giovedì 27 settembre 2018

IL DIARIO - Escursione con licenza nel genere horror (ovvero un vecchio racconto rivisitato)

 

Il diario














Oggi ho camminato tutto il giorno e i miei piedi sono ormai in condizioni penose. Sento la suola liquida. Non so se mi spiego, un misto di sudore e tessuto delle calze macerato. Ci deve essere insieme anche un po' di pelle, qualcosa di succulento per le formiche.
Quello che è successo non ha senso. Dove sono finiti i miei compagni di viaggio? Si tratta di uno scherzo di cattivo gusto? Sto pagando forse un peccato che non sapevo di avere commesso?

Mi sono perso, questo è certo. Come sia possibile perdersi nelle Alpi, nel cuore di un continente popolatissimo, non è dato a sapere. È successo, questo è quanto.
Nello zaino ho ancora un po’ di cibo: un paio di scatolette di tonno, del pane incartato alla meno peggio e un vasetto di crema al cioccolato. Di acqua, per fortuna, se ne trova un po’ ovunque da queste parti.
Ho camminato talmente tanto che ho visto i sentieri perdersi e ritrovarsi sotto i tacchi dei miei scarponi. Ora mi trovo in un sottobosco sconosciuto, con l'abitudine delle tinte di marrone tenue negli occhi. Per la verità è da tutto il giorno che vago attraverso paesaggi inediti, brutti quadri pennellati con un eccesso di ombre e scarsa fantasia. Non ho punti di riferimento, il sole e le cime si nascondono alla vista. Faccio fatica a seguire una direzione precisa senza pentirmi ogni venti passi.
Di scendere a valle non se ne parla. Sento scorrere un torrente impetuoso là in fondo. Meglio tenersi a debita distanza. Questa gola, stretta, fredda e inospitale, si lascia attraversare senza darmi la soddisfazione di mutare il paesaggio ma prima o poi, ne sono convinto, dovrebbe condurre a un punto panoramico, un posto da dove la situazione potrebbe diventare più chiara, e la mia posizione più comprensibile.  
Sono determinato ad annotare tutto su questo diario.
Io non ci voglio nemmeno pensare, ma se le cose dovessero prendere una piega drammatica, almeno troveranno qualcosa da raccontare ai miei cari quando il mio cadavere non avrà più nulla da dire.
Il telefono non ha segnale, nemmeno una tacca. Forse dovrei provare a salire su quello spunzone ma temo di pagare un tributo troppo pesante alla fatica, e se poi una volta arrivato la ricezione dovesse continuare a mancare…Insomma, meglio non rischiare, meglio mettersi al sicuro dalla tentazione di compiere un gesto insano, come quello di gettarmi direttamente da lassù.
Ho camminato per un’altra ora.
Quando ho posato il diario l’orologio segnava le 16 e 30, adesso sono le 17 e 27 e il panorama non è cambiato: rocce a strapiombo sui due lati, acqua limacciosa, alberi inerpicati in posti impossibili e qualche raggio di sole che di tanto in tanto riesce ad arrivare fino a qui.
Forse dovrei accendere un fuoco segnaletico, ma chi mi cercherebbe? Una persona viene dichiarata scomparsa dopo trentasei ore e io ho chiamato casa solo questa mattina. Maria era di ottimo umore e si augurava che tornassi presto. Mi ha passato Alessandra. Era felicissima di sentirmi, quella monella! Mi ha raccontato in mezzo minuto quello che aveva combinato in tutto il fine settimana.
Eravamo tutti insieme a quell'ora. Io e gli amici abbiamo mangiato colazione e poi ci siamo appisolati. Al mio risveglio, che potevano essere passati venti minuti al massimo, gli altri erano spariti.
Ho cercato a lungo, chiamandoli attraverso i ruderi di quella caserma abbandonata dove ci eravamo fermati a dormire. Un simile mucchio di pietre, travi marce e cavedi maleodoranti, non l’avevo mai visitato in vita mia. Tuttavia quel posto aveva il suo fascino. Mi chiedo col senno di poi perché l’ho abbandonato. C’erano dei ripari, dopotutto, costituiva un punto di riferimento per un eventuale ricerca, e soprattutto c’era il maledetto segnale del cellulare.
Ho mangiato una delle due scatolette di tonno con metà del pane che ho a disposizione.
Sono le 20 e 30 e comincia a fare freddo. Il maglione in pile nello zaino sarà per questa notte prossima ventura il mio migliore amico. Ho preferito non andare troppo oltre rispetto al punto dove mi sono fermato per compilare il penultimo aggiornamento del diario, e sto seriamente meditando di tornare sui miei passi.
La valle che sto percorrendo a un certo punto vira. Lo si capisce da quel tappo scuro che intravedo in lontananza. La cosa peggiore di questa constatazione è che, a quell’altezza, la strada riprende a salire e il torrente, con ogni probabilità, si getta dentro una cascata. Eviterei di trovarmi con buio in quei paraggi: potrei mettere un piede nel posto sbagliato e precipitare. A quel punto sarei spacciato, e nemmeno qualcuno potrà trovare il racconto delle mie memorie.
Sto cercando di ritornare ai ruderi.
Il tempo a disposizione prima che sia notte sta scadendo.
È meglio per me se individuo un posto appartato per ritirarmi. Sono sempre stato un po' fifone ma in questo caso mi sento al sicuro, almeno per ora. Laggiù c’è una nicchia nella roccia, una piccola grotta. Sembra asciutta e posso occultarla con dei rami. Non che ai lupi o agli orsi o ai cinghiali importi un granché se io mi nascondo; loro sentirebbero il mio odore a un miglio di distanza. Tuttavia, e non so perché, ho il sentore che non vi siano animali in questo angolo del bosco. A dire la verità nemmeno ho sentito cinguettare gli uccelli quest’oggi.
Quando ho detto che non avrei avuto paura, ho detto l’ultima e più grande stupidaggine della mia vita!
Le tenebre hanno inondato questa crepa nella montagna in cui mi trovo da due ore, e l'hanno fatto in un attimo. Sento che sto per cedere a una crisi di nervi. Ho faticato. Ho faticato ad accendere la pila che mi sta facendo luce su questa pagina, e la biro trema fra le dita. Mi rendo conto che è tutto solo frutto della mia fantasia, attivata dalla totale mancanza di riferimenti e da questa notte senza luna, che ricorda una colata di catrame. Ma giuro, giuro che mi è sembrato di sentire dei passi davanti a me, qualcosa che procedeva con tonfi sordi nel terreno che poi si tramutavano in vibrazioni profonde. Ho sentito muoversi le foglie e poi un respiro, che sembrava provenire da un grosso animale, o qualcosa di peggio. Forse sto descrivendo il passaggio di un cinghiale o una folata di vento o l'allegra transumanza di un branco di vermi. Di sicuro non uscirò a verificare, non prima di domani mattina.
Probabilmente stavo dormendo, anche se, onestamente, mi è sembrato di no.
Sono le tre e venti e ho sentito una voce che sussurrava il mio nome.
Dalla paura sono sobbalzato e ho sbattuto la testa contro il soffitto della piccola caverna. «Ludovico…» Ho sentito una prima volta, poi una seconda, solo qualche attimo dopo.
Probabilmente stavo dormendo.
Il fruscio del torrente a fondo valle è diventato parte delle mie abitudini.
Ora mi devo sforzare per percepirlo. Nel silenzio totale, invece, ho sentito qualcosa di pauroso. Un essere vivente è passato qui davanti e si è fermato a guardare nella mia direzione, ad  annusare. Io, per la verità, non so se qualcosa si sia messo in posa proprio di fronte a me, perché è buio pesto e perché non mi sono certo sognato di puntargli la torcia addosso, ma un’immagine di quella cosa si è formata nella mia testa, come un’istantanea, come un subliminale. Era talmente verosimile che mi si sono congelate le ossa e il fiato si è solidificato nei miei polmoni. 
Un rettile. 
A fatica non me la sono fatta addosso. Sono sicuro che qualcosa sia stato qui, e sono altrettanto certo che la medesima cosa se ne sia andata.
Sono soltanto le 4 e 10 e  i miei nervi bruciano come i fili della corrente troppo sottili.
Adesso basta con questo stupido diario.
Potrebbe essere lui ad alimentare le mie paranoie, a estrarre dal profondo le paure che da bambino avevo ricacciato in fondo a un buco.
Il cellulare ha ancora molta energia. È un modello datato: fa poche cose, bene e soprattutto evita di digerirsi la carica della batteria in sola mezza giornata. Credo che farò passare il tempo, qualche minuto almeno, facendo scorrere le numerose fotografie: di mia moglie, di mia figlia, del mio cane. Vorrò anche guardare bene in faccia i miei amici, quei figli di puttana che mi hanno abbandonato in questo bosco senza confini.
Sembra che il sole non voglia sorgere.
Forse un gigante cattivo lo tiene schiacciato dietro il crinale, e adesso sta soffocando e chiedendo aiuto.
Sì..sì, mi sto rendendo conto delle cazzate che scrivo ma non sono pazzo! Il tempo non passa e nemmeno ho il coraggio di guardare l’orologio. Adesso sto contando i miei respiri. In città avrebbero già chiamato l'ambulanza a vedermi ridotto in questo stato. Le ore del mattino sono le più fredde. Lo sapete il perché? Ve lo dico io: perché sono state fuori tutta la notte. Lo so, è una barzelletta idiota che andava di moda negli anni ‘80, ai tempi della scuola media. Mi fa ridere ancora oggi, che cosa ci posso fare?
Nello zaino c’è un mignon di genepì. Com'è stato possibile dimenticarselo! L’ho bevuto interamente facendo finta di non sentire l'esofago bruciare come l'inferno. L'ho fatto tanto ber ubriacare quella paura che mi ha fatto compagnia senza lasciarmi mai. No so se sia ortodosso come prima colazione, e non so nemmeno se si possa parlare di prima colazione, visto che è ancora buio, come tre ore fa, come cento anni fa. 
Mi sembra che verso oriente le tenebre si siano rotte, un primo, timido tentativo del giorno per scacciare a calci in culo questa notte eterna Ho deciso, uscirò dalla mia tana per andare incontro al sole. Questo posto appartato non ha impedito alla paura di farmi compagnia per tutto il tempo. Camminerò, perlomeno, e guadagnerò dei metri preziosi verso casa. Inoltre in questo modo andrò incontro all’alba.
Sono stanco per non avere dormito, ubriaco per avere bevuto alle cinque del mattino, affamato per non avere mangiato nulla.
Mi sono fermato e ho preparato un panino con quello che ho a disposizione. La luce naturale è sufficiente a farlo, senza confondere la crema da sole con quella di cioccolato. A giudicare dal sapore devo avere fatto le cose per bene.
Ho consultato il telefono. Accanto all’icona del segnale il deserto delle tacche. È strano, perché sto tornando indietro, sto tornando incontro al punto da dove ieri avevo telefonato a casa. Non dovrebbe mancare molto al luogo dove mi sono separato dai miei amici. Se continuo con questo passo deciso potrei arrivare sul posto prima di sera, sempre che non finisca con lo scivolare in un precipizio. 
Questa cosa di scrivere mentre cammino mi sta aiutando. Nella notte appena finita, questo taccuino ha tenuto a bada i mostri. Non il freddo, quello ha passato il tempo a morsicarmi le chiappe, ma i mostri sì: si sono liquefatti nel corsivo incerto che ha imbrattato quelle pagine nella penombra. Appena sarò arrivato a casa lo metterò in una teca e lo conserverò per sempre.
La salita che devo affrontare sembra piuttosto severa.
Ieri, ricordo, ho percorso questo stesso tratto in discesa. Devo dire che la pendenza non mi era sembrata tanto importante. Il fiato è corto e i piedi fanno male e si scivola sui ricci e sulle foglie morte e sulla terra umida. La vista del crinale a poco più di dieci minuti mi infonde forza di volontà e coraggio.
Sono arrivato.
La caserma abbandonata e lì, distesa sotto i miei occhi.
Si tratta di un complesso molto importante, del quale ieri non avevo apprezzato l’intera estensione. A guardare bene si nota anche l’avvallamento dove sorge, anzi, dove sorgeva. È artificiale. La caserma, o quel che diavolo era, fu costruita dentro una depressione, una specie di bacino, che evidentemente doveva servire a proteggerla da occhi indiscreti e probabilmente dai tiri diretti dei cannoni.
Sto scendendo, mi rendo conto che il terreno sotto i miei piedi è friabile e privo di vegetazione. C’è molto fango asciutto qui intorno. Anche i rimasugli delle vecchie murature, per la verità, sono semisepolti da uno strato di fango che presenta la superficie screpolata e polverosa. Non so come sia stato, ma ieri nessuno di noi, me compreso, si è accorto che quel complesso che abbiamo visitato doveva essere rimasto per anni, o addirittura per secoli nascosto sotto un lago.
Rieccomi.
Intorno a me le mura antiche, testimoni di un passato che non esiste più.
Il cellulare ha ripreso il segnale. C'è una tacca debole è instabile ma per me è già carnevale.
Giro fra le strutture divelte e prendo appunti.
Ho approfittato della buona carica della batteria per scattare ancora qualche foto.
Laggiù, dopo quel contrafforte e prima della fila di pilastri marci all’interno di una lunga camerata, c’è un edificio ancora praticamente intatto. Si può raggiungere percorrendo una strada lastricata, con un canale di scolo delle acque al centro.  
Dovrei arrivare in un paio di minuti.
Questo posto mette i brividi!
All’interno si notano gli scheletri metallici di alcune file di poltrone. Si vedono molle arrugginite, braccioli in legno masticati dal tempo e rimasugli di tessuto che penzolano come pelle morta.  Probabilmente si trattava di una sala conferenze, o di un cinema o di un teatro per le truppe, costrette all’isolamento in questo posto segreto, a molte ore di cammino dal paesino più vicino. Non riesco a comprendere che senso potesse avere questa installazione e nemmeno capisco che fine abbia fatto la strada che doveva servire a portare fin quassù uomini e vettovaglie. Magari in passato c’erano stati anche dei cannoni, da qualche parte. In ogni caso, comunque fossero organizzati, qui dentro dovevano esserci molti ospiti. Attraverso la porta principale si intravede un palco quasi spogliato del suo assito. Si presenta come un labirinto di corridoi, una specie di spaccato di un plastico illustrativo. Vetri rotti, lamiere, erbacce e piante la fanno da padrone, e non metterei un piede lì dentro nemmeno se fossi costretto.
La tacca sul cellulare, intanto, è definitivamente sparita.
Di continuare la visita non se ne parla nemmeno. Travi in legno pendono dai muri, rivolte verso il basso come impiccati.
Scatto qualche foto ancora. Le studierò con calma sul mio computer a casa, ingrandendole e sgranandole e godendomi i particolari, con un bicchiere di Jameson riserva speciale in una mano e il mouse in quell’altra.
Ecco, ho individuato la strada per andarmene. Ci siamo, si torna a casa!
Ssst, ho sentito delle voci!
Devono essere quei disgraziati dei miei amici che sono tornati per cercarmi.
Un gioco di echi mi confonde. Tento di andare verso nord, in direzione di quello che sembra un pozzo con tanto di carrucola, parapetto in pietra muschiata e ingranaggi per tirare su il secchio.
Sono loro per la miseria, sono loro! Ho visto Luigi passare e Renato, appena dopo di lui.
È finita, ma questa cosa la pagheranno cara!
Sono in fila indiana, vedo anche Marino. Sembrano dei dementi accompagnati nelle loro rispettive camere con le pareti imbottite Sono strani, molto strani. Per la verità sembra che abbiano brindato con la benzina. Pietro è dietro a loro…ma come si stanno muovendo? Ricordano dei sonnambuli.
Oddio, no: qui c’è qualcosa che non quadra! È  meglio che me ne stia nascosto dietro l'angolo. Non è normale quello che sta succedendo…mi sposto per vedere…Cazzo! C’è qualcuno che li sta minacciando con le armi, qualcuno grosso, cattivo e abituato a mettere paura alla gente. È in divisa.
Sono passati dieci minuti e sono disperato!
Non capisco per quale motivo. Non riesco a spiegarmi cosa stia succedendo!
Un paio di uomini, uno per parte, hanno preso un po' di rincorsa e hanno gettato Luigi nel pozzo, poi Renato ha fatto la stessa, schifosissima fine. Sembravano rassegnati alla loro sorte, come gli animali al macello. C’è quel passaggio obbligato che devono seguire e poi quegli occhi tristi e quel sentore di morte, insopportabile come la musica nell'ascensore.  La cosa pazzesca è che non hanno affatto reagito, non si è visto un minimo segno di ribellione. Sono stati drogati, sembra che la loro volontà sia stata azzerata.
Sono sveglio, per la miseria! Sono sveglio ed è tutto vero.
Mi sono spostato indietro di qualche metro. Fanculo il puzzo e la terra nel naso e il fango sotto le unghie e quelle ragnatele che ti si attorcigliano addosso. Non mi hanno visto e questa è l’unica cosa che conta! Forse posso ancora andarmene senza farmi notare. Devo trovare la strada e correre e non farmi sentire e arrivare al paese o almeno sperare che il telefono torni a funzionare.
Caro diario.
Non so se si usa ancora scrivere così, ma di sicuro quello che ho visto accadere è incredibile.
Sono nascosto sotto un vecchio palchetto. Forse aspetterò qui la notte per tentare di fuggire.
I miei amici, uno dopo l’altro, sono stati spinti in quel buco, in quello che mi è sembrato un pozzo. Non un grido, non un lamento. Parevano già morti. C’erano di sicuro una mezza dozzina di militari, credo. Erano persone in divisa, una qualche uniforme mimetica che non ho saputo riconoscere. Nessuna bandiera o distintivo o grado, e agivano sotto un comando superiore.
Ho visto il loro capo. In qualche modo l’ho anche fotografato.
Io non posso classificare meglio quello che mi è apparso, ho difficoltà a inserire quella figura fra le mie conoscenze. Di sicuro non era un uomo! Aveva fattezze antropomorfe, quello sì, ed era alto e pesante, sudato e schifoso ma non apparteneva al genere umano. Se io non dovessi sopravvivere, e se qualcuno verrà in possesso di questo taccuino, sappia che io ho visto u…
«Cosa ha scritto, su quel diario?»
Il tenente non risponde. Strizza gli occhi, sfoglia ancora qualche pagina e poi trae la sua conclusione.
«Mi dispiace, signor capitano. Il sangue ha imbrattato le ultime – mi faccia vedere – tre o quattro pagine. Arriva fino ad un punto dove parla della caserma abbandonata che probabilmente è stata per anni sommersa dall’acqua e che ci sono i resti di un vecchio teatro e bla, bla, bla. Poi non si legge più…»
«Meglio così. Quel documento lo mettiamo a rapporto, come allegazione…Ah, il cellulare distruggetelo subito!»
«Agli ordini signor capitano!»
L’ufficiale prende con sé il diario e lo porta via, tenendolo lontano dal corpo e con la punta di due dita. Non vuole sporcarsi con il sangue e con gli schizzi di cervello che hanno preso il posto delle parole scritte. Il cadavere giace carponi, con la faccia affondata nella polvere e quel buco in testa, fatto senza nessun riguardo.
Si incammina verso l’elicottero, intercetta lo sguardo di un paio di soldati e indica loro di mettere in pratica il solito protocollo, quello in uso per fare sparire i cadaveri.
Gli altri amici erano stati destinati al pozzo, e le cose erano andate per il verso giusto. Quell’idiota, ormai ridotto a un ammasso di carne morta, era stato sottoposto a  un trattamento di riguardo: la cancellazione della memoria. Doveva servire a un altro tipo di esperimento.
Doveva solo tornare a casa sua e fare quello per cui era stato programmato; non ricordare molte cose e ricordarne molte altre nel modo sbagliato. Per qualche motivo, invece, aveva deciso di andare nella direzione opposta, e loro nemmeno se ne erano accorti.
Ora qualche insolente scocciatore sarebbe anche venuto a cercarli.
Sotto la visiera del suo cappello si intuiscono appena i segni della paura e dell’umiliazione per quel fallimento.
Lo sa che non servirà a nulla, ma vuole farlo comunque, in segno di sottomissione.
Passa davanti al suo capo, con la testa china e lo sguardo concentrato sui lacci delle scarpe.
Inutile nascondersi, lui sa leggere nel pensiero.




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