (così diceva l’etichetta) e gliela diedi da mangiare. Di quella marca, gusto e formato, dovevano essercene almeno un paio di migliaia. Il TIR che l’aveva consegnate il giorno della bomba era probabilmente da qualche parte in città, ridotto ad uno scheletro di acciaio fumante e annerito.
Insieme al magone ingurgitai il mio primo pasto caldo da sopravvissuta alla guerra nucleare.
Allora non seppi dire se era rassegnazione la mia, un principio di lucida follia o la voglia di annientare i pensieri, ma stavo incominciando a comportarmi come se fosse tutto normale. Più tardi mi addormentai.
Le luci artificiali, l’assenza di alternanza fra giorno e notte e un naturale e prevedibile ottundimento dei sensi, mi stavano provocando una confusione metabolica. Cominciai a temere che presto mi sarei trasformata in una creatura degli abissi, che i gatti sarebbero diventati albini e ciechi e che avrebbero infine sopportato una metamorfosi in pericolosi predatori di carne umana.
Per adesso erano rassegnati a dormire.
Il castello di scatoloni si era arricchito di tappeti, cuscini e ammennicoli a molla che avevo sistemato un po’ ovunque. Erano le 17.30 e, per quella sera, non avevo previsto di andare a ballare.

«Dio, se esisti, ricevi l’anima di Michelangelo, dei miei genitori e…»
Si dice “ricevi” o e meglio dire “accogli”?
Non avevo mai pregato prima della guerra. Diciamo che non padroneggiavo il giusto repertorio di parole e tutti quegli accorgimenti per non fare la figura della cattiva fedele. Queste cose si imparavano andando in chiesa e facendo un po’ di esercizio quotidiano. Il fatto che fossi sopravvissuta per tre mesi alla terza guerra mondiale, mi fece concludere che Dio ti giudicava da quanto eri una brava persona e non, evidentemente, da quante volte al giorno lo chiamavi in causa. Io, ai suoi occhi, dovevo essere una gran brava persona.
Allora, intanto non devo mettere in dubbio la sua esistenza, altrimenti non è una preghiera, è una querelle scientifica. «Dio, accogli l’anima di Michelangelo, dei miei genitori e di Marzia, la mia collega del reparto profumi, di Salvatore e Cristiano alla vigilanza e Ugo. Sì Dio, io Ugo lo prendevo sempre in giro ma gli volevo un bene dell’anima…Volevo un po’ meno bene al dirigente che ho visto disintegrarsi sotto la bomba ma sì, accogli anche l’anima sua...» La preghiera seguitò in barba ai dettami della chiesa e ricomprese i nomi di un’altra cinquantina di persone alle quali avevo voluto bene per qualche motivo.
Avevo sentito dire che la preghiera aiutava le anime dei morti a superare certi ostacoli sul loro percorso e allora, una volta mangiato, constatato che ero in salute e che i gatti stavano bene e crescevano a vista d’occhio, avevo deciso di dedicare un po’ di tempo al mistico. Infine feci anche un pensierino per Cagliostro, il Setter irlandese dei miei genitori.
Di tempo ne avevo un’eternità. Quel giorno mi tagliai i capelli e limai per bene le unghie. Da una settimana, da quando mi ero accorta che stavo diventando pallida in modo patologico, avevo cercato in magazzino un piccolo solarium che ricordavo di avere visto esposto ai piani, l’avevo installato e fatto funzionare. Il mio incarnato cominciò ad assumere un colorito accettabile.
Solo che il piccolo solarium chiedeva un tributo di energia molto grande, assieme alla piastra per cucinare e all’impianto di depurazione dell’aria. La cisterna con il gasolio, che avevo ispezionato picchiettando con le nocche sulla parete fredda, doveva essersi svuotata di un terzo almeno.
Il conto era facile da fare: se ero sopravvissuta tre mesi e se volevo sopravviverne almeno nove, dovevo rinunciare a qualche confort.
«Va bene Dio, allora rinuncerò alla tintarella e anche alla piastra elettrica…Promettimi che non salterò in aria tentando di caricare il gas nel fornello da campeggio…» Attesi. Tre dei quattro felini avevano gli occhi che rifrangevano la poca luce e mi stavano guardando come se fossi pazza. Vanga, con gli occhi rivestiti da quella patina bianca che si era formata, non rifletteva nulla, ma curiosa aspettava che finissi di pregare. Morsica aveva le orecchie dritte, orientate come radar nella mia direzione. Rocky e Apollo si erano consultati con uno sguardo e scambiandosi una reciproca strizzata di palpebre.
«E infine Dio, se non ti chiedo troppo, vorrei essere soccorsa. Dai, lo so che non sono morti tutti là fuori, che magari quella cosa dell’inverno nucleare era una cazzata e che da qualche parte, nel mezzo dell’oceano o sul fondo di qualche valle sperduta, c’è l’aria buona, il sole e la gente. Si saranno pure radunati quelli rimasti vivi, o no? Saranno passati dei soldati e avranno finito di sterminarli? Si sarà instaurata una dittatura sanguinaria dove vigono leggi crudeli? Si saranno uccisi l’uno con l’altro fino a estinguersi? Avranno abbracciato tutti la fede e si saranno rasati il capo in segno di prostrazione a te, Dio? Ti avranno sostituito con chissà chi?»
Non arrivò risposta. Nessuna vocina nella mia testa, nessuna ispirazione. Abbandonai il cuscino sul quale mi ero inginocchiata e mi misi a correre nel magazzino. Lo facevo ogni giorno da ormai un mese.
Torcia elettrica alla mano, mi esercitavo percorrendo il periplo degli scaffali, variavo attraversando gli alimentari e abbigliamento e finivo con un bello sprint attraverso il reparto mobili. Il frigo, l’enorme frigo che io stessa avevo spento al terzo giorno dopo essermi preparata una borsa ghiaccio di viveri da consumare subito, era chiuso e sigillato, con tonnellate di cibo marcio al suo interno.
Se lo avessi aperto sarei morta per le esalazioni. Per la verità, passandovi accanto e affinando l’olfatto, si sentiva un olezzo di morte provenire dalla cella e dei rumori come se enormi ratti lo avessero popolato, increduli di avere a loro disposizione tutta quella sterminata abbondanza.
Furono i gatti a farmelo notare. Quando passeggiavamo per ingannare l’eternità, loro si tenevano prudentemente lontani da quella porta. Era terra proibita. Insieme al punto dove si era versato l’acido era la zona off limit, la terra di nessuno, la landa ammorbata sulla quale nessun piede o zampa dovevano posarsi.

Posai delle recinzioni.

Con un nastro segnaletico che avevo saccheggiato al reparto bricolage, organizzai delle belle delimitazioni, che si presentarono fosforescenti sotto la luce della mia torcia led.
Corsi apprezzando la morbida consistenza delle mie scarpe a gel, scelte fra altri venti differenti modelli: reparto sport e tempo libero. Queste ultime avevano quell’odore di gomma che mi faceva ricordare le escursioni serali al parco, con Caterina, Marica e Loretta. Facevamo girare la testa a tanti di quei maschi che sembrava lo spalto di uno stadio, con migliaia di spettatori arrapati a seguire il ribaltamento dell’azione. Caterina, Marica e Loretta dovevano essere morte, probabilmente sorprese dalla bomba nei rispettivi uffici. Le ricordavo belle e solari e fui orgogliosa di avere pregato per loro.
A ogni giro si presentava il solito, noioso panorama
C’erano gli scaffali con i superalcolici, la dispensa con vini anche di buona marca che avevo già intaccato, i pacchi enormi di caffè, zucchero e farina. Alla svolta si apriva un orizzonte di prodotti per le pulizie domestiche, oli e conserve. Più in là pane e grissini a lunga conservazione.
Al passaggio di fronte agli articoli per la scuola imprecai.
Non c’erano libri in quel posto. Quelli, appena arrivavano all’ipermercato, venivano immediatamente sistemati sui banchi sotto le luci ammiccanti. Non scendevano al secondo piano sottoterra. Loro, assieme ai dischi e ai film, venivano lasciati sopra, pronti all’acquisto e ora erano sepolti assieme ai morti.
Questa cosa fu quella che più contribuì alla costruzione dell’eternità.
Primo passaggio accanto al mio alloggio.
Riconobbi che c’era un po’ di disordine, che avevo lasciato il letto sfatto e le ciabatte buttate in giro.
Non avevo lavato la padella nemmeno quel giorno. Avevo deciso che l’avrei cambiata sistematicamente, fino a che non ne fossero avanzate solo dieci. A quel punto, era stabilito, avrei cominciato a lavarle.
Al secondo passaggio allo scaffale intimo uomo e donna, vidi Vanga piazzata a prendere il tempo. Aveva le orecchie così attente a percepire il minimo suono, che avrebbe battuto un pipistrello al buio: di necessità virtù 1 – sonar 0.
Mi fermai prima di essermi stancata troppo.
La sopravvivenza presupponeva di non avere bisogno di un medico, di una flebo o di un massaggio cardiaco. A pensarci bene sarei uscita a pezzi anche da una slogatura.
L’eco dei miei passi venne riprodotto dal soffitto altissimo, e riprodotto, e riprodotto…
Ferma, dopo il quinto o sesto respiro, mi accorsi che i passi non si arrestavano, proseguivano trascinandosi appresso un fiatone. Battevano in terra senza garbo, lasciando che la gomma producesse, strusciando, fischi ad alto volume. L’atmosfera, tanto per capirci, era quella di una partita di tennis sul sintetico, dentro un palazzetto con diecimila spettatori ammutoliti dall’intensità dello scambio.
La sopravvivenza presupponeva di conservare la salute, quella mentale soprattutto.
Quel giorno, lentamente ma inesorabilmente, cominciai a perderla.
Il mio alloggio, da area virtuale non tangibile, divenne presto una fortezza.
Trascinai dei pannelli di cartongesso che avevo preso al bricolage. Ne portai talmente tanti che, dopo ore, avevo i muscoli completamente indolenziti ed un principio di epicondilite.
Adoperando un avvitatore elettrico fissai delle staffe e formai dei pannelli più grossi, che rinforzai con delle nervature e accoppiai insieme raddoppiandone lo spessore. Collegai questi muri prefabbricati alle enormi scaffalature adoperando le staffe piegate Una volta terminato dovevo entrare con l’aiuto di una scala da imbianchino, che tiravo dentro ogni volta. Vanga, Rocky, Apollo e Morsica viaggiavano all’interno di una coppia di portantini che non ebbi problemi a trovare fra le offerte in saldo dell’ipermercato. Quando avessi avuto voglia, mi ripromisi, avrei fatto loro un piccolo passaggio alla base dei muri.
Nell’illusione di fornire alla mia fortezza le sembianze di una vera camera, prelevai una specchiera dal reparto mobili e l’appesi alla parete.
Quello che vidi non mi piacque.
Avevo gli occhi ingialliti, circondati da piccole rughe e appoggiati su un paio di grosse borse. Il pallore virava al grigio e le labbra avevano perso quel rossore sano che mi piaceva tanto e i capelli, secchi e indisciplinati, cominciavano a mostrare qualche filo bianco. La pelle, priva dell’energia giovanile che ricordavo, sembrava essersi incollata agli zigomi e alle clavicole, insinuando il sospetto di un giallo a contatto con le ossa. Resettai quell’immagine dalla mia memoria, coprii lo specchio con un asciugamano e mi lasciai crollare nel letto.
Ora anche io avevo la mia scatola, e la cosa mi permise di dormire per un paio di notti senza incubi.
Ascoltai con attenzione se i passi che avevo sentito il giorno prima volessero ripetersi, ma nulla, solo le rassicuranti fusa dei felini e quel silenzio che era in grado di uccidere.
Sdraiata, guardai l’unico faretto acceso.
Pendeva dal soffitto attaccato ad un cavo d’acciaio.
Con un po’ di fantasia e concentrazione vedevo la luna. Attraverso il filtro delle lacrime, qualche volta, mi ricordava il transito delle nuvole nelle notti di plenilunio.

Con il tempo smisi di illudermi del giorno e della notte.
L’orologio digitale al muro si era spento e io non mi ero preoccupata di sostituire le batterie. La sveglia, quella che avevo impostato con il canto della capinera all’alba, era finita un mattino sotto i colpi di un martello. Era accaduto dopo una notte insonne, passata a rovistare nei ricordi sempre più tiepidi del mio passato e quel canto di uccello era stata la lama che aveva squarciato l’involucro sottile della mia sofferenza.
Per quanto ne sapevo potevano essere le dieci come le diciassette, le ventitré come mezzogiorno. Nemmeno le mestruazioni erano più regolari. Il concetto di ciclo era morto assieme al mondo stesso. La fame, la sete ed il sonno stabilivano ormai i ritmi della mia esistenza e le mie giornate trascorrevano a giocare con i miei amici pelosi, intrattenendoli con dei nastrini colorati o con delle palline di carta: i serpenti e i topini del loro mondo immaginario. Alla fine la noia vinceva e ci addormentavamo insieme.
Avevo imparato ad assecondare i loro ritmi e dormivo praticamente quanto loro, mentre fuori, probabilmente, era già inverno inoltrato.

Ho sentito gocciolare.
Nel silenzio assoluto, interrotto saltuariamente dalle accensioni del gruppo elettrogeno, qualcosa cadeva dal soffitto e provocava il classico rumore da grondaia bucata. Apollo, più degli altri, sembrava infastidito dalla cosa e mi confermava che la mia non era un’allucinazione uditiva.
Per riuscire a dormire mi immaginai di essere in una notte d’autunno, con Michelangelo al mio fianco avvolto nelle coperte, un freddo appena in grado di scalfire i muri e il tepore del riscaldamento acceso da poco. In sottofondo una musica classica invogliava il sonno e le spie verdi dello stereo proiettavano sul pavimento in legno una vaga luminescenza. I gatti avevano trovato posto nella scena, incastrandosi alla perfezione negli arredi della camera, fra la biancheria appena lavata e sulla cassapanca ai piedi del letto. Vanga, ancora sveglia, si leccava la pancia ronfando sonoramente. Mi sforzai di pensare a un caldo abbraccio, alla bocca del mio uomo e al vigore del suo corpo che prometteva di impossessarsi di me. Sentii il suo profumo ed il ritmo regolare del respiro.
Non funzionò.
Provai allora a proiettare nella mia fantasia qualcuno dei miei film preferiti, iniziando pazientemente a fare scorrere nei pensieri i titoli di testa, la sigla musicale e le scene d’esordio. Per fare le cose a modo, facevo precedere il tutto dai loghi di produzione e distribuzione. Quel film, in particolare, iniziava con due ballerini amalgamati in un cartone animato. Danzavano un tango contendendosi una sciarpa di seta e, dopo poco, compariva la scritta rossa del produttore che mutava i font dei caratteri assieme al pulsare della pellicola. Alla quarta o quinta scena, i dialoghi divennero confusi e incomprensibili e gli interpreti assumevano l’aspetto di persone malate. Anche la città che faceva da sfondo alla storia era divenuta irriconoscibile, con i palazzi sbriciolati in tanti montarozzi di macerie e le strade asfissiate da una polvere sottile e onnipresente. Neri avvoltoi popolavano il cielo spento e un fiume di melassa puzzolente percorreva il suo alveo trascinandosi un cappotto di fumo acido.
Non potevo concentrarmi perché sentivo gocciolare.
La pioggia aveva impregnato le macerie, formatto pozzanghere che si erano divise in centinaia di rivoli freddi. Qualcuno aveva trovato l’opposizione di un pannello, di un pilastro, del rimasuglio di un pavimento, qualcuno aveva riempito le cavità di un corpo, qualcuno aveva virato verso il mare in cui era destinato a morire. Uno, un singolo rivolo d’acqua piovana, aveva trovato la sua strada fino al soffitto, un cavedio di qualche impianto, la debole resistenza dell’intonaco e ploc… la prima goccia radioattiva era penetrata all’interno del magazzino.
Mi trasferii più lontano possibile dalla zona dello sgocciolamento e dovetti rinunciare alla mia scatola.
Per evitare che l’acqua contaminata si disperdesse ovunque, misi un secchio sotto la goccia e fuggii più veloce possibile. Nel posto dove andammo non si sentiva più il rumore.
Da quel giorno dovetti impedire ai gatti di allontanarsi, di contaminarsi e distribuire il loro carico di morte. Dopo averli tenuti chiusi per due giorni nei loro portantini, costruii una scatola ancora migliore e ancora più grande della prima, la dotai di bagni con sabbia e costrinsi le belve ad esserne prigioniere.
Non la presero bene. 
All’inizio ci furono dei veri e propri ammutinamenti, una serie lunga e antipatica di girate di spalle, miagolate che assomigliavano a grida di guerra e alcuni rocamboleschi tentativi di fuga, tutti frustrati sul nascere. Passammo così alcuni giorni, nei quali io dovetti impegnarmi a spostare al sicuro tutti i generi alimentari e i vestiti che potevano servire. Lavorai per quasi venti ore senza interruzione ma, alla fine, fui soddisfatta della nuova sistemazione, con tutto il necessario a portata di mano e una nuova casa.
Qualche ora dopo vidi che il soffitto aveva smesso di sgocciolare.
Fu la terza crisi di pianto che mi ridusse a uno straccio.
A nulla servirono le pastiglie di valeriana, che integrai con quelle di biancospino che rinforzai con quelle di iperico. Fui talmente squassata dai singhiozzi che a un certo punto credetti di smettere di respirare. Erano passati trecento giorni dall’esplosione e avevo sentito nuovamente i passi, delle voci che esordivano nelle mie orecchie con sempre maggiore frequenza e rumori indecifrabili, come uno stantuffo che si scaricava, un tostapane che faceva scattare i suoi toast ed un drone che volava per il magazzino. Vidi una serie di fantasmi in abito da sera, in tenuta da sci, nudi con abbondanza di grasso superfluo e in tuta anti radiazioni.
Uno in particolare mi inquietava. Era alto e robusto, muoveva le gambe come un burattino e avanzava nella mia direzione respirando rumorosamente. Dietro il vetro convesso della maschera si intravedevano due occhi inespressivi e rassegnati e il tubo corrugato che scaturiva dal filtro aggirava la spalla per finire in uno zaino.
Compariva e scompariva diverse volte al giorno, sempre occultato nella penombra o appena sfiorato dalla luce fioca delle poche lampade rimaste accese. Cercavo conforto stringendo il primo gatto che mi capitava a tiro. Mai come in quel momento ne fui così sicura. Vanga, Rocky, Apollo e Morsica mi avevano tenuta in vita. Avevo parlato con loro, giocato. Avevo atteso con ansia che fossero rientrati dalle  scorribande, avevo apprezzato la loro crescita, curato la loro salute. Mi era presa cura di tutte le loro esigenze e loro delle mie. Avevano saputo interpretare i momenti, capire l’attimo, leggere lo spartito dell’anima.

Forse chissà, si immaginavano un mondo diverso, che sognavano pieno di luce, aria buona e prati immensi nei quali correre all’inseguimento di qualche farfalla. Forse il loro istinto aveva codificato il calore del sole, l’odore della pioggia, il profumo della neve e l’ebrezza del vento asciutto dell’estate. Forse il loro istinto sapeva ricostruire quelle illusioni talmente bene, che per loro era sufficiente chiudere gli occhi e goderne. Qualche volta li vedevo tristi, dimessi, come se il peso di quell’esistenza stesse incominciando a fiaccare la schiena. La cosa durava poco e sembrava che una droga, benefica ed eccitante, invadesse i loro nervi, depurasse il sangue e donasse nuovi spunti ed energie. Se io sentivo le voci e sperimentavo le apparizioni, loro probabilmente si erano costruiti un magico giardino segreto. Non poteva essere che così. Non avrei potuto capire altrimenti quella beatitudine di cui godevano e la loro capacità di trasmettermela.

Ma noi umani cediamo alla ragione e prestiamo attenzione ai nostri freddi calcoli. Se i risultati non ci soddisfano, se le proiezioni sono insufficienti e le statistiche deficitarie, lasciamo che il pessimismo ci invada con quella sua marea nera e melmosa e che infine ci faccia affondare nel buio più intenso. Siamo fatti così, non c’è niente da fare.

Qualche giorno dopo il grande pianto, con Morsica che si strusciava sulla mia gamba, Vanga e Apollo rilassati sul letto ed il calore di Rocky sulla spalla, mi persi a fissare l’occhiello perfido del cappio che avevo preparato con la massima cura.

Il generatore di corrente si fermò all’improvviso.
Non tossì, non fece le bizze e non mi concesse una seconda possibilità. Insieme alla fine di quell’impercettibile vibrazione che avvertivo sul pavimento era cominciato il conto alla rovescia della mia esistenza. Vagavo nel buio con il solo ausilio delle luci a batteria e il ricircolo dell’aria non avveniva più. Se prima ero disposta a sopportare che un po’ della radioattività della pioggia potesse essere rimessa in circolo dall’impianto in piccole concentrazioni, adesso non potevo accettare che il biossido di carbonio nell’ambiente aumentasse di molte parti per milione al giorno. Le 360 parti per milione che la macchina garantiva, giocando ad imitare l’aria aperta, erano ormai un ricordo. Il leggero mal di testa, che da qualche tempo aveva cominciato a farmi compagnia, era diventato costante e, ultimamente, si accompagnava sempre più spesso con quella stanchezza inconfondibile, quella che si eredita dalla permanenza forzata in ambienti affollati.
Finsi che non fosse vero, che la suggestione mi stesse giocando brutti scherzi. La lieve nausea che esordì assieme a qualche giramento di testa, mi convinse che, per quanto fosse grande il volume di quel magazzino, io e i quattro pelosi lo stavamo lentamente avvelenando con il nostro metabolismo.
Cercai invano un spiffero, una corrente d’aria o qualcosa che mi convincesse che c’era un ricambio, ma la candela con la quale andai in giro per ore e ore, come una domestica del millesettecento in un grande castello, aveva la fiamma che pareva immortalata in una fotografia.
Lasciai i gatti liberi di circolare attraverso le praterie buie del nostro mondo segreto, mi armai di un grosso coltello e squarciai numerosi pacchi di mangime che lasciai in giro negli angoli più disparati. Rimboccai di acqua decine di ciotole e stoviglie e le misi bene in vista.
Nonostante la rinnovata libertà, Vanga, cieca come una talpa e Apollo, il mio terapeuta di fiducia, rimasero con me, mentre alla luce di una torcia elettrica scrissi la mia lettera di commiato dal mondo.

Mi chiamo Nadia, ho ventotto anni e sono nata in un piccolo paese di periferia.
Ho avuto una vita felice, nonostante il mondo abbia fatto del suo meglio per impedirmelo.
I miei genitori erano delle brave persone, tutte d’un pezzo, timorose di Dio e convinte che la bontà d’animo fosse un assegno circolare da incassare alla bisogna. Mi hanno insegnato a essere contenta di quello che si ha, ed io lo sono stata. Ho vissuto molto di più della buona parte delle persone di questo mondo e ho messo in pratica quello che avevo imparato da loro.
Avevo fidanzato, Michelangelo, del quale non ho foto nel portafoglio o lettere scritte con l’inchiostro profumato. Se volete vedere chi fosse, quanto era bello e di quali proprietà miracolose era capace il suo sorriso, nella memoria del mio cellulare, che lascio in vista ai miei piedi, troverete un bel po’ di ritratti…oops, se vorrete riservarmi la cortesia di non guardare le ultime cartelle ve ne sarei grata. Lì compare nudo, un nudo artistico beninteso, ma pur sempre nudo!
Ho una laurea in biologia che mi ha spalancato le porte del lavoro, facendomi assumere in questo supermercato come inserviente prima e magazziniere poi.
Vi prego, non ridete. Questi sono i tempi in cui ho vissuto.

Una scarica di tosse mi prese alla sprovvista. Assieme a una certa secchezza delle fauci mi mise nelle condizioni di dovere sospendere la scrittura per un po’. Morsica, intanto, si era accovacciata sui miei piedi e aveva incominciato un’attenta manutenzione e pulizia degli artigli posteriori.

A giudicare dalle trecentoundici scatole di dentifricio che ho allineato per tenere aggiornato un calendario, e dai giorni che sono passati dopo che ho smesso di farlo a causa della rassegnazione, deve essere passato quasi un anno da quando sono rimasta intrappolata qui sotto.
Fuori è estate! Fortunati quelli che la potranno godere!
Sono sicura che, da qualche parte, le bombe non sono arrivate, le correnti hanno tenuto lontano i veleni e il vento ha soffiato contro l’inverno nucleare. Da qualche parte ci deve essere gente che gioca a palla, che si rincorre nei campi, che nuota nel mare, prende il sole e si disseta ad una fonte di acqua pura.
Vi prego, quando troverete il mio corpo, sarebbe bello se poteste portarlo fino a là.
Come sono sopravvissuta non lo spiego, e nemmeno come hanno fatto i mie amici gatti, Vanga, Morsica, Apollo e Rocky. Troppo facile capirlo dalle numerose confezioni di cibo che abbiamo consumato in tutto questo tempo e da tutte quelle bottiglie rimaste vuote.
Nb: il vino l’ho bevuto solo nei momenti di maggiore sconforto, non mi giudicate male e non vogliate attribuirmi vizi sconsiderati.
Ma adesso sta incominciando a mancare l’aria e noi esseri viventi siamo fatti così, non riusciamo proprio a farne a meno.
Peccato, perché c’era ancora da mangiare per anni interi, magari non formalizzandosi con le date di scadenza, ma si poteva vivere ancora a lungo.
Senza i miei gatti non ce l’avrei fatta nemmeno ad arrivare fino ad oggi.
La pazzia l’avrebbe avuta vinta prima del tempo e la salute si sarebbe deteriorata assai in fretta. Oggi non ho il coraggio di guardare allo specchio il grigiore della mia faccia, temo di avere un paio di denti guasti e sento che il mio intestino si è impigrito in maniera preoccupante. Ma potere parlare col loro ogni giorno, raccontare a puntate la storia della mia vita, addormentarsi con il calore dei loro corpi addosso, è stato impagabile.
Li vedrete come sono grandi e robusti. Spiccano salti come canguri, corrono alla pari di un uragano e sfoggiano il vigore e la forza della gioventù. Ah, Vanga, la micia con il pelo con della macchie sparse in color ruggine, è cieca. Non la sopprimete per l’amor di Dio. E’ sveglia, indipendente e sarebbe in grado di portare a spasso un cane per non vedenti. È la migliore, ed è l’unica che quel giorno ha visto brillare il gran sole.
Gli altri sono semplicemente dei tesori, chi specializzato in medicina, chi compagna di dormite, chi tenero attira coccole. Sappiate che nessuno dei quattro si è mai lamentato, almeno fino a ora.
Lo so che il suicidio è peccato.
Credo tuttavia che, dopo la guerra, dopo che tutta questa gente ha fatto partire i missili senza porsi troppi scrupoli, l’inferno abbia il tutto esaurito per un bel po’. Quindi Dio mi perdonerà. Mi perdoneranno anche i pelosi, che rimarranno a lungo senza la mia compagnia.
A quel punto piansi.

Una lacrima andò a sciogliere l’inchiostro fresco dalle parti della parola guerra, la cancellò, praticamente. La cosa non mi dispiacque, e la volli interpretare come un segno di Dio, che aveva capito e già perdonato il gesto che stavo per compiere.
Ero diventata religiosa lì sotto. Del resto la fede era una delle strade per non imbruttirsi, cadere nella follia o ammalarsi prima del tempo.
Guardai il cappio che avevo appeso ad uno scaffale in alto.
Beffardamente, lo sgabello che avevo sistemato sotto, lo avevo montato con le mie mani, chiave a brugola e un sorriso amaro che bruciava sulla faccia.
Salutai i miei amici con una carezza per uno e appresi che avevano capito.
In silenzio, seguirono i pochi passi che mi separavano dal patibolo.
La spiaggia era così piatta che il mare cominciava a prendersi sul serio solo dopo qualche centinaio di metri. L’acqua, fino a quel punto, era di un azzurro così tenue che a tratti su confondeva col bianco della sabbia. In lontananza una fila di atolli giocava a nascondino con le vele e le nuvole correvano la loro gara sullo sfondo blu acceso del cielo mattutino. L’unica nota per così dire stonata, era una palma incurvata in modo un po’ brusco, come se fosse venuta al mondo litigando con il vento. A guardare bene, anche la curva del golfo aveva un’armonia imperfetta, come se il più talentuoso dei disegnatori si fosse impegnato a inventarsi ellissi vertiginosi e raccordi troppo audaci. Più in là, dove la sabbia cominciava a cedere spazio alla terra dura, uno stagno verde come l’erba brillava sotto il sole, con dei bambini che si divertivano a corrergli intorno. Le grida e le risa che i giochi d’infanzia facevano scaturire da quelle giovani vite, arrivavano attenuate dalla brezza sottile che carezzava la pelle nuda.

L’uomo con la tuta anti radiazioni, la maschera e il tubo nero corrugato che si dipartiva dal viso verso uno zaino che portava sulla spalle, era a pochi passi da me. Devo dire che in costume da bagno faceva la sua figura, con due gambe ben tornite, il petto scolpito sotto una lieve peluria e quel collo taurino al quale mi ero abbracciata più di una volta.
Quando lo vidi arrivare avevo il cappio che girava intorno al collo. Sentivo la corda pungere e lo sgabello tremare incerto sotto i miei piedi.
Non gli diedi peso.
Assieme alle allucinazioni uditive, quelle visive avevano caratterizzato i miei ultimi giorni di permanenza nel magazzino, due piani sotto terra. In quel periodo la mia mente si era divertita a ingannarmi, a prendere in giro i miei sensi. Quindi cosa poteva valere l’ennesima allucinazione?
Prima di passare ai fatti mi ero lavata, pettinata e vestita con abiti nuovi. Andando in giro per il magazzino alla loro ricerca sentii le gambe indebolirsi e la vista annebbiarsi ancora di più. Il tentativo di svitare il tubo di scarico del generatore, nella speranza di attingere dall’esterno un po’ di aria, seppure sicuramente contaminata, fallì miseramente, con la mano insanguinata per lo sforzo, troppo grande e inutile contro la resistenza ostinata di quei bulloni ossidati.
Quindi con la mano sana accomodai il cappio e radunai il coraggio per farlo.
Ma la fiamma della candela che avevo lasciato sul pavimento, inizialmente fissa, di quella fissità della morte, aveva preso a ondeggiare, a destra e poi a sinistra e Rocky, per nulla spaventato da quella presenza, si era già portato ai suoi piedi per iniziare una giostra di festeggiamenti al nuovo arrivato. Gli altri tre impertinenti felini, il pubblico non pagante della mia prossima inesorabile fine, lo avvicinarono a loro volta e cominciarono ad annusarlo.
Quando sì levò la maschera mi resi conto che non era un fantasma.
«Squadra di soccorso 2R6T» disse, «agente 0308. Mi congratulo con lei, signorina, avevamo perso le speranze di trovare qualcuno ancora vivo…» consultò un apparecchio che teneva legato alla manica della tuta. «A giudicare da quello che vedo, in questo ambiente si viaggia a 100 millisievert ora, una soglia tollerabile per l’uomo.»
«E per gli animali?» Domandai con la voce rotta dall’emozione mentre mi sfilavo il cappio dal collo.
Lui sorrise «Abbiamo bravissimi medici e anche dei bravi veterinari. Adesso la prego, signorina, mi segua sull’elicottero. Sa com’è, fuori non respiriamo esattamente un’aria termale e non possiamo permetterci di stazionare troppo a lungo.»
«Loro vengono con noi!» Intimai sbattendo il piede sullo sgabello, e lo feci con la convinzione che avrei avuto se la mia vita non fosse mai cambiata, se ogni cosa mi fosse stata dovuta in forza di leggi, leggi che avrei fatto rispettare a ogni costo.

Eravamo qualche migliaia almeno su quell’isola nel centro dell’oceano.

Non si era instaurata alcuna dittatura, la gente sopravvissuta era calma, positiva e sorridente. Grata di essere ancora al mondo.
Nell’entroterra si coltivava il grano e le patate e il riso e la frutta. Non c’erano allevamenti intensivi e nessuno mangiava più del necessario. Avevamo acqua in abbondanza e vino buono, che ogni mese una grossa nave sbarcava al piccolo molo.
Tutti, nessuno escluso, ne avevano avuto abbastanza della guerra, dei lutti, della sofferenza e di tutto il male del mondo.
Vanga, Morsica, Rocky e Apollo, trattati come dei re perché avrebbero contribuito a ripopolare di gatti il pianeta, si erano abituati subito a mangiare pesce.

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